1.
L’inizio di un viaggio
Lo chiamavano Don Chilometro. Un po’ per l’altezza, quasi due metri, un po’ per i tanti chilometri che macinava in viaggio per tutto il mondo.
La figura imponente di Francesco Ricci si stagliava sul cammino di chi lo incontrava: l’incedere tanto barcollante quanto elegante, il portamento fiero di un condottiero, di un cavaliere dell’ideale pronto in qualsiasi momento a partire per l’altro capo del mondo.
I suoi primi passi li mosse nel cuore della Romagna tra Faenza, dove era nato il 29 maggio 1930, Forlì e Premilcuore, il paese sull’Appennino tosco-romagnolo dove viveva la famiglia e dove sarebbe tornato alla fine del suo viaggio terreno, in quel cimitero appoggiato sulla montagna, da cui la vista spazia sul bel panorama della valle.
Quei panorami lui li amava e insegnava ad amarli: nelle gite sulle Dolomiti, negli anni Sessanta e Settanta, accompagnava i giovani a conoscere il mistero della bellezza della natura e della vita.
Persino nel giorno del funerale fu rimarcato il suo essere fuori misura, troppo grande per ogni luogo, sempre viator, sempre pellegrino. Quando la bara venne calata nel loculo predisposto, un sorriso interruppe la cerimonia religiosa e per un attimo venne dimenticato il dolore del distacco: lo spazio era insufficiente a contenere quel corpo lungo. Lui, che era sempre troppo grande per le sedie e per i letti, non riusciva a trovare posto neanche in quell’ultimo giaciglio.
Anche per questo, forse, non amava gli alberghi: rimaneva puntualmente con i piedi e un pezzo di gamba fuori.
Ma il suo viso svettava alto all’uscita degli incontri e delle messe. Così lui vedeva più in là, e gli altri lo riconoscevano subito. I suoi sguardi e gesti profetici nascevano da quel vedere prima degli altri e più lontano.
Il fervore missionario lo imparò ben presto osservando la figura di un compaesano di Premilcuore, padre Pietro Leoni,1 che negli anni Quaranta fu missionario in Russia e dopo la Seconda guerra mondiale si fece dieci anni nei gulag sovietici. Ricci era stato il suo chierichetto fin da quando, nel 1939, padre Leoni celebrò nel paese natale la sua prima messa. I due si reincontrarono nel 1955, quando Leoni tornò dalla Russia sano e salvo. La sanguigna tempra romagnola gli aveva permesso di superare quelle prove terribili.
Il suo anticomunismo si trasmise assieme alla passione per l’uomo e la sua libertà. Era dura la violenza del regime stalinista e del partito comunista sovietico, che nel frattempo finanziava i partiti fratelli in Occidente per affermare, anche nelle democrazie occidentali, il socialismo reale, quello dal volto umano. Il potere marxista le metteva a rischio destabilizzando politica e cultura e, proclamando l’ateismo, minava la fede e la Chiesa. Tempi duri, difficili, ma che formarono la fervida intelligenza del giovane Ricci che poi sarebbe diventato a sua volta missionario, appassionato educatore e comunicatore, tenace lottatore per la verità dell’uomo.
Quando, a quarantadue anni, si precipitò a Forlì da Budapest – dove era impegnato in uno dei suoi abituali itinerari non ufficiali, in visita a persone amiche e dissidenti dei regimi dell’Est – per precipitarsi a celebrare il funerale di una delle ragazze che seguiva nei primi gruppi giovanili, fece vedere a tutti di che stoffa era fatto.
Per qualunque persona era disposto a fare chilometri di strada, senza risparmiare fatica. Fosse viva o morta. Così è stato per tutta la sua vita. Per tanta gente si è spostato da un continente all’altro: ha incontrato giovani, li ha incoraggiati a scegliere la loro strada, ha celebrato battesimi, matrimoni, funerali, ha visitato ammalati, è andato a sostenere dissidenti.
La ragazza, studentessa universitaria di Medicina, aveva ventun anni quando morì. Era il primo giugno 1972. Il suo funerale fu celebrato nella chiesa di San Filippo Neri, in cui Ricci sarebbe stato per tanto tempo con la sua comunità, divenendone rettore e salvandola dalla chiusura e dall’abbandono.
Quella giovane era una delle prime che aveva incontrato e seguito quando era ancora nella chiesa di Santa Lucia, in corso della Repubblica. Lì si svolgevano i primi raduni con lui, piuttosto innovativi per l’epoca giacché si riunivano insieme maschi e femmine, il che era ritenuto ancora uno scandalo.
Ricci faceva sempre proposte coraggiose per un popolo come quello italiano, fortemente segnato dalla tradizione cattolica, ma ormai consumato, con abitudini vecchie, che non riuscivano a rispondere alle esigenze della vita reale. Un fenomeno che lui ben conosceva, pur sotto altre forme e divise, in quanto, per salvaguardare l’autenticità delle aspirazioni umane, cercava uomini liberi che non fossero già totalmente soggiogati ai regimi dell’Est Europa, dove scoprì che la drammatica spaccatura tra la vita reale e quella ufficiale, imposta dal regime, era ben altro. Un dissidio che era stato esemplarmente narrato per la prima volta in Italia ne Il potere dei senza potere di Václav Havel. In quel testo pubblicato da Cseo, la casa editrice da lui creata, si descrive la vita reale di un verduraio che aspira alla libertà ma nello stesso tempo sperimenta la fredda burocrazia del potere. Un giorno si ribella e realizza la propria libertà in un tentativo di vita nella verità.
In quelle pagine, che videro la luce grazie a Cseo e alla spinta lungimirante di Ricci, si rese noto in Occidente ciò che era sconosciuto e che invece viveva e ardeva come un fuoco sotto la cenere delle rovine causate dal regime: lo spirito libero di uomini liberi che si opponevano e lottavano per la verità e la libertà.
Il potere dei senza potere, dunque, è stato un po’ il manifesto culturale di un uomo come Ricci che, pur non avendo un potere ufficiale, ha sempre avuto quello reale di penetrare i cuori e le menti degli uomini. E di portare a protagonista assoluto non il gerarca, non il dittatore, non il funzionario, il presidente o il vescovo, ma l’individuo nella sua unicità fatta di pensiero, affetto, ragione e intelletto.
È a questo corredo umano che Ricci mirava con la sua capacità di eloquio e di scrittura. Conosceva bene l’italiano, padroneggiava con abilità parole e sintassi, e tutto ciò gli fu molto utile per parlare alla gente ma anche per scrivere articoli, correggere con precisione testi, dare alla pubblicazione libri e riviste.
La madre, Maria Vignoli, era una donna dal carattere forte, come il figlio. Era stata maestra nella scuola elementare locale e a lei Francesco tornava sempre dopo i suoi numerosi viaggi in Paesi lontani, anche solo per pochi momenti. Francesco, insieme alla sorella Eugenia, trascorse in un clima familiare l’infanzia a Premilcuore, dove il padre Alfredo era impegnato in attività amministrative. Da lui, probabilmente, Ricci aveva ereditato il piglio al comando che lo caratterizzava.
Le prove della vita iniziarono presto per il giovane Francesco, che dovette confrontarsi con la dura realtà della Seconda guerra mondiale e con la morte del padre, avvenuta nel 1941.
Le sue capacità organizzative e creative si mostrarono subito in maniera incontenibile: ad appena dodici anni, nel 1942, mise in piedi con l’aiuto della mamma una rappresentazione a favore delle famiglie dei soldati in guerra. Furono anni di divisioni e spaccature ma anche di fermento.
La sua formazione proseguì a Forlì al liceo classico e, per lui che apparteneva a una generazione che usciva dalle macerie del conflitto e cercava di ristabilirsi, la vita dell’oratorio San Luigi dei salesiani rappresentò nell’immediato dopoguerra un punto di riferimento, forse l’unico in zona.
Ricci ascoltava i ragazzi, ne coglieva i sospiri, i sogni, le aspirazioni, le ambizioni ma ne vedeva anche le fatiche, le difficoltà, le solitudini. In quel clima conviviale ebbe modo di fare esperienza nella Gioventù Italiana di Azione Cattolica, Giac, e ne divenne consigliere. Si interessava dei problemi dei giovani nella scuola e nell’oratorio e in ampie discussioni emergeva la sua capacità di valutazione.
A diciotto anni si è sempre in un’età unica e irripetibile. Sono i tempi d’oro della formazione, dello slancio, dell’impeto coraggioso. Figurarsi per uno come lui. Mentre per alcuni si aprivano le porte dell’amore, degli incontri teneri e già si abbracciavano storie di coppia, a Francesco toccò di fare altre esperienze che ne forgiarono il temperamento.
Attraversò il passaggio, epocale nella vita italiana, delle elezioni del 1948, quelle che diedero alla nascente repubblica una forma nuova di partecipazione popolare. Vide sorgere la stagione democristiana che impegnò istituzioni, circoli civili ed ecclesiali a un serrato confronto. In un acceso dibattito culturale e politico si contrapposero nel nome della democrazia forze socialiste e comuniste – sostenute da Mosca e abbeverate alla sua fonte –, forze cattoliche, e infine laiche e massoniche, che contrastavano il potere marxista e quello ecclesiale.
Proprio quell’anno, il 1948, segnò l’avvio pubblico di un giovane che partecipava alle animate discussioni dopo i comizi e andava ad attaccare i manifesti. In quel fervido periodo militante Ricci si impegnò anche a organizzare dimostrazioni studentesche per Trieste italiana, e il comunismo divenne un pericolo da arginare, non solo politicamente ma anche nella cultura e nel pensiero degli italiani.
Nel dopoguerra, come ricorda Tugnaz, popolare personaggio romagnolo che lo conobbe ai tempi del San Luigi con altre personalità fra cui Roberto Ruffilli, Diego Fabbri, don Pietro Garbin, Ricci iniziò anche la collaborazione giornalistica con «il Momento» fondato da don Pippo. Questi, parroco dell’abbazia di San Mercuriale alla fine della guerra, salvò il campanile dalle mine dei tedeschi.
Il sacerdote, santo per il popolo, coltivò il talento del giovane Ricci, ne spronò la penna, la capacità di lettura e di giudizio della realtà. Lo richiamava anche, talvolta: quando si spingeva oltre i confini, quando il suo carattere lo portava ai limiti del fuorigioco. Le parole, si sa, sono pietre.
La palestra formativa del «Momento» deve avere aiutato non poco a fare emergere il talento comunicativo che ha contraddistinto tutta la vita di Ricci. Un giornale, una bandiera, un luogo redazionale che lui coltivò anche a distanza quando era in altri continenti e in altre avventure editoriali. Lasciò che i suoi giovani ne assumessero la responsabilità, così come aveva fatto don Pippo con lui.
Nel 1974 salverà il giornale dalla chiusura e dagli intoppi diocesani e ne rilancerà il respiro culturale preservandolo dal bollettinismo parrocchiale. Con il professor Riccardo Lanzoni chiamerà altri giovani a disegnare una traiettoria che durerà più di quarant’anni, con la costituzione della cooperativa editoriale La Nuova Agape2 dove si sono formati giornalisti, pubblicisti e professionisti.
Quei fermenti, quelle passioni, l’amore della madre, la morte del padre, l’educazione ricevuta, gli incontri fatti con preti di valore fecero maturare in lui la scelta vocazionale.
Decise così, nel 1949, di entrare in seminario. In un’intervista rilasciata poche settimane prima di morire al periodico «Una città» disse: «Tutto è stato preceduto da un segnale che solo in seguito ho compreso. La morte di mio padre durante la guerra. Avevo undici anni. E la morte di mio padre mi permise di stare dentro la realtà della guerra. Venne a darmi una luce di intelligenza di questa tragedia. E fu per me una conferma della fede. È sempre rimasta il punto fondamentale. Una fede che non ha vacillato».
Gli si aprirono così le porte di Roma, della città eterna, dove approdò entrando nel Seminario Romano Maggiore, vicino alla basilica di San Giovanni in Laterano. Per lui, alto, quella era l’altezza giusta per spiccare il volo e alimentare le sue doti straordinarie, le capacità intuitive e intellettive, la voglia di ragionare e comunicare, di parlare e scrivere.
Appassionato al destino degli altri, era avido di conoscere le ragioni del mondo, il perché della vita, dove si va, da dove si viene e che cosa si è. Una ricerca costante che lo avrebbe sostenuto in ogni suo viaggio, il fil rouge di tutte le sue imprese; una fonte che avrebbe illuminato ogni incontro, rapporto e relazione; una scossa che avrebbe attraversato ogni sua stretta di mano, abbraccio, pacca sulla spalla.
Alle migliaia di giovani che incontrò nel corso della sua vita offrì quell’unica grande scintilla che attraversava il suo sorriso e il suo sguardo: gli occhi quasi uscivano dalle orbite quando puntava diritto all’apice del discorso. Specie quando si trattava di un duro richiamo. Il gesticolare della mano accompagnava sempre l’espressione dei suoi pensieri, che fosse sopra la scrivania a correggere un testo, al tavolo di un incontro o di una lezione, a un convegno o sull’altare durante l’omelia.
Seguirono gli anni di studio: filosofia e teologia. Si distinse per l’intelligenza «profonda e briosa nello stesso tempo», come l’ha definita monsignor Mariano De Nicolò, suo compagno di seminario divenuto poi vescovo di Rimini.
Roma gli aprì orizzonti, gli spalancò amicizie, gli diede quella dimensione internazionale che lo accompagnò per sempre, anche quando il ritorno in provincia ne limitò la gamma delle opportunità. Non si fece mai mortificare dal particolarismo, dal provincialismo, dal comodo qualunquismo ebete e soffocante di chi vede solo il proprio quartiere.
Nel dicembre 1954 ricevette il diaconato nella basilica lateranense e il 9 aprile dell’anno successivo fu ordinato prete nella cattedrale di Forlì dal vescovo Paolo Babini. Il giorno dopo celebrò la prima messa nella chiesa di San Biagio. Nel ricordino volle la frase in latino di don Bosco «Da mihi animas, cetera tolle», dammi le anime e toglimi il resto.
Proprio in quello stesso anno padre Leoni ritornava dalla prigionia in Unione Sovietica e don Ricci poté incontrarlo a Roma. Su quel colloquio scrisse un articolo in cui si legge: «Un giorno si scriverà forse la storia della conversione della Russia. Chissà se il nome di questo eroico testimone di Cristo sarà citato come quello di uno degli artefici del nuovo trionfo? Il suo nome intanto è impresso in ciascuno dei nostri cuori, poiché egli è certamente uno dei migliori tra noi per ciò che ha sofferto e per come ha saputo soffrire».3
Divenuto prete intraprende un nuovo percorso. Si dedica anima e corpo alla missione educativa di incontrare i giovani, riunendoli in appassionate iniziative, conducendoli in preghiera ma soprattutto celebrandone le aspirazioni e i desideri, indirizzandoli alla loro dimensione più autentica. Era consapevole, infatti, che la partita decisiva si gioca nel cuore di ogni uomo. Lì c’è già tutto, il bene e il male, l’inizio e l’attesa del compimento. Ma non bastava appellarsi ai sentimenti e alle intuizioni, spesso complicate e ingarbugliate dagli istinti. Aveva ben chiaro che l’uomo desidera il bene ma spesso compie il male. Come liberarlo da questa schiavitù, come aiutarlo a crescere, a diventare adulto nella vita e nella fede?
Questo impegno era aggravato dal contesto storico: l’Italia andava verso il boom, era impegnata a recuperare orgoglio e soldi dopo le rovine e le macerie della guerra, e al contempo era bisognosa di salvarsi dall’immoralità e dal pericoloso contagio del benessere che finisce per stordire anche le migliori volontà.
I ragazzi di allora vivevano con incoscienza il tempo della loro gioventù e la repubblica era finalmente votata alla ripresa. I primi erano ancora troppo fragili e la seconda doveva vivere l’assalto da una parte dell’ideologia comunista, dall’altra del libertinismo gaudente, figlio del capitalismo.
Ricci iniziò il suo tour nelle parrocchie forlivesi sempre alla ricerca di giovani di cui scuotere la coscienza e il passo. Prima fu cappellano nella chiesa di Ravaldino con il parroco don Sergio Scaccini, figura austera e d’altri tempi ma profondamente biblica e avveduta. Successivamente si trasferì a Santa Lucia con il parroco don Gino Berardi.
Inizialmente organizzava gli incontri in corso Garibaldi, poi in corso della Repubblica e nel centro culturale Charles Péguy. Quindi in viale della Libertà, dove nel frattempo aveva collocato il suo studio e la sua redazione.
L’ufficio era la mansarda in cui incontrava gente di tutto il mondo. Gli era stata offerta dal cuore spezzato di un padre che aveva perso la figlia e alla cui memoria voleva dedicare qualcosa di suo. Era Marta Gardini, la giovane di cui don Ricci aveva celebrato il funerale nel 1972.
Nino Gardini con la moglie Bruna e le figlie Giovanna e Giannetta videro così farsi familiare quel sacerdote spilungone, che scendeva e saliva le scale del condominio portando le valigie di un viaggio sempre imminente. La sorella di Marta, Giovanna, per lunghi decenni l’ha seguito come fedele segretaria nell’arduo compito di coordinare contatti, relazioni, appuntamenti, organizzandogli viaggi, autisti, regali, missive e testi da pubblicare, aiutandolo nell’agenda delle persone da ricevere, delle autorità a cui rendere omaggio, delle messe da celebrare.
Ricci svolgeva una quantità enorme di lavoro, fatta di piccoli e grandi gesti di solidarietà a persone vicine e lontane, bisognose di sostentamento. Per loro portava dollari nascosti nelle scatole di tabacco o di cioccolatini, recapitava clandestinamente libri oltre confine, superando barriere e polizie di ogni genere, elmetti e mitragliatrici. Per loro si era fatto fotografare in borghese, in giacca e cravatta, e nel passaporto risultava professore e turista.
Non una spia del Vaticano, non un confidente delle polizie, ma un amico dei perseguitat...