1.
Rimini
Sabato 14 febbraio 2004
Ore ventitré
Il furgone grigio della polizia scivola senza rumore, a sirena spenta, nelle vie deserte di Rimini battute dal vento aspro dell’inverno. Si sentono a malapena le vibrazioni del motore. Costeggia quartieri inerti, spazzati da correnti di solitudine, senza incontrare nessuno. Poi imbocca viale Regina Elena dove dei corvi intrecciano con il loro setoso strofinare d’ali una coreografia ieratica e macabra tra due file di platani potati. La città è intorpidita, livida. Morta come la stagione. L’oscurità profonda rotta appena dall’alone tremolante dei lampioni.
Il furgone ora si ferma all’altezza del 46, davanti al Residence Le Rose.
Cinque giorni prima, lunedì 9 febbraio, poco dopo mezzogiorno, quando il taxi lo aveva lasciato a pochi passi da lì, non so se Pantani aveva provato, mentre percorreva quel lungo viale cercando con lo sguardo l’indirizzo del suo pusher, quella sensazione gelida di non contare più nulla per nessuno che si prova nel cuore freddo dell’inverno in queste località balneari dell’Adriatico. A chi poteva pensare? A Cristina, la fidanzata, che di giorno in giorno si allontanava sempre di più? A suo padre, il suo “babbo*”, con cui aveva litigato dieci giorni prima a Milano, a casa di Manuela Ronchi, la manager, dove si era rifugiato? Era consapevole di essere arrivato alla fine di una corsa crepuscolare senza via di scampo dalla quale non sarebbe uscito vincitore? Era cosciente che non aveva più punti di riferimento?
Aveva pulsioni di morte?
Aveva appena passato dieci giorni in uno stato di abbrutimento morboso, rinchiuso in un albergo vicino alla Stazione Centrale di Milano. Era pallido e portava un marsupio e una borsa di plastica, piena di medicinali, che gli pendeva contro la gamba dandogli l’aspetto di una persona qualunque e rendendo ancora più insolita la situazione. Interrogato dagli inquirenti la sera stessa, quel 14 febbraio a mezzanotte, il tassista, Mario Di Bitonto, racconterà che l’addetta alla reception del Jolly Touring Hotel di via Tarchetti, a Milano, lo aveva contattato alle dieci del mattino per sapere se era disposto a portare uno dei loro clienti a Rimini. Nel caricarlo sul taxi, aveva naturalmente riconosciuto Pantani, vestito con un giaccone, una maglietta e un berretto da baseball, ma aveva fatto finta di niente nel timore di importunarlo. «Durante il viaggio abbiamo parlato di macchine, Ferrari e Porsche, di moto da collezione, mai una volta del suo lavoro», dirà agli investigatori. Marco Pantani era «tranquillo e piuttosto chiacchierone». Insisteva per andare in un albergo di Rimini di cui aveva dimenticato il nome. Quando l’autista del taxi gli aveva proposto di chiedere informazioni per telefono, lui aveva rifiutato seccamente, obiettando che non aveva con sé né il cellulare né l’agenda telefonica. In ogni modo, era in grado di localizzarlo facilmente. Sarebbe bastato che andassero un po’ in giro per Rimini. Nel corso di una rapida ricostruzione, Mario Di Bitonto indicherà il punto esatto dove aveva lasciato il suo celebre cliente, una decina di minuti a piedi dal Residence Le Rose, non lontano da piazzale Gondar, davanti a un negozio di scarpe situato al 249 di viale Regina Elena. Non poteva sbagliarsi. La vetrina traboccava di stivaletti fluorescenti, stivali a mezza coscia in similpelle dalle forme stravaganti con tacchi a spillo e zeppe, all’uso da cubiste, travestiti e altri affaristi della notte. «Impossibile dimenticarselo», aveva sottolineato il tassista, che aveva guardato Pantani allontanarsi lungo il marciapiede e rimpicciolirsi nello specchietto retrovisore fino a sparire, come si sarebbe ben presto cancellato dalle nostre vite.
Una settimana dopo, lo avrebbero ritrovato morto.
Per introdursi nella stanza chiusa dall’interno, il portiere di guardia, Pietro Buccellato, aveva dovuto servirsi di un passepartout e forzare la porta ostruita dai mobili, e dal momento che nessuno rispondeva alle sue chiamate, si era fatto avanti nella camera, aveva scavalcato diversi oggetti sparpagliati a terra, delle sedie, un materasso, poi era salito per la scala in legno fino al soppalco ed è lì, nel riflesso capovolto di uno specchio dell’armadio, che aveva scorto il corpo inerte di Marco Pantani steso al suolo, in uno spazio talmente esiguo, tra i piedi del letto e il muro, che sembrava difficile che non si fosse fracassato la testa nel cadere. Il cadavere era a torso nudo, vestito con un paio di jeans e dei boxer arrotolati alti in vita come se qualcuno glieli avesse infilati precipitosamente. Il rigor mortis era già in corso. La parte alta della schiena fino alla base del collo era chiazzata di lividi rosso-violacei. Nell’agonia, doveva aver raccolto il braccio sinistro sotto il petto in un gesto di apprensione, che faceva pensare che avesse cercato di dibattersi o di strisciare. Le gambe erano tese, contratte, i piedi incrociati l’uno sul-l’altro in una postura anomala, e la guancia sinistra era immersa in una chiazza di sangue densa, nera e appiccicosa dove si maceravano, in un contrasto di colore e di materia impressionante, due palline schiumose incolori, come dei grumi, il più grosso dei quali «delle dimensioni di una noce», affermerà il medico legale, tutte e due deposte lì come nature morte perfettamente identificabili. In apparenza del semplice cotone, o della mollica di pane mescolata a quella che sembrava essere cocaina. Secondo gli investigatori, un composto solido di saliva e cocaina che Pantani «doveva succhiare» e che aveva per metà deglutito e poi risputato cadendo. Quando la squadra mobile di Rimini si era presentata sul luogo, era già un’ora buona che Pietro Buccellato aveva scoperto il corpo. Due agenti di una volante li avevano preceduti sul posto, ma il loro passaggio, stranamente, non sarà mai registrato da un verbale. Erano le ventuno e venti quando la dottoressa Marisa Nicolini del 118 Rimini Soccorso aveva tentato di rianimarlo, per scrupolo di coscienza, prima di firmare il certificato di decesso. Tenuto conto dell’umidità ambientale, della temperatura, ventisette gradi, e della rigidità cadaverica, molto avanzata, essa collocò la morte tra le quattordici e le diciassette.
La sera stessa
Ore ventidue e trentanove…
Nello studio televisivo di Sport 2 Sera, la messa solenne catodica degli appassionati di calcio, i due presentatori della RAI, Paolo Paganini e Marco Civoli, si tengono pronti. Tra meno di cinque minuti andranno in diretta. Come ogni settimana, secondo un rituale ben collaudato, ripetono mentalmente lo svolgimento della trasmissione, l’ordine di apparizione dei partecipanti, dei giornalisti, dirigenti, esperti in diatribe calcistiche venuti a esaminare alla moviola le principali fasi di gioco della precedente giornata calcistica. Con un occhio Paganini sorveglia il monitor, con l’altro lo schermo del computer collegato all’ANSA, l’agenzia di stampa italiana, su cui scorrono le ultime notizie, quando una luce lampeggiante rossa attira la sua attenzione: ore 22.42. Il “flash” che si imprime nei suoi occhi è racchiuso in una frase: «Marco Pantani è morto». Quattro parole di una crudele concisione che lui legge e rilegge, incredulo, come se avesse saltato un passaggio. Qualche secondo dopo, arriva un altro lancio, più preciso: «Marco Pantani è stato ritrovato morto questa sera, in un residence di Rimini». Paganini trasmette la notizia in studio. Civoli, che si apprestava a iniziare il programma parlando della Juve, è costretto a improvvisare. «Prima di parlare di calcio, devo darvi una notizia che ci è appena arrivata…» «… Secondo un dispaccio dell’ANSA», prosegue Paganini in tono emozionato, «Marco Pantani sarebbe morto.» La notizia colpisce in pieno i due milioni di spettatori che seguono la trasmissione come ogni settimana. I due presentatori sono sconvolti. Una telefonata di Davide Cassani li aiuta a riempire la diretta. Cassani conosce bene Pantani. Ha corso al suo fianco, agli inizi degli anni Novanta, con la maglia della Carrera e ha lavorato come manager in seno alla squadra della Mercatone, prima di accettare, nel 1997, un ruolo come consulente alla RAI al fianco di Auro Bulbarelli. Nell’apprendere la notizia, nella sua casa di Solarolo, Davide Cassani si era messo a singhiozzare. Aveva allora tirato fuori da un armadio una vecchia maglia che Pantani gli aveva regalato in segno di gratitudine e si era ritrovato a indossarla. Poi, passata l’emozione del primo momento, aveva chiamato la RAI per rievocare il “Pirata”, “l’uomo del Mortirolo” di cui si diceva che avesse dei problemi di dipendenza dalla cocaina. Era andato in diretta un breve dialogo. Civoli: «Quando gli ha parlato per l’ultima volta?». Cassani: «Un mese fa, ma…». «Ma…?» «Non era già più Pantani.» «Vuole dire che non era più lo stesso uomo?» «Sì, un altro…» Nei minuti che seguiranno, migliaia di persone alzeranno il telefono e l’abiezione di questa morte, di rimbalzo, andrà a sconvolgere un Paese in preda alla paura e a straziare tutti i suoi cari; la sua manager Manuela Ronchi, che guardava un film di fantascienza accanto al marito nel suo appartamento milanese su due piani, quando il fratello l’aveva avvertita; i genitori del campione, che Manuela si affrettò a contattare in Grecia, in una località di villeggiatura dove cercavano per un momento di dimenticare le delusioni del loro figlio; la sorella Manola, che stava preparando in cucina la festa per il quattordicesimo compleanno del figlio Denys, nipote di Marco, mentre teneva d’occhio tredici bambini che ospitava per l’occasione; la ex fidanzata Cristina Jonsson, residente a Losanna, dove aveva ripreso gli studi di belle arti, a grande distanza dalla Romagna, dopo aver vissuto più di sei anni al fianco del campione da cui si era separata, senza sue notizie da due mesi. A Cesenatico l’ex addetto stampa della Mercatone, amico d’infanzia di Pantani, Andrea Agostini, stava cenando in famiglia quando un giornalista di Tuttosport, Beppe Conti, lo aveva chiamato al telefono perché confermasse la notizia: «Di cosa stai parlando?». «Come, di cosa sto parlando, non sei al corrente? È su tutte le radio, le televisioni… A quanto pare Marco è morto…» «Morto…? (Un lungo silenzio) Non è la prima volta… è senza dubbio un errore.» «Forse, ma stavolta sembra una cosa seria, c’è un dispaccio dell’ANSA…» «(Andrea con la voce strozzata, ha fretta di riagganciare) Lasciami verificare, ti richiamo…» Ma Agostini ha appena il tempo di chiudere il cellulare che vede apparire sullo schermo del televisore un’inquadratura fissa di Pantani accompagnata da una voce fuori campo che conosce bene, quella giovanile di Auro Bulbarelli, uno dei telecronisti di punta della RAI, che azzarda a casaccio, all’oscuro dei fatti, qualche prudente spiegazione. «… si sapeva che non stava più molto bene… pare che avesse dei problemi di tossicodipendenza, che frequentasse personaggi equivoci… Quello che è accaduto non è che la conferma di ciò che sentivamo arrivare…»
Quando la notizia si era diffusa nell’etere, la maggior parte dei giornalisti di Rai Sport erano già tornati alle loro case. Uno di essi, Mimmo Fusco, raggiunto telefonicamente mentre era al cinema, era tornato in sede, con la massima urgenza, per mettere insieme quel mosaico di immagini che il regista di Sport 2 Sera, in mancanza d’altro, manderà in onda a ciclo continuo per tutta la durata della trasmissione, una specie di clip celebrativo che traspone il campione nella sua leggenda. In un primo piano-sequenza, lo si vede intaccare il regno di Indurain sul Mortirolo, era il giugno 1994, al suo debutto come professionista, ha già il suo stile e la cadenza della pedalata è già infernale. L’anno successivo, primo colpo che incassa con una certa filosofia: steso su un letto d’ospedale dopo la terribile caduta nella Milano-Torino, sorride mentre esibisce la gamba sinistra circondata da chiodi ortopedici; nell’inquadratura seguente, la telecamera lo cattura ancora una volta in pieno sconforto, i calzoncini da corsa lacerati, curvo sulla sua bicicletta nel bel mezzo di una strada asfaltata da poco, mentre in lontananza il gruppo si stacca. Era il 1997. Un gatto lo aveva fato cadere sulla salita del Chiunzi, il Giro per lui era finito. Viene quindi un momento elegiaco, di pura magia: per un inquietante effetto di prospettiva, sembra sbucare dall’asfalto, rinascere da quella strada di montagna a Courchevel che lui ha scalato con due minuti di vantaggio su Lance Armstrong. Sul traguardo, un ghigno satanico gli deforma le labbra e alza a malapena le braccia in segno di vittoria, l’ultima della sua carriera al Tour del 2000. Quell’anno, curiosamente, la maglia della Mercatone era rosa, di quel rosa eminentemente simbolico che designa oltralpe il leader del Giro d’Italia che lui aveva vinto due anni prima, al termine di una assidua caccia. «… a Courchevel, si credeva di averlo recuperato…», prosegue Bulbarelli che si sforza di tenere il ritmo delle sequenze che scorrono sullo schermo. «… la sua fuga aveva battuto tutti i record di ascolto, più di sette milioni di telespettatori. Sette milioni! Record storico per RAI TRE per una tappa del Tour de France, e poi, e poi…»
A Rimini, nella città addormentata, altre telefonate, altri andirivieni verranno a turbare la tranquillità domenicale del giudice Paolo Gengarelli, di turno quel giorno, e dei cinque poliziotti della squadra mobile assegnati all’inchiesta. La morte di Pantani riempirà d’angoscia i suoi pusher. Il giovane operaio Ciro Veneruso, trentun anni, che gli aveva consegnato trenta grammi di cocaina lunedì 9 febbraio al Residence Le Rose per conto di un mandante, Fabio Miradossa, uno spacciatore di ventinove anni, senza lavoro, che era andato a rifugiarsi a Napoli dove gli investigatori lo arresteranno in seguito, in possesso di cocaina. I due uomini, sapendo che avrebbero dovuto rispondere delle loro azioni, avevano immediatamente consultato un avvocato, dopo aver concordato la loro versione dei fatti con Elena Korovina, ultima compagna occasionale del campione romagnolo. La ragazza, che si trovava a Roma in compagnia di un uomo d’affari, era apparsa loro molto calma e distaccata dal dramma. «Con Marco, stavamo insieme per il sesso, ma lui non aveva certo bisogno di me per procurarsi della cocaina.» Come Veneruso e Miradossa, anche lei aveva staccato il suo cellulare, precauzione che si rivelò inutile in quanto un terzo uomo, Fabio Carlino, vicino a Miradossa, si era presentato spontaneamente alla polizia, sapendo che si sarebbe fatalmente ritrovato implicato nel caso tramite i tabulati delle sue chiamate telefoniche, molto facili da decodificare. Poco prima di mezzanotte, Michel Mengozzi e Franco Corsini, due amici intimi di Pantani, erano andati a mettersi davanti al Residence Le Rose. Nella folla dei curiosi, sempre più folta, avevano certamente incrociato un uomo «di forte corporatura», «molto elegante», «noto negli ambienti della malavita» di cui la polizia diffonderà con discrezione la segnalazione. Senza risultato.
Sulla Riviera ligure, dove soggiornavano i grup-
pi sportivi italiani alla vigilia del Trofeo Laigueglia – prova di apertura della stagione ciclistica – la gioia dell’incontro aveva ceduto il posto al dolore. Numerosi corridori si erano radunati sulla soglia del loro hotel, parecchi di loro piangevano e rifiutavano di ammettere la sinistra verità. («A volte penso ancora che non sia vero, e altre volte, che sia successo cinquant’anni fa», dice ancora Giuseppe Martinelli, ex direttore sportivo della Mercatone.) Tutti avevano saputo della tragedia da Sport 2 Sera e seguito i primi notiziari straordinari. Avevano visto i portantini dell’ambulanza entrare senza fretta nel Residence Le Rose e uscirne qualche minuto dopo, con una lettiga che lasciava intuire la spoglia informe e miserabile di Pantani, nascosta dentro una sacca di plastica bianca, un susseguirsi di immagini monocromatiche, diluite dalla notte e dal rifrangere della luce dei lampioni. Un incubo che li riportava allo spettr...