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PERCHÉ CAMBIARE VITA?
A ciascuno il suo espatrio
Il primo must di un italiansinfuga è: non forzatevi a considerare «definitivo» il passo che state per affrontare. Non subito, almeno.
Quando ci si trasferisce all’estero – che sia per una scelta di vita o di lavoro – va messo in conto qualche anno di attesa, prima di godersi davvero i frutti della nuova vita. Anch’io, quando mi sono trasferito in Inghilterra negli anni dell’università, non l’ho fatto pensando che sarebbe stato a tempo indeterminato. All’inizio ero solo curioso di conoscere un’altra nazione, un altro stile di vita; poi, una volta terminati gli studi, ho trovato lavoro in Inghilterra e l’ho considerata un’opportunità. Ma ancora non pensavo che sarebbe stato «per sempre». Lo stesso è accaduto a molti amici italiani che, come me, avevano studiato in Inghilterra: la maggior parte di loro è tornata in Italia prima di compiere trent’anni, e quella scelta è stata dettata per lo più da motivi affettivi. L’esperienza in Gran Bretagna ha funzionato comunque da ottimo biglietto da visita, e li ha aiutati a trovare un buon impiego al rientro in patria. Altri, incluso il sottoscritto, sono rimasti all’estero e adesso vivono nei luoghi più disparati: Inghilterra, Stati Uniti, Olanda, Norvegia e Australia.
Non esiste l’emigrazione giusta o l’emigrazione sbagliata. Esiste solo quella che fa per voi.
Il mio consiglio è di non preoccuparvene a priori. Dimenticate il fattore tempo e concentratevi sulle opportunità del presente, sullo sforzo di sfruttarlo al massimo per trasformarlo in un’occasione da cogliere al momento giusto. Il resto verrà da sé.
Buoni motivi per la fuga
Ogni emigrante o aspirante tale ha le sue ragioni per prendere le valigie e partire.
Io vi propongo le mie, molte delle quali sono comuni a tanti italiani che mi hanno contattato tramite il blog di Italiansinfuga. Giuste? Sbagliate? Giudicate voi.
Benessere economico
Non si può dire che l’Italia, e in generale i paesi che hanno adottato l’euro, minacciati dalla speculazione e schiacciati dalla recessione, in questo momento se la passino bene.
Se il Belpaese non è, fortunatamente, ancora in crisi quanto la Grecia, è anche vero però che una visione assai fosca e pessimista della condizione economica del paese – drasticamente peggiorata negli ultimi 12 mesi – accompagna l’inizio del 2013. Il tasso di disoccupazione ha infatti toccato il massimo storico e secondo i dati Istat è salito all’11,7% contro il 9,6% dell’anno precedente. Inoltre dal 2007 al 2011 il potere d’acquisto si è ridotto di ben 5 punti percentuali nonostante i consumi in termini reali siano diminuiti solo dell’1,1% e questo perchè nei primi anni della crisi le famiglie hanno preferito incidere sul proprio patrimonio nel tentativo di mantenere gli stessi standard di vita.
Secondo l’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, nel 2011 – ultimo anno per il quale si hanno a disposizione dati completi su 12 mesi – il nostro paese è stato al 22° posto quanto a netto in busta paga. Colpa della pressione fiscale, divenuta ancora più forte a marzo di quest’anno.
Facendo un po’ di conti, un italiano in un anno guadagna mediamente il 44% in meno di un inglese, il 32% in meno di un irlandese, il 28% in meno di un tedesco, il 18% in meno di un francese. Solo sette i paesi con salari inferiori: Portogallo, Repubblica Ceca, Turchia, Polonia, Repubblica Slovacca, Ungheria e Messico.
Una postilla: l’emigrazione è un’avventura costosa, inutile negarlo. Ma non scoraggiatevi: nei prossimi capitoli vi mostrerò che esistono trucchi e strategie semplici per affrontare e dribblare la crisi economica, mettendo da parte risparmi sufficienti a lanciarsi dal trampolino dell’emigrante.
Qualità ed efficienza dell’azione politica
Di destra, di sinistra, di centro: i politici del Belpaese incarnano purtroppo uno degli aspetti più imbarazzanti dell’Italia. In vent’anni ho perso il conto delle barzellette e degli sfottò che mi è toccato stare a sentire.
Inutile sottolineare come le ultime elezioni abbiano gettato il paese nella più totale instabilità, dimostrando che gli italiani hanno preferito dare fiducia all’«incerto»: hanno fatto confluire una grande fetta di voti nel Movimento 5 Stelle, forse nella speranza di un ricambio generazionale della componente politica e di un programma diverso da quelli omogenei e senza tratti distintivi delle altre forze politiche, che hanno fallito e continuano a fallire.
Non mi spingo certo ad affermare che all’estero sia tutto diverso. Anche negli altri paesi la classe politica lascia a desiderare ed è spesso motivo di imbarazzo per i propri connazionali. Ma forse la differenza sta nell’unità di misura di quell’imbarazzo…
Lavoro
O meglio, l’assenza di lavoro. Trovatemi un’altra nazione sviluppata dove a un giovane in cerca di occupazione venga sistematicamente sbattuta in faccia l’offerta di un anno di stage senza retribuzione.
Personalmente ho avuto la fortuna di trovare (ma è stata davvero una fortuna, oppure è da considerare un obbligo morale basilare in una società evoluta?), fresco di laurea, degli impieghi che mi hanno consentito di lavorare e vivere dignitosamente in Inghilterra. Magari non conducevo una vita stravagante, dovevo stare attento a risparmiare, però ricevevo una giusta remunerazione, commisurata alle mie competenze.
Posso garantire che nelle nazioni dove ho vissuto e lavorato il concetto di impiego non retribuito – con la scusa dello stage o della «gavetta» – esiste poco. In generale si limita alle internships, periodi di esperienza in azienda dall’orizzonte temporale limitato che giovano sia ai datori di lavoro sia ai lavoratori con poca esperienza lavorativa.
Anche il cosiddetto contratto a progetto, il cui uso è dilagante in Italia, all’estero viene usato con parsimonia e non se ne abusa come strumento di gestione flessibile della forza lavoro. Sono gli stessi lavoratori, spesso, a sceglierlo consapevolmente (e non ad accettarlo come imposizione dall’alto) per la maggiore elasticità che consente. Spesso vi fanno ricorso le neo-mamme che desiderano lavorare, senza però dover affrontare l’impegno di un lavoro full-time; i lavoratori che desiderano iniziare un percorso di studi o di specializzazione utile a migliorare la propria carriera; i lavoratori in età pensionistica che non vogliono ancora mettersi del tutto a riposo.
Ricordatevi che tutto questo succede in mercati del lavoro dove i rapporti tra lavoratore e datore di lavoro sono incomparabilmente più equi di quanto avvenga in Italia.
Meritocrazia
Lo sappiamo bene: fare carriera grazie alle proprie capacità, senza appoggi e spintarelle, è molto difficile in un paese come l’Italia. Sento spesso i miei connazionali lamentarsene ed è un tema che riemerge ogni volta che qualche italiano annuncia di voler andare a lavorare all’estero. È vero – e io posso testimoniarlo – che al di là delle Alpi è più facile affermarsi grazie all’impegno individuale. Io non conoscevo nessuno e sono arrivato a costruirmi una carriera dal nulla. Lungo il mio percorso lavorativo all’estero ho avuto spesso dei capi più giovani e più brillanti di me – spesso donne – e difficilmente in Italia mi sarebbe capitato qualcosa di simile.
Ma attenzione: è importante spogliare il concetto di meritocrazia da ogni idealizzazione, per accoglierlo nella sua cruda realtà fattuale, non sempre benevola quanto vorremmo. All’estero, in Inghilterra e Australia, ho visto all’opera un tipo di meritocrazia tutt’altro che perfetta (anche qui a volte gli incapaci fanno strada) ma brutalmente efficace. Avere un titolo universitario è importante, ma rappresenta solo un biglietto di ingresso, non sempre necessario, in un certo ambiente lavorativo.
Una volta entrati sta a voi farvi valere. Se ad esempio siete ingegneri ma non riuscite a svolgere i vostri compiti come dovuto, il titolo di studio non farà la differenza: conta molto di più ciò che riuscite a dimostrare ogni giorno in azienda, rispetto a ciò che avete fatto prima di mettervi piede.
Inoltre non basta essere bravi dal punto di vista tecnico, è necessario possedere anche delle qualità che spesso fanno fare carriera a chi a scuola non era altrettanto bravo, in particolare capacità di relazione e di problem solving.
Meritocrazia insomma significa che il 110 e lode può aiutarvi a trovare un lavoro, ma anche che dal momento in cui iniziate non conta più: all’azienda non importa da dove arrivate, ma come producete.
Inoltre è importante capire che il collega/concorrente cinese, pachistano o messicano ha le vostre stesse possibilità: viene premiato solo chi se lo merita davvero. Se andate all’estero scegliete di mettervi in competizione con miliardi di persone piuttosto che milioni, come fareste in Italia.
Forse il vostro capo sarà più giovane e intelligente di voi, a me è successo spessissimo. Siete in grado di prendere ordini da chi anagraficamente «merita» di meno?
Certo che se siete bravi e vi impegnate allora la meritocrazia sarà un paradiso!
Una dimostrazione concreta di come funzioni questo circolo virtuoso è l’esperienza della delivery unit creata in Inghilterra da Michael Barber e Tony Blair nel 2001 e che ha prodotto una vera rivoluzione culturale all’interno della pubblica amministrazione del Regno Unito. In breve, la delivery unit è una specie di «task force del merito», un’unità governativa permanente che fa capo al Primo Ministro e si occupa di monitorare l’efficacia dell’azione di governo, aiutando concretamente ministeri e pubblica amministrazione a raggiungere gli obiettivi prefissati (ad esempio scuole migliori, mezzi pubblici più efficienti, reti stradali meno soggette a ingorghi). I risultati ottenuti da questa squadra – composta da cinquanta giovani di talento che restano in carica per una media di due anni – sono stati sorprendenti: costringendo i diversi settori della pubblica amministrazione a fare uno sforzo di trasparenza e razionalizzazione, la delivery unit ha trasformato il dialogo tra politici e cittadini inglesi e ha creato un modello di riconosciuta eccellenza nella gestione meritocratica dello stato. Non a caso la formula inventata da Barber e Blair è oggi applicata anche all’estero, Italia inclusa (sebbene con risultati altalenanti).
In pratica, premiando il merito si è ottenuto l’effetto di incentivarlo e diffonderlo nella società: come i cerchi sulla superficie di uno specchio d’acqua.1
Università
Lo stato di grave crisi dell’università italiana non è una novità. Non mi dilungherò a parlare del triste fenomeno della «fuga dei cervelli» (che non mi pare riceva la dovuta attenzione da parte delle istituzioni italiane: una nazione che lascia partire le sue risorse migliori, che genere di investimento sta facendo sul proprio futuro?), ma mi limito a riport...