I miei anni a rincorrere il vento
1
Raccontai a Helen la mia storia e lei tornò a casa e pianse. Quella sera venne a trovarmi suo marito e mi portò delle fragole: mi aggiustò anche la bicicletta, e fu gentile, ma non ce n’era bisogno, perché è accaduto tutto otto anni prima, e adesso non sono infelice. Quasi non ho il coraggio di ammetterlo, anche se tocco ferro, ma sono così felice che quando mi sveglio al mattino non riesco a credere che sia vero. Penso di rado al tempo in cui mi chiamavo Sophia Fairclough; cerco di tenerlo ben nascosto in un angolo della memoria. Non posso dimenticarmene del tutto a causa di Sandro, e spesso mi ritrovo a rimpiangere la graziosa, piccola Fanny. Vorrei non aver raccontato a Helen così tante cose; ha riportato tutto alla memoria in un lampo vivissimo. Riesco a vedere la faccia bianca e appuntita di Charles, a sentire la sua voce rauca e nervosa. Continuano a tornarmi in mente le cose.
Ci incontrammo per la prima volta durante un viaggio in treno. Entrambi portavamo delle cartelle da disegno, e fu per quello che iniziammo a parlare. Il giorno dopo Charles mi telefonò nell’atelier dove lavoravo, e poi ci vedemmo ogni giorno. Quell’estate il sole sembrava brillare senza sosta, i giorni erano tutti belli e scintillanti. Non pioveva mai, eppure tutto rimaneva fresco e verde, persino a Londra. Quando ero bambina le estati erano tutte così, e in inverno c’era sempre la neve alta oppure il ghiaccio. Adesso il tempo si è fatto più ambiguo; presto non saremo più in grado di distinguere le differenze tra una stagione e l’altra, se non per la caduta delle foglie, come dice la Bibbia, e allora ci sarà la fine del mondo; almeno credo che dica così.
Quando ci incontrammo, io e Charles avevamo vent’anni, e non appena compimmo i ventuno decidemmo di sposarci in segreto. Accanto alla casa dove avevo una stanza c’era una chiesa, perciò andammo a chiedere al prete di fare le pubblicazioni. All’inizio non osavamo suonare il campanello, eravamo troppo timidi. Charles disse che ci avrebbero fatti entrare e ci avrebbero dato un bicchiere di sherry e qualche biscotto. Restammo sull’ingresso ripassando quello che dovevamo dire e il prete probabilmente ci sentì, perché aprì la porta di colpo anche se non avevamo ancora suonato il campanello. Ci squadrò con quei suoi occhi infossati e disse: «Pubblicazioni» quasi gridando. Ci fece qualche domanda e scrisse le risposte su un taccuino nero, poi ci informò che se volevamo l’organo sarebbe costato di più, e anche i coriandoli sarebbero costati di più, per via di tutto il disordine che facevano, perciò gli dicemmo che potevamo fare a meno di tutte e due le cose, e lui richiuse la porta. Tornammo nella mia stanza e decidemmo come avremmo usato le dieci sterline che Charles aveva appena ricevuto per aver dipinto su un paravento delle signore vittoriane che si muovevano furtivamente. La committente era una delle amiche di sua zia Emma, e lui si era offeso perché lei lo aveva messo nella stanza della domestica, ma eravamo contenti lo stesso delle dieci sterline, perché erano gli unici soldi che avevamo da spendere per la nostra casa.
Qualche giorno dopo aver preso accordi per le pubblicazioni cenammo con un’amica spiritista, e dopo aver bevuto un po’ di vino le confidammo i nostri progetti di matrimonio. Fu entusiasta di partecipare a un matrimonio segreto, e quando le dicemmo che avevamo solo dieci sterline per ammobiliare la casa, ci diede un assegno di altre dieci; disse anche che conosceva una persona che aveva un appartamento da affittare a Haverstock Hill. Non contenta di tutto questo aiuto, si offrì di organizzare un piccolo ricevimento a casa sua dopo il matrimonio.
Nel primo pomeriggio libero andammo all’indirizzo di Haverstock Hill che ci aveva dato. Venne ad aprirci una donna dai capelli neri molto arruffati. Portava una grossa cintura d’argento intorno alla vita e sciatti abiti da artista. Ogni poche parole faceva un verso tipo «Gr-g-r», un po’ come un gatto gigantesco che facesse le fusa. Ci mostrò l’appartamento, che consisteva in una grande stanza nel seminterrato con una credenza dalla foggia antiquata e una piccola cucina. Bagno e gabinetto erano in comune. Dopo la visita, disse che avremmo dovuto conoscere sua sorella, «Gr-g-r», perciò salimmo al piano di sopra e la incontrammo: aveva i capelli ancora più arruffati, ma chiari, gli occhi tondi e blu e la faccia che ricordava un gelato alla fragola a buon mercato in procinto di sciogliersi, e immagino che anche il suo corpo fosse così, solo che era quasi interamente ricoperto di velluto color malva. Parlò un po’ con noi e disse che eravamo dei piccioncini in cerca di un nido. Ci fece sentire malissimo. Poi all’improvviso entrò in trance. Pensavamo che stesse per morire, ma la sorella ci spiegò che era una medium posseduta da uno spirito cinese chiamato signor Hi Wu. Poi fu il signor Hi Wu a rivolgersi a noi in un inglese approssimativo e ci disse che eravamo molto fortunati a poter avere un appartamento così bello per soli venticinque scellini alla settimana; ne valeva almeno trentacinque. Perciò quando si fu ripresa le dicemmo che avremmo preso l’appartamento e lasciammo l’affitto del primo mese come cauzione.
Dopodiché ci lanciammo in acquisti frenetici, per lo più nei negozi di Chalk Farm Road. Comprammo un massiccio tavolo ovale per sei scellini e sette pence e delle sedie per uno scellino e sei pence. Chiedemmo a un carpentiere di farci qualche sgabello, perché sedermi sugli sgabelli mi piace così tanto. Dipingemmo tutti i mobili di verde pallido con una punta di verde mare; ci eravamo fatti miscelare il colore apposta. Trovammo i tappeti un po’ cari; dovevamo prenderne due e costavano una sterlina ciascuno. Anche le lenzuola e le coperte ci diedero parecchio da pensare. Dovemmo comprare il divano a rate e per mesi continuò a darci preoccupazioni; rischiammo di perderlo diverse volte, ma dopo due anni finalmente diventò nostro per davvero e ci mandarono un grande certificato che lo diceva.
Ridipingemmo l’appartamento da soli. Dato che la stanza era piuttosto buia, per le pareti scegliemmo una specie di giallo screziato e, anche se un sacco di peli del pennello si mischiarono alla vernice, sembrava quasi che l’effetto fosse voluto.
In cucina facemmo le pareti bianche e Charles dipinse un cuoco accanto alla cucina a gas. La cosa che ci rendeva più orgogliosi era la credenza: i cassetti servivano per i vestiti e le mensole per le stoviglie. Comprammo un servizio da tè come si deve da Waring & Gillow, e un sacco di piatti blu da Woolworths; prendemmo lì anche le pentole. Quando acquistammo le fedi nuziali, sperai che ci avrebbero regalato un servizio di cucchiaini da tè, ma il gioielliere da cui andammo non lo fece, perciò prendemmo da Woolworths anche i cucchiaini.
2
Tutte le sere Charles mi aspettava fuori dall’atelier dove lavoravo. Lo vedevo dalla mia finestra, sempre lì, in piedi, appoggiato di schiena alla cancellata, a guardare gli alberi del giardino della piazza. La sera prima del matrimonio era lì come al solito e non appena uscii tirò fuori dalla tasca alcuni telegrammi e me li porse. Pensai che qualcuno doveva aver scoperto che ci saremmo sposati e che fossero congratulazioni, ma quando li lessi mi sentii anch’io terrorizzata come Charles. Uno era di mio fratello e diceva: «Non fare niente finché non mi rifaccio vivo». Non mi preoccupai più di tanto. Di fatto, passò più di un mese prima che lo risentissi, ma gli altri due telegrammi erano per Charles, uno da suo padre e l’altro dalla madre. Erano molto minacciosi.
Charles aveva una zia che viveva lì vicino, perciò decidemmo che la cosa migliore sarebbe stata andare da lei a chiederle consiglio. Si trattava di quella Emma a cui ho accennato nel primo capitolo ed era l’unica parente di Charles a cui andavo a genio. Tutti e due la ammiravamo tantissimo. Era una donna molto alta con i capelli rossi e indossava un mantello e un tricorno. Scriveva ed era nel complesso molto intellettuale e interessata ai diritti delle donne, ma non amava i bambini, quelli piccoli in particolare, forse perché non ne aveva mai avuti e non poteva più averne, ora che Simeon, il marito, era scappato. Quando usciva da una stanza, la gente parlava sempre a bassa voce del suo triste matrimonio; non si poteva pronunciare il nome di Simeon in sua presenza. Trovavo meraviglioso che mi approvasse e cercavo di non parlare troppo, per paura che scoprisse quanto ero stupida e ignorante. Le piacevano persino i miei tritoni e qualche volta, quando andavamo a cena da lei, mi portavo Great Warty in tasca; a lui non dispiaceva essere portato un po’ in giro, e mentre noi cenavamo lo facevo nuotare nella caraffa dell’acqua. Questa volta però non avevo nessun tritone in tasca e avevo la sensazione che le sarei diventata molto sgradita, ma quando arrivammo a casa sua e Charles le disse tutto dei nostri piani segreti di matrimonio che in qualche modo erano andati a farsi benedire, lei si dimostrò molto comprensiva e disponibile. Parlammo un po’. Poi le venne la geniale idea di fare un’interurbana al padre di Charles. Fu Charles a chiamare e disse che al telefono suo padre non sembrava poi così terribile; si era organizzato per venire a Londra in treno, di prima mattina, e dovevamo incontrarlo alla stazione, ma non dovevamo fare niente finché non fosse arrivato; la cosa non mi sembrò così spaventosa, anche se Charles era ancora molto preoccupato. Avevo la sensazione che il padre alla fine avrebbe accettato il matrimonio, in parte proprio perché la madre di Charles mi detestava così tanto. Non vivevano insieme, i genitori di Charles, e semplicemente si odiavano; sembrava ci fossero un sacco di matrimoni infelici in quella famiglia, forse in qualche modo era contagioso.
Dopo aver discusso l’interurbana fin nei minimi dettagli, Emma disse che ci avrebbe raggiunto alla stazione il giorno dopo e che avrebbe messo una buona parola per noi con il padre di Charles. Non posso continuare a chiamarlo il padre di Charles, perciò è meglio che lo chiami con il suo nome di battesimo, che era Paul. Assomigliava parecchio a Guy Fawkes ed era un bell’uomo; le donne cadevano sempre ai suoi piedi e questo faceva imbestialire ancora di più la madre di Charles. Lei si chiamava Eva. Sembrava uno scarafaggio duro, lucente, d’aspetto grazioso ma comunque orribile, uno scarafaggio viziato e irritante.
Quando lasciammo l’appartamento di Emma ci sentivamo stanchissimi e sull’autobus verso casa ci scambiammo a malapena due parole. Charles mi accompagnò fino alla casa dove abitavo e io gli chiesi di lasciarmi sola, dato che dovevo fare le valigie, ma prima che lui se ne andasse la mia padrona di casa arrivò salendo di corsa le scale; sembrava molto agitata e disse che era venuta la madre di Charles, con una squadra di zii e zie, ma che adesso se ne erano andati ed erano diretti alla casa dove viveva Charles. Era una notizia spaventosa; se solo avessimo potuto attendere fino al mattino dopo, ma Eva era il tipo di donna che non avrebbe mai aspettato fino al mattino. La mia padrona di casa era una brava persona. Faceva delle cose ai piedi della gente per farla stare meglio e aveva una stanza con le pareti tutte tappezzate di piedi di gesso. Era molto angosciata dall’invasione dei parenti di Charles. In realtà era stata lei che involontariamente ci aveva traditi. Quella mattina la madre di Charles era andata a trovarlo nella sua stanza, ma dato che lui non c’era la padrona di casa l’aveva indirizzata da me, che abitavo lì vicino. Quando la mia padrona di casa era andata ad aprire ed Eva le aveva detto chi era, lei l’aveva fatta accomodare e le aveva chiesto se era venuta per il matrimonio, dopodiché Eva aveva passato il resto della giornata a telefonare e a mandare telegrammi a chiunque le venisse in mente, in realtà divertendosi parecchio, mi viene da pensare; adorava la confusione.
Mentre ne parlavamo nell’atrio, si sentirono dei colpi alla porta e quando la aprimmo tutti i parenti materni di Charles si riversarono in casa. Cercai di correre su per le scale, ma mi piombarono addosso come uno sciame di calabroni arrabbiati. Una donna con un cappello nero rigido mi agguantò per un braccio e mi spinse nella stanza piena di piedi di gesso. Mi disse che ero una bestiolina senza controllo e mi chiese quando sarebbe dovuto nascere il bambino. Eva disse che non ero capace di amare, ma solo di concupire, e che era tutta una trappola per incastrare Charles. Dissi che non aspettavo nessun bambino, ma ci volle un sacco di tempo per convincerle e quando ci riuscii sembrarono quasi deluse. Continuavano a sostenere che ero cattiva e perversa a voler sposare Charles, e alla fine iniziai a credere di esserlo davvero e mi cominciarono a battere i denti. Charles era pallido come un cencio e molto spaventato; non fu di grande aiuto. Sua madre continuò a parlare così a lungo che quasi perse la voce e alla fine quasi gracidava.
Quando fu circa l’una venne su la mia padrona di casa e disse loro che dovevano andarsene perché tutti gli altri inquilini si stavano lamentando del rumore. Eva cercò di farmi promettere che non avrei rivisto Charles per un anno, ma tutto quello che riuscii a dire fu che avrei fatto qualunque cosa Paul ci avrebbe detto di fare il mattino dopo. Questo la fece arrabbiare ancora di più. Disse che se lui ci avesse dato il permesso di sposarci sarebbe andata in chiesa e avrebbe impedito il matrimonio. Poi se ne andarono tutti quanti, portandosi via Charles. Non mi aspettavo di rivederlo ancora. Non potei fare a meno di chiedermi cosa ne sarebbe stato dei nostri bellissimi mobili.
3
Poi arrivò il mattino e tornò la luce. Tutto intorno al letto c’erano valigie riempite a metà . I poster che avevano nascosto la brutta tappezzeria erano per terra, in lunghi rotoli di carta. Great Warty mi guardava dalla sua casa di vetro, perciò lo tirai fuori e lo lasciai camminare sul mio braccio finché non cadde sul letto, poi gli feci dei tunnel con le lenzuola, così ci poté camminare lentamente in mezzo e sembrava superpreistorico. Nel frattempo cercavo di dimenticare che quello sarebbe dovuto essere il mattino del mio matrimonio, e in più dovevo anche lasciare la stanza entro mezzogiorno perché era stata affittata a un’altra ragazza. In realtà pensai che avrei potuto vivere nell’appartamento nuovo, ma sarebbe stato impossibile senza Charles. Non volevo più rivedere quel posto e poi l’affitto sarebbe stato davvero troppo caro per me sola. Guadagnavo due sterline alla settimana e la stanza dove vivevo adesso costava solo quindici scellini.
Alla fine mi feci un bagno e mi vestii, poi mi chiesi che cosa avrei dovuto fare, magari telefonare alla signora Amber, l’amica spiritista, per dirle di non preoccuparsi del piccolo ricevimento che aveva pensato di dare per noi dopo il matrimonio. Poi mi misi a pensare a Charles. Forse la madre l’aveva fatto sparire nel Wiltshire e lui era infelice come me. Sentii sbattere la porta d’ingresso, poi ci furono passi veloci su per le scale e Charles aprì la porta di camera mia. All’inizio pensai che fosse troppo bello per essere vero e che mi stavo immaginando tutto, ma era proprio lui. Mi baciò e disse che era l’ora di incontrare suo padre e che secondo lui saremmo dovuti andare insieme alla stazione. Ero così felice di rivederlo dopo tutti quei pensieri tristi. Eccolo lì, con l’aria di chi dopotutto si sarebbe sposato. Indossava il completo nuovo; aveva una fantasia a quadrettini ed era uno dei regali che aveva ricevuto per il suo ventunesimo compleanno, perciò mi tolsi il mio vecchio abito giallo di lino e misi un vestito verde spaventoso con una gonna a portafoglio che si apriva sempre nei momenti sbagliati, ma era il migliore che avevo. Poi andammo di corsa alla stazione di Paddington.
Quando arrivammo vedemmo la figura slanciata di Emma che camminava su e giù per la banchina, perciò la raggiungemmo e le raccontammo della terribile accoglienza ricevuta la sera prima dopo che l’avevamo salutata. Poi arrivò il treno e Paul scese. Indossava una bombetta piuttosto antiquata, una cosa che non gli avevo mai visto prima, perciò dissi a Charles: «Se tuo padre indossa un cappello del genere significa che il matrimonio ci sarà ». Ma quando si voltò per parlare con Emma, vidi che il suo vestito era piuttosto logoro. Era stato allargato con un po’ di stoffa nuova, che gli disegnava una striscia lungo tutta la schiena, e io mi sentii morire, ma Charles sembrava abbastanza allegro e disse: «Non ti preoccupare. Qualunque cosa dica, nessuno ci può impedire di sposarci oggi».
Paul aveva un sacco di cose sulla carrozza del capotreno, un tavolo tondo, alcune ceste e altri oggetti che aveva portato per un amico; sistemò tutto nel deposito bagagli e poi andammo tutti insieme a Hyde Park, o forse era un altro parco di Londra. Ci sedemmo sulle panchine e discutemmo di quanto fosse impossibile che io e Charles ci sposassimo. Paul ci fece una lunga predica che lo infervorò non poco. Non lo ascoltavamo, ma fummo in grado di dire sì quando serviva. Charles diceva: «Certamente. Sì, è ovvio» e il sermone andava avanti liscio come l’olio. Paul ci chiese che cosa ne pensasse Eva e quando glielo dicemmo scoppiò a ridere, e aggiunse che era proprio da lei. Sia lui che Emma rimasero piuttosto sconvolti dalla donna con il cappello nero rigido che pensava stessi già per avere dei bambini. Dopo tanto parlare, disse che avremmo fatto meglio a mangiare un boccone, perciò andammo in un locale italiano vicino alla statua di Cobden. Avevo sempre pensato che la statua fosse di Crippen, per sottolineare che razza di posto poco raccomandabile fosse Camden Town, ma mi sbagliavo di grosso; Cobden era un insigne vittoriano.
Pensai che fosse un buon segno, il fatto che stessimo pranzando accanto alla chiesa scelta per il matrimonio, e dopo qualche bicchiere Paul disse: «Dunque, Charles, se permetto a voi due ragazzi di sposarvi dovrò smettere di mantenerti. Ho già abbastanza spese per mantenere due case come faccio adesso, e non posso mantenerne tre. Se non riesci a farcela da solo adesso che sei diventato maggiorenne e intendi sposarti, non ci riuscirai mai». Charles rispose: «Sì, sì», diverse volte. Faceva sempre così quando si sentiva in imbarazzo. Il pensiero di risparmiarsi l’assegno di Charles pareva dare a Paul una grandissima soddisfazione, comunque eravamo tutti di un umore piuttosto allegro; avevamo bevuto parecchio vino che sapeva di inchiostro e il pranzo era stato molto buono; era un ristorante italiano, quanto di più lontano dal tipo di locale in cui Paul andava di solito. Quando fummo a metà del caffè disse che avremmo dovuto sbrigarci o avremmo fatto tardi per il matrimonio. A questo punto mi ero già fatta l’idea che avrebbe acconsentito alle nozze e dopo l’accenno al mantenimento di Charles ne ero ormai abbastanza sicura.
Lasciammo il ristorante in gran fretta, perché erano già le due e mezza e in Inghilterra non puoi sposarti dopo le tre: credo che dipenda dalle leggi sulle licenze matrimoniali. La chiesa era proprio accanto a casa mia, perciò corsi dentro e mi sistemai alla bell’e meglio un cappello in testa, perché c’è un’altra legge anche per questo; mi infilai Great Warty in tasca a mo’ di paggio e uscii di casa correndo. Paul e Charles aspettavano fuori dalla chiesa. Paul disse che mi avrebbe portata all’altare. Per questo avevamo preso accordi con un bell’attore che conoscevamo, ma dato che Paul si divertiva tanto lo lasciammo fare e chiedemmo a un artista amico di Charles, di nome James, di farci da testimone.
Quando entrammo in chiesa il prete si portò subito via Charles. All’inizio pensai che fosse un trucco della madre, ma nessuno pareva sorpreso. Poi lo vidi in piedi accanto a James, rigido e immobile. Mi fecero sedere su una panca con Paul e temetti che per errore mi sposassero con lui. In chiesa c’erano un sacco di persone, molte delle quali non invitate. C’era il padrone dall’atelier dove lavoravo e qualche signora per la quale ogni tanto battevo a macchina, e il posto era zeppo di anziane affittacamere; alcune avevano grandi cappelli coperti di piume. Charles doveva l’affitto a parecchie di loro. C’erano Emma e qualcuno dei suoi amici, e mia sorella Ann. Le avevo chiesto di farmi da testimone. Era molto stupita di vedere Paul e tutta quella gente a un matrimonio segreto. Le sorrisi per assicurarle che era tutto a posto. Vedevo la signora Amber seduta da sola con un’espressione preoccupata; immaginavo che fosse tesa per via di tutte le persone che c’erano in chiesa, nel caso fossero venute al ricevimento; ne aspettava soltanto sette.
Poi mi dimenticai completamente della gente in chiesa perché si sentirono dei suoni tenui e dolcissimi, una specie di canto, un cinguettio. Vidi che in alto, sul soffitto, c’era una miriade di uccellini che cantavano e cinguettavano in modo magnifico; fui davvero contenta di non aver pagato un extra per quel terribile organo e sperai tanto che il matrimonio andasse bene dopo che gli uccelli erano stati così gentili con noi.
Un omino chiamato sacrestano venne a dirci che era venuto il momento di percorrere la navata. Mi guardai intorno rapidamente per assicurarmi che Eva non ci fosse. Aveva detto che avrebbe sostenuto di conoscere una ragione valida o un impedimento per cui il matrimonio non poteva essere celebrato e temevo una scena come quella che c’è in Jane Eyre, ma sembrava che Eva non fosse da nessuna parte, a meno che non si fosse nascosta. Mi ritrovai subito a camminare molto speditamente verso l’altare al braccio di Paul. Speravo che il mio capo non vedesse la cucitura sulla schiena di Paul. La gente continuava a sorridermi e non sapevo se avrei dovuto rispondere al sorriso o no; mentre le passavamo accanto, la mia penultima padrona di casa urlò: «Ti piacerebbe avere un gattino nato il giorno del tuo matrimonio?», perciò le gridai in risposta: «Sì», proprio mentre arrivavo all’altare. Charles era ancora lì, e anche il prete e James, che tirò fuori le fedi. Io e Charles dovemmo dire un sacco di cose, ma non fu difficile, perché le dicevamo dopo il prete, e fummo sposati in men che non si dica e anche senza problemi, perché Eva...