La valle degli uomini liberi
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La valle degli uomini liberi

  1. 294 pagine
  2. Italian
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La valle degli uomini liberi

Informazioni su questo libro

Pare un duello interminabile quello che si consuma alla fine di un rigido inverno nell'aspra Valle piemontese del Pellice tra il generale francese Roland Berthier e il suo unico vero nemico, il fuorilegge Giacomo Spada, detto il Nibbio, comandante di una banda che resiste all'invasione dell'aquila napoleonica. Berthier ha combattuto grandi battaglie, come quella di Marengo, e si sente soffocare dalla noia in quella sperduta guarnigione fuori dal mondo: la sua unica via di fuga dalla realtà è l'idea di schiacciare quel drappello di irriducibili pezzenti. A ogni costo. Per questo decide di liberare il soldato Matteo Vinassa, condannato a morte per aver pugnalato un ufficiale francese. In cambio Matteo dovrà infiltrarsi tra i ribelli e portargli la testa del Nibbio: solo così tornerà a essere un uomo libero. Ma Berthier trascura la forza che nasce dalla disperazione e il potere che può sprigionarsi là dove la lealtà ha ancora un valore. Matteo, raggiunta la formazione del Nibbio, scoprirà infatti il carisma di una figura del tutto diversa dal feroce brigante che gli è stato descritto. Con La valle degli uomini liberi Alessandro Mondo ci racconta un'appassionante avventura che rievoca un'epoca dimenticata dalla storia ufficiale, l'epopea di un manipolo di uomini pronti a contrastare con ogni mezzo un nemico che si crede invincibile.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2011
Print ISBN
9788817053280
eBook ISBN
9788858622650

Dedica

A mio padre
“Il punto essenziale, per quanto riguarda i banditi sociali, è il fatto che essi sono fuorilegge rurali, ritenuti criminali dal Signore e dall’autorità statale, ma che pure restano all’interno della società contadina e sono considerati dalla loro gente eroi, campioni, vendicatori, combattenti per la giustizia, persino capi di movimenti di liberazione e comunque uomini degni di ammirazione, aiuto e appoggio.”

Eric J. Hobsbawm, I banditi. Il banditismo sociale nell’età moderna, Torino, Einaudi, 1971


“Piemontesi, estinguete, ve ne scongiuro, quello spirito d’intestine fazioni che strascinerebbe nell’avvilimento un popolo bravo e generoso. Que’ montigiani traviati che credono di servire alla religione ed al loro paese desolando l’una e l’altro, siano rischiarati dai buoni cittadini. Se mai ardissero di ostinarsi nel disordine, abbandonateli a tutto il rigor delle leggi.”

Proclama del generale in capo Brune al popolo piemontese, 7 settembre 1800
La trama e i personaggi citati in questo romanzo sono frutto di fantasia. Idem per alcuni riferimenti geografici della Valle del Pellice, nel Piemonte occidentale, inseriti a uso narrativo e miscelati con altri che invece esistono realmente: così come esistono i paesi e le frazioni dove si svolgono le avventure del Nibbio e dei suoi uomini. Ogni particolare — dalle armi al vestiario, dal cibo all’abbigliamento — rimanda allo sforzo di rendere quanto più verosimili i fatti descritti.

1

Più quello si lamentava, più Giacomo si irritava. Non aveva mai sopportato le lagne delle donne, figurarsi i piagnistei degli uomini.
La cosa peggiore era la consapevolezza che soltanto lui poteva interrompere quella giaculatoria altalenante di preghiere, suppliche, giuramenti di innocenza, promesse di fedeltà. Andava avanti così da almeno venti minuti. La voce dell’uomo inginocchiato al suo cospetto, pallido come una statua di cera, si era fatta roca. La lingua, impastata dalla tensione e dalla paura per la fine imminente, gli impediva di articolare distintamente le parole trasformando quel monologo in un biascichio a tratti incomprensibile e rivoltante. Le mani giunte, serrate ai polsi da una stringa di cuoio e già livide, sottolineavano la cieca disperazione con cui si affidava alla misericordia dei compagni di avventura. Invano. Alcuni lo fissavano in modo beffardo, alzandosi a turno per assestargli un calcio o sputargli addosso. Altri osservavano la scena in silenzio e attendevano pazienti il momento del giudizio. Qualcuno, nauseato o semplicemente in imbarazzo, si era allontanato di qualche passo e fingeva di badare alle sue faccende sacramentando di tanto in tanto. Tutti masticavano amaro: la presenza di un traditore veniva vissuta come una sconfitta collettiva; l’esecuzione sommaria di quell’infame non sarebbe bastata a risollevare il morale di uomini che, lottando tutti i giorni fianco a fianco contro un nemico preponderante, dovevano essere incrollabilmente certi di poter mettere la vita nelle mani dei compagni. Uno per tutti, tutti per uno. Ora che la maledetta spia stava per essere spedita all’inferno, molti si domandavano in cuor loro se sarebbe stato ancora così: ci sono macchie che nemmeno il sangue riesce a cancellare.
Quei malumori incombevano sul capobanda come una nuvola nera, gravida di pioggia. Da quando aveva preso le redini della formazione, saranno stati due anni, il Nibbio — al secolo Giacomo Spada — non si era mai trovato in una situazione del genere. Camminava a larghe falcate, avanti e indietro, lasciando orme quasi impercettibili sulla neve indurita: le poche parole che aveva lanciato all’indirizzo del prigioniero erano rimaste sospese nell’aria rarefatta del primo mattino. Faceva freddo, quel giorno di fine gennaio. Il 1801 era stato inaugurato da una nevicata abbondante, seguita da una serie di gelate impietose: la coltre bianca che due settimane dopo copriva i campi, isolava le cascine e rendeva impraticabili i sentieri, sembrava un sudario contro il quale nulla poteva il pallido sole invernale.


«Avanti, cosa aspetti a finire questo maiale? Se non te la senti dillo, che ci penso io.»
La voce del suo secondo lo riscosse bruscamente. Come al solito, aveva parlato senza essere stato interpellato e si era concesso qualche parola di troppo. Stefano Vurchio, detto Cognac per la sua propensione a tracannare qualsiasi alcolico gli capitasse sotto mano, gli era stato accanto fin dall’inizio ma per molti aspetti restava un mistero. Non che gli mancassero il sangue freddo e l’inventiva, requisiti essenziali per chi sceglieva di vivere alla macchia. Né aveva mai offerto particolari motivi per lamentarsi: si trattava di una buona spalla, capace di farsi obbedire dagli uomini e, all’occorrenza, di guidarli in combattimento. Quel che indisponeva Giacomo erano le mezze allusioni contenute in ogni sua frase, accompagnate da un’intraprendenza che in più di un’occasione avevano portato i due a scontrarsi con durezza davanti ai membri della banda. Scenate mai seguite da un chiarimento definitivo. Sembrava che Cognac provasse gusto a mettere in discussione la sua autorità. Mai nulla di eclatante, sia chiaro. Se lo faceva, lo faceva da furbo. E quando veniva ripreso, si affrettava a tornare nei ranghi, apparentemente sottomesso. Ma sembrava che la cosa gli riuscisse sempre più difficile: come se ogni volta volesse spostare il confine più in là, fino al punto di non ritorno. L’esortazione ad ammazzare come un cane il traditore — seguita da quel «Se non te la senti ci penso io» pronunciato con tono sarcastico — rientrava alla perfezione nel discorso e rappresentava un ulteriore, piccolo attentato alla sua volontà di comando.
«Parla per te!» gli ringhiò il Nibbio arrestandosi di colpo ed estraendo dalla cintura la pistola a doppia canna, considerata dalla legge arma proibita. «Pensa piuttosto a mettere un paio di uomini di vedetta. Non vorrei che il rumore dello sparo ci rovesciasse addosso qualche pattuglia francese.» Poi, senza attendere risposta, si avvicinò con passo deciso al condannato che ormai lo fissava con occhi spenti. Un alone scuro si diramava tra una gamba e l’altra, inzuppandogli i pantaloni.
Trattandosi di una delle ultime reclute, Giacomo non lo conosceva granché. Martino, così si chiamava, era stato sorpreso due sere prima da un compagno mentre cercava di segnalare la posizione della squadra a uno dei distaccamenti nemici che da Pinerolo battevano senza sosta il circondario: giorno e notte. Nonostante fosse tassativamente proibito accendere fuochi a breve distanza della cittadina, sede della guarnigione francese, si era allontanato con la scusa di andare a pisciare e aveva innescato un fuocherello su un versante rivolto verso l’abitato: quanto bastava per attirare l’attenzione degli esploratori francesi a cavallo, sempre vigili e abituati a decifrare qualsiasi segnale sul territorio. Un piano predisposto da tempo visto che nella sacca del disgraziato, subito perquisita, si celavano un fascio di erba secca, introvabile dopo l’ultima nevicata, e una pietra focaia nuova di zecca. L’incredibile somma di dieci franchi, superiore alle possibilità di quel disgraziato, rappresenta la prova di un abboccamento con la gendarmeria. Purtroppo per lui, il Giuda era stato tradito dall’odore di fumo prontamente intercettato dalle narici affinate dei banditi. La confessione di Martino, estorta dopo due giorni di pestaggio pressoché continuo, rivelava almeno due cose: la tenacia con cui il generale Roland Berthier, il comandante della guarnigione di Pinerolo, dava la caccia ai fuorilegge che da tempo imperversavano lungo la dorsale della Valle del Pellice, e un primo indizio della vulnerabilità dei ricercati dopo un autunno e un inverno durissimi, scanditi da agguati e frettolose ritirate per sganciarsi dalle colonne mobili sguinzagliate dai francesi sulle loro tracce. Il nemico, lento ma inesorabile, stava organizzandosi e cominciava ad accorciare le distanze.
Poteva essere l’inizio della fine. Per questo serviva un messaggio forte e inequivocabile rivolto a tutti, dentro e fuori la banda.
«Non...» fu l’ultima parola del condannato prima che Giacomo tirasse il grilletto. La palla, sparata a distanza ravvicinata, gli trapassò la fronte e uscì dalla nuca piantandosi nel tronco di un castagno. Per qualche frazione di secondo Martino rimase in ginocchio e con le mani giunte, come se fosse in raccoglimento di fronte a un’immagine votiva. Poi cadde lentamente in avanti simile a un fantoccio. «Così si fa» tornò a parlare Cognac mentre rivoltava con un piede il corpo del morto. Ferita pulita: dal foro sopra agli occhi erano uscite poche gocce di sangue subito assorbite dalla neve. La barba, rada sul mento, lasciava trasparire la giovane età del giustiziato. Pochi istanti dopo le gazze, messe in fuga dalla detonazione, tornarono a posarsi sui rami degli alberi: indifferenti a quella scena di ordinaria ferocia nel Piemonte restituito al controllo francese dopo la folgorante vittoria di Marengo contro le divise austriache.
Il trionfo di Napoleone Bonaparte datava all’anno prima. Giacomo conosceva bene il grande campo di battaglia dove, insieme a svariate migliaia di soldati, erano state sepolte per sempre le velleità degli austropiemontesi sul Nord Italia. Aveva attraversato Spinetta Marengo ad agosto, due mesi dopo la conclusione del mattatoio, e portava ancora nelle narici il tanfo dei cadaveri frettolosamente sepolti nelle fosse comuni sotto poche dita di terra. Ricordava quel sopralluogo come fosse ieri. Caldo insopportabile: un caldo umido, che ti si appiccicava addosso, accompagnato dal canto incessante delle cicale. Si era sporto da una riva del Fontanone, il canale irriguo trasformato nella linea di tiro delle truppe repubblicane: da lì avevano respinto per ore le scariche di fucileria e gli assalti alla baionetta delle divisioni nemiche uscite in buon ordine dalla possente piazzaforte di Alessandria. Aveva osservato a lungo la vasta piana annegata nella calura e contornata dai rilievi sbiaditi delle alture. Spinetta, Castel Ceriolo, Cascina Grossa, Marengo... I nomi dei paesi e delle frazioni gli erano rimasti impressi nella memoria, ciascuno rimandava a una furiosa carica di cavalleria o al cozzare delle opposte fanterie. La terra rossiccia, che i contadini avevano ripreso a lavorare con mani pazienti, conservava come un’urna i resti del sangue versato e ormai dissolto. L’afa del primo pomeriggio sembrava trattenere le urla, i gemiti e le imprecazioni dei soldati, gli ordini rabbiosi dei loro comandanti, il crepitare della mitraglia, il nitrito disperato dei cavalli sventrati dalle palle di cannone. Non a caso, molti si prendevano la briga di visitare quel posto saturo di orrore e di gloria: la Grande Mietitrice si era data da fare per un giorno intero, mettendo a dura prova il filo della sua falce; la sera del 14 giugno 1800, quando l’astro di Bonaparte aveva finalmente ripreso il suo posto nel cielo, anche la Morte doveva essere spossata.


La voce di un uomo, per la seconda volta, lo strappò ai suoi pensieri. «Che facciamo di lui?» chiese Antonio, un altro membro della banda, indicando il cadavere ancora caldo. Lo chiese con tono perplesso, smettendo per un attimo di masticare la presa di tabacco che a soli vent’anni gli ingialliva i denti e lo faceva sembrare un vecchio. «Ce ne andiamo alla svelta da questo posto, non prima di aver lasciato un biglietto da visita al nostro amico Berthier e ai suoi tirapiedi» rispose Giacomo, impassibile, rinfoderando l’arma e facendo un cenno agli altri. Non ci fu bisogno di ulteriori spiegazioni: tutti sapevano cosa dovevano fare.


Mezz’ora più tardi lasciarono la frazione di San Michele, a mezza giornata di viaggio da Bricherasio, tenendo i cavalli al passo e gli schioppi a portata di mano. Senza Martino erano rimasti in sette. Il bandito che chiudeva la piccola colonna si volse un’ultima volta a guardare il corpo livido della spia, denudata in fretta e furia e legata a un albero con alcuni giri di corda. Antonio, il più abile a lavorare di coltello, aveva tagliato la lingua del condannato e poi gliel’aveva ricacciata in bocca, serrandola non senza fatica tra le mandibole: un messaggio istantaneo alle pattuglie francesi ma anche ai contadini e ai montanari che si fossero imbattuti in quello sconcio. I panni, le armi e le poche vettovaglie del morto erano stati redistribuiti tra gli uomini. Ora si trattava di riguadagnare la valle, tenendosi a debita distanza dai paesi principali e mettendo un bel pezzo di strada tra loro e gli esploratori francesi che, c’era da giurarlo, presto sarebbero stati richiamati come mosche da quel colpo di pistola isolato.
Brutta storia. Erano partiti pochi giorni prima da Malpertus — un pugno di miserabili baite appollaiate tra la frazione di Villanova e la comunità di Bobbio, nell’alta Valle del Pellice —, con l’obiettivo di alleggerire qualcuno dei convogli che transitavano sotto scorta da e verso Pinerolo. Non si trattava di carrettieri qualsiasi, ma dei fornitori degli avamposti e delle guarnigioni dell’esercito francese: una manica di avvoltoi, pensava Giacomo, capaci di superare per avidità e brutalità gli stessi invasori.
Invece tornavano a mani vuote, con un uomo in meno e il sapore di un tradimento che non li avrebbe più abbandonati. Praticamente un disastro. C’era solo da sperare che il nemico, irritato dall’affronto, non si mettesse alle loro calcagna obbligandoli a risalire oltre Villanova, la base invernale della banda. In quella stagione l’accesso al Pian del Prà — il maestoso pianoro circondato dalle montagne a un giorno di marcia dalla frazione, l’ultima della valle — risultava impraticabile a causa della neve. Nel migliore dei casi avrebbero dovuto abbandonare i cavalli a qualche montanaro fidato e spaccarsi le gambe sui versanti in quota, aspettando che i francesi si fossero spompati. Anche così, avventurarsi nel pieno dell’inverno fra quelle vette solitarie e inospitali battute a malapena dai contrabbandieri, sfidando tormente e valanghe improvvise, sarebbe stato un rischio mortale per chiunque.

2

Il Nibbio cavalcava in testa alla colonna sprofondato nei suoi pensieri: da quando aveva impartito l’ordine di trasformare il corpo di Martino in un grottesco spaventapasseri non aveva più aperto bocca.
Anche i suoi uomini tacevano. Dopo l’esecuzione del traditore combattevano contro il freddo di quella giornata tersa, a tratti ventosa, imbacuccati nelle giacche e nei lunghi pastrani. Badavano a guidare con mano ferma le bestie. Il ghiaccio si alternava alla neve, il rischio che un cavallo scivolasse e si fratturasse una zampa era più di un’eventualità. Antonio Mosca — un ex maniscalco che fungeva da fabbro, veterinario e all’occorrenza da chirurgo per la truppa — chiudeva la fila: continuava a ruminare tabacco, di tanto in tanto sputava per terra. I fratelli Francesco e Giuseppe Berta, renitenti alla leva, proteggevano i fianchi della banda: i loro occhi, mobilissimi, scrutavano ogni particolare della campagna paralizzata dal gelo e non perdevano di vista i costoni delle montagne innevate. Poco più avanti Giorgio Nebiolo, ex soldato del reggimento sabaudo Nizza Cavalleria, si soffiava rumorosamente il naso e bestemmiava tutti i santi del paradiso ogni volta che il cavallo sdrucciolava su una lastra di ghiaccio. Giovanbattista Ronco, soprannominato Meliga per il biondo acceso della capigliatura, tendente al giallo, teneva un mezzo sigaro spento tra i denti. Era il più anziano della banda. Portava la cartucciera a tracolla: a quanto raccontava, si era dato alla latitanza dopo essere stato ingiustamente accusato di un furto nel suo paese.
Erano tutti di pessimo umore. Tutti armati di fucili, pistole, coltelli e coltellacci “alla genovese”, questi ultimi riconoscibili dalla lama esagerata. Antonio non aveva rinunciato a munirsi di una beidana, l’arma bianca cara ai valdesi: arnese micidiale nei corpo a corpo. Giorgio ostentava con orgoglio la sciabola d’ordinanza del vecchio reggimento, curata in maniera maniacale e affilata come un rasoio. Anche il cavallo era un retaggio della vita militare, terminata con la disfatta dei Savoia e l’inquadramento delle truppe del Re nell’armata francese: avevano disertato insieme, insieme condividevano le avventure e gli stenti di quell’esistenza senza futuro. Uomini contro: originari del Pinerolese e spinti dalle più svariate circostanze a tirare una riga sulle precedenti esperienze, ripartendo da zero. Nessuna prospettiva se non quella di campare alla giornata, nessuna posizione sociale, nessun lavoro, niente affetti. Ciascuno riteneva di aver avuto i suoi buoni motivi per lasciarsi alle spalle il passato e dividere con i nuovi compagni quella vita da lupi. Come i lupi si spostavano in branco, preferibilmente di notte, e attaccavano le prede più vulnerabili seminando gli inseguitori nelle forre e nei boschi conosciuti a menadito fin da quando, poco più che bambini, portavano a pascolare le pecore e le capre su incarico dei padri.
L’eccezione era rappresentata da Cognac, il secondo in comando, il solo che sembrava immune dal malumore collettivo. Di tanto in tanto cominciava a fischiettare, poi, messo in soggezione dal silenzio degli altri, smetteva di colpo. Era originario di Gambasca, nel Cuneese, dove viveva la sua famiglia: in quel paesucolo tra Sanfront e Martiniana Po, sulla strada verso Saluzzo, aveva gestito per qualche anno una bettola che nelle sue vanterie si ostinava a definire “locanda”. La clientela non doveva essere all’altezza del termine visto che Stefano Vurchio era stato denunciato insieme a due avventori con l’accusa di ricettare merce rubata: accusa decaduta per mancanza di riscontri. Una seconda perquisizione, disposta qualche mese dopo, aveva confermato i sospetti degli inquirenti. Quella volta le prove reggevano oltre ogni ragionevole dubbio. Vurchio, preso in castagna, era finito in gattabuia per sei mesi. Scontata la pena, aveva chiesto ripetutamente alle autorità di poter riaprire il locale. Niente da fare. In preda all’esasperazione e senza un soldo, si era vendicato a modo suo, minacciando uno dei due paesani che avevano testimoniato contro di lui e accoltellando l’altro. Solo per un caso non c’era scappato il morto, ma l’accusa di tentato omicidio bastava per guadagnargli il cappio del boia o la lama della ghigliottina. Da qui la decisione di tagliare la corda e rifarsi una vita altrove: proposito mai andato in porto. Una lunga cicatrice, ricordo di un regolamento di conti nelle carceri di Saluzzo, partiva dalla tempia e gli attraversava la guancia in diagonale, fino all’angolo della bocca, deformando i lineamenti del volto e spezzando la continuità della barba chiazzata di grigio.
In compenso, sembrava l’unico al quale quella vita randagia non pesasse più di tanto. Anzi: dopo qualche mese di adattamento ci aveva preso gusto. Pur continuando a ritenersi vittima dei torti subiti, si vedeva chiaramente che, anche se avesse potuto, non sarebbe tornato indietro. In fondo gli piaceva comandare gli uomini, pianificare i colpi, dire la sua sulla sorte dei prigionieri e leggere la paura negli occhi del prossimo, suscitata dalla disinvoltura con cui uccideva. I francesi, che lo avevano identificato come uno degli elementi più pericolosi della banda, quasi lo temevano più del Nibbio. Cognac, assai compiaciuto, la considerava come un’onorificenza guadagnata sul campo. Quando un fantaccino francese, caduto prigioniero, lo aveva informato della fama di cui godeva a Pinerolo e dintorni, si era pavoneggiato per giorni davanti ai compagni. Solo il capo non gli aveva dato retta. Un vero peccato, perché Vurchio riteneva di essere bravo quanto il Nibbio, se non di più: lo rispettava, ma più di una volta aveva pensato di poter fare meglio di lui.
Spinse la bestia al trotto e affiancò Giacomo. «Tieni, butta giù che ti riscaldi» disse porgendogli la fiasca con l’acquavite. Quello ingollò un lungo sorso e tirò dritto, pulendosi la bocca con il bavero della giubba: un secondo dopo sentì il liquore incendiargli lo stomaco. «Allora? Adesso che abbiamo saldato il conto con quel figlio di un cane quali sono i programmi?» tornò alla carica Cognac dopo aver bevuto a sua volta.
«Risaliamo la valle fino a Villanova e ce ne stiamo tranquilli per qualche giorno» rispose il capo. «Vediamo se i francesi prenderanno l’iniziativa.»
«Non ci credo nemmeno se lo vedo» replicò il secondo scuotendo la testa. «La primavera è lontana, non è tempo di battute. Quelli preferiscono restarsene al caldo nelle loro caserme, al massimo si spingeranno fino a Luserna. Credi a me: per un paio di mesi non ci daranno fastidio.»
«In ogni caso, è bene non fare mosse arrischiate» tagliò corto Giacomo. «Un informatore mi ha rivelato che tra dieci giorni un convoglio di salmerie partirà da Bibiana diretto a Pinerolo.»
«Tutta roba sequestrata nella valle» commentò Vurchio.
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Il capobanda annuì: «Come al solito. Dovrebbero viaggiare con una scorta ridotta. Li sorprenderemo a metà percorso, dove la strada prende a salire e i tornanti si fanno più stretti. In quel tratto i muli rallenteranno ancora, non è escluso che i soldati debbano scendere da cavallo e dare una mano per spingere i carri. Sarà un bersaglio facile, inutile allertare quel diavolo di Berthier prima del tempo con altre az...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La valle degli uomini liberi
  4. Ringraziamenti