Il mercante di lana
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Il mercante di lana

Il

  1. 469 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il mercante di lana

Il

Informazioni su questo libro

Mary cura gli ammalati con le erbe del bosco. È questo il suo unico potere, e frate Matthew lo sa. Ecco perché tenta invano di salvarla durante il processo per stregoneria, anche se questo significa rischiare una dolorosa punizione, l'esilio. Costretto ad abbandonare il suo quieto monastero inglese, il frate intraprende un viaggio pericoloso attraverso la Francia, diretto al luogo dove dovrà scontare la pena. Ma presto scopre che il destino ha in serbo per lui qualcosa di diverso, ed è proprio lo spirito di Mary a indicargli la strada verso Felik, un villaggio sperduto fra le Alpi. Qui un atroce castigo divino sta per abbattersi sugli abitanti, che sembrano aver inaridito il proprio cuore. E un giorno, inaspettatamente, su Felik inizia a cadere una fitta neve tinta di rosso. Un grande affresco medievale che intreccia amore, avventura e mistero, sullo sfondo di paesaggi di rara bellezza.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2011
Print ISBN
9788817050876
IL MERCANTE DI LANA
Ducunt fata volentem,
nolentem trahunt
Guida è il fato per il saggio,
catena per lo stolto
(Seneca)
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Sibilla guardò sua madre: il viso cinereo, contornato dai capelli ingrigiti, sembrava quello della Madonna di pietra che stava a fianco dell’altare in chiesa. Il sudore freddo le appiccicava il corpo alla coperta di lana ruvida, il respiro si faceva sempre più breve e superficiale. Violenti brividi la scuotevano, malgrado la legna del focolare cedesse calore alla stube.
Sibilla aveva portato lì sua madre dal piano superiore, proprio perché stesse più calda: anche gli animali, al di là della parete, contribuivano con i loro fiati a isolare l’ambiente dal freddo esterno. Marcabrù girava intorno al giaciglio di Karola, annusando inquieto, le orecchie ritte e la coda bassa: di tanto in tanto appoggiava le zampe sulla coperta, leccava la mano magra abbandonata sul bordo del letto e poi tornava nel suo angolo vicino al fuoco, dove si accucciava per un po’, continuando a fissare con sguardo vigile la figura immobile distesa sul pagliericcio.
Karola emise un lungo rantolo, spalancò gli occhi e non li richiuse più.
Sibilla rimase inerte, come paralizzata, il respiro fermo: le sembrava che il tempo si fosse arrestato. Guardò per un lunghissimo momento gli occhi spenti di sua madre, incapace di muoversi, di gridare, di piangere. Poi, lentamente, le abbassò le palpebre e le congiunse le mani sul ventre.
Marcabrù saltò sul letto e, accoccolatosi sui piedi di Karola, tentò di risvegliarla con piccoli colpi di muso sulle gambe: non ottenne risposta. Allora cominciò a guaire, prima piano, poi più forte: dalla stalla, la capra, la vacca e le pecore parteciparono alla sua disperazione con belati e muggiti. Come se aspettasse un segnale, finalmente Sibilla si lasciò andare al pianto: fu un pianto di strazio, di disperazione, di abbandono, di rabbia. I suoi gemiti si mescolarono a quelli degli animali e risuonarono alti nello stadel, riempiendone l’aria e uscendo dalla finestra aperta, verso le strade del villaggio.
Fu così che gli abitanti di Felik seppero che Karola era morta: era l’ora di compieta e le donne più vicine uscirono nel buio e si avviarono verso la casa di Sibilla, dove i riti dovevano ora essere compiuti.
Gertrud aveva quarant’anni ed era cugina di Karola: quando era nata Sibilla, diciotto anni prima, aveva dato una mano al buono svolgimento di quel parto difficile e, sei anni dopo, aveva confortato Karola per la perdita immatura del marito, morto di una strana febbre che gli aveva gonfiato il ventre. Gertrud avrebbe voluto stare vicino a Sibilla durante quel mese di agonia, ma la ragazza non aveva voluto nessuno a condividere il suo dolore, e così ora non le restava che assisterla nella veglia funebre. La ragazza accolse le donne sulla soglia: la sua figura, di solito slanciata e flessuosa, ora appariva ingobbita e informe. I lunghissimi capelli neri erano sparsi a ciocche sudicie lungo la veste di lana grezza; nel viso scavato, dalla pelle bianchiccia e trasparente, si aprivano due orbite infossate. Soltanto gli occhi erano rimasti quelli di un tempo: azzurri, luminosi, penetranti, anche se ora lo sguardo era sconvolto e febbrile.
Gertrud l’abbracciò in silenzio, cercando di trattenere contro di sé quel corpo sottile e tremante, ma Sibilla si sciolse subito dal materno affetto della cugina per tornare al capezzale di Karola, dove le altre donne avevano già iniziato la lamentazione funebre. Marcabrù si era rintanato dietro un sacco di segale: stava seduto sulle zampe posteriori, in posizione di attesa, con il pelo irto e la coda nascosta.
Mentre le donne salmodiavano la loro litania, Gertrud e Sibilla procedettero alle ultime cure dovute a Karola tra le mura di casa: prima le lavarono il viso con una pezzuola di lino imbevuta d’acqua, poi le tagliarono le unghie di mani e piedi e le misero in una scatolina di legno. Infine accorciarono i suoi capelli di un palmo: Sibilla legò quelle poche ciocche grigie con uno spago di canapa e le ripose insieme con le unghie. Quindi, dal cassettone di abete che aveva abilmente scolpito suo padre tanti anni prima, estrasse un telo di finissimo lino: lo aveva procurato per loro Gertrud, l’estate precedente, quando un mercante che veniva dalle Fiandre era passato di lì per raggiungere Pavia. Karola aveva incaricato Gertrud di comprarlo, per donarlo a Sibilla quando fosse andata sposa.
Sibilla lisciò con grande dolcezza il sudario, poi, aiutata dalle donne, vi avvolse Karola e le depose ai piedi il cero della morte, accendendolo con un tizzone del focolare. Si inginocchiò ai piedi del giaciglio: guardando quella sagoma bianca che giaceva sul pagliericcio, si chiedeva che senso potesse avere adesso la sua vita.
Sua madre l’aveva cresciuta da sola, sopportando sulle spalle il peso di una precoce vedovanza, che l’aveva inevitabilmente isolata dal resto della comunità, privandola della sua giusta appartenenza sociale. Eppure non si era persa d’animo: lei, agiata moglie di un mercante di lana, non aveva esitato a trasformarsi in tessitrice, per assicurare un avvenire decoroso alla sua unica figlia. Aveva continuato ad allevare le poche pecore che brucavano l’erba del loro piccolo appezzamento di terreno: poi, con i primi guadagni, ne aveva acquistate altre, aumentando così la quantità di lana necessaria al suo lavoro. Una volta all’anno, a giugno, pagava due uomini, esperti tosatori, perché spogliassero i suoi animali del loro prezioso vello. Poi, aiutata da una serva fidata e da Sibilla, filava la lana e cominciava a tesserla. Il battere ritmico del telaio, situato in una piccola stanza a fianco della stube, aveva accompagnato l’infanzia di Sibilla: quando tornava dai giochi sull’aia, quel rumore le annunciava la presenza della madre, prima ancora che i suoi occhi potessero vederla. Dapprima Karola aveva esposto le sue pezze di lana solo al mercato del villaggio; in seguito, essendo un’abile tessitrice e avendo sviluppato una notevole fantasia nella lavorazione, era riuscita a vendere i suoi panni anche nelle fiere al di là delle Alpi, dove someggiatori a pagamento li trasportavano due volte all’anno.
Sibilla aveva imparato tutto da lei: aveva cominciato da bambina a pascolare le bestie e, quasi per gioco, a tessere la lana. Ma soprattutto aveva assorbito la forza d’animo della madre: si era instaurato tra di loro un rapporto stretto ed esclusivo che aveva permesso a Karola di capire quanto bene stesse assolvendo il suo compito. Sibilla sarebbe diventata una donna forte e capace di badare a se stessa.
O, quantomeno, così Karola aveva pensato fino a un anno prima, quando aveva scoperto che sua figlia si era innamorata di Leonhardt, primo figlio di Hermann Wiesel, uno dei più potenti mercanti del villaggio. Aveva fatto di tutto per dissuadere Sibilla dal proseguire una storia senza futuro: Leonhardt era l’unico erede dei Wiesel, destinato a proseguire l’attività del padre, con una precostituita posizione all’interno della comunità. Nessuno dei suoi parenti avrebbe permesso che la figlia di una vedova, pur benestante, entrasse a far parte della famiglia: Karola aveva gridato, aveva pianto, aveva blandito, ma Sibilla non aveva voluto sentire ragioni, e così quella storia era andata avanti fra mille sotterfugi. Alla fine, anche i genitori di Leonhardt erano venuti a conoscenza della storia tra i due giovani e avevano immediatamente posto il veto a un futuro matrimonio.
Hermann aveva detto chiaramente al figlio che se quella ragazza gli fosse servita come sfogo dei sensi, avrebbe facilmente potuto tenersela come amante, mettendo anche al mondo qualche bastardo, ma che mai e poi mai gli avrebbe consentito di portarla nella loro famiglia come sposa. E, per allontanare il più possibile i due giovani, lo aveva costretto a seguirlo nei suoi viaggi al di là delle Alpi, attraverso il passo di San Teodulo. Nelle fiere del Vallese, Hermann comperava soprattutto tessuti pregiati, ma anche sale o spezie, quando il loro prezzo era particolarmente basso; poi riportava tutte le mercanzie al villaggio in grandi sacchi trasportati dai muli e spesso scendeva anche in pianura, verso Vercelli o Novara, dove rivendeva le sue merci e ne acquistava altre. I tragitti erano tutti lunghi e faticosi e richiedevano molti giorni di cammino: i mercanti si fermavano spesso lungo la strada per riposarsi e per sostituire le bestie. Le taverne che li ospitavano durante queste soste fornivano cibo, vino e prostitute: Hermann sperava che la loro compagnia e un po’ di esperienza del mondo sarebbero servite a Leonhardt per dimenticare Sibilla. Fino ad allora Leonhardt aveva seguito suo padre due volte verso Vercelli e ora, mentre Karola moriva, era sulla strada del ritorno dei villaggi intorno a Praborno.
Gertrud si avvicinò a Sibilla, le circondò le spalle con un braccio e le sussurrò: «Cara, dobbiamo chiudere la seelabalga, ormai è ora!»
La ragazza guardò la cugina con occhi assenti, ma solo per un istante: poi, ripresa coscienza, si alzò dal pavimento e andò verso una piccola finestra quadrata, sormontata da una croce, che si apriva sopra la porta.
Era stata sua madre a spiegarle a cosa servisse quella strana apertura: quando qualcuno stava per morire, si doveva aprire la finestrella, in modo che l’anima potesse uscire dalle mura di casa senza trovare ostacoli; subito dopo la morte, la finestra doveva essere richiusa, per evitare che lo spettro del defunto tornasse ad abitare coi vivi. Così aveva fatto Karola quando era morto il marito, così doveva fare ora lei per sua madre.
Sibilla accostò uno sgabello alla parete e ci montò sopra: poi, con un colpo deciso, richiuse il battente. A quel rumore inaspettato, Marcabrù saltò in piedi e abbaiò. Sibilla andò verso di lui e lo accarezzò teneramente.
Marcabrù era con lei da quattro anni: era comparso una mattina d’estate davanti alla soglia della loro casa, arrivato chissà da dove, e si era sdraiato lì, in attesa. Era un cucciolo dal lungo pelo nero, completamente inzaccherato, e zoppicava un po’; Sibilla e sua madre lo avevano sfamato, pensando che, una volta sazio, se ne sarebbe andato per la sua strada. Invece era rimasto, paziente, ad aspettarle ritornare dai campi o dal mercato, ogni giorno, per una settimana intera; alla fine avevano deciso di tenerlo con loro, anche perché poteva servire come cane da pastore.
E così era stato: lo avevano chiamato Marcabrù, dal nome di un trovatore di cui Karola conosceva alcuni versi, per averli imparati da suo padre. Il cane era cresciuto rapidamente, diventando un animale forte e coraggioso, ma, soprattutto, legatissimo a Sibilla, con cui condivideva i pasti e il giaciglio. Non la lasciava mai, nemmeno durante i suoi incontri segreti con Leonhardt: la seguiva, ma da lontano, come se capisse il desiderio di intimità dei due giovani. Solo una volta si era avvicinato, abbaiando furiosamente, quando un lupo era uscito pericolosamente sul limitare del bosco, dove Sibilla e Leonhardt si erano nascosti a parlare del loro amore impossibile.
La ragazza pianse, bagnando con le sue lacrime le orecchie di Marcabrù: si sentiva sola, colpevole, inutile, piena di rabbia per la misera vita che si vedeva davanti. Gertrud le si avvicinò e l’abbracciò ancora in silenzio: la pena le impediva di pronunciare qualunque parola di conforto.
Avrebbe voluto fare qualcosa per Sibilla, ma sapeva bene che la sua situazione non sarebbe stata delle più facili all’interno di quel villaggio di mercanti, duri e troppo ricchi per aver pietà e comprensione della solitudine altrui. D’ora in poi, la sua sarebbe stata un’esistenza vissuta ai margini della comunità. E poi c’era la storia con Leonhardt, che non avrebbe certo reso le cose più facili.
Gertrud si ricordava ancora quel giorno di festa di due anni prima, quando un cerusico proveniente dalla pianura si era spinto fino a Felik per vendere le sue pozioni: insieme con lui c’erano due saltimbanchi che intrattenevano la gente del villaggio con musica e giochi di prestigio. Per vederli, tutta la comunità si era riunita sulla piazza, i mercanti, le loro mogli con i bambini, i contadini, l’ostessa, perfino il prete: tra i giovani, incantati dallo spettacolo, c’erano anche Sibilla e Leonhardt. Qualche volta in chiesa, alla funzione della domenica, Leonhardt aveva già notato quella giovane alta, con gli azzurri occhi volitivi e i capelli nerissimi, e Gertrud sapeva che il ragazzo ne aveva parlato ai suoi amici: questi, tutti figli dei mercanti del villaggio, lo avevano preso in giro, dapprima bonariamente, poi con modi più rudi, dicendogli che quella ragazza non era pane per i suoi denti, trattandosi della figlia della vedova Karola. Suo padre, affermavano, mirava in alto e, grazie alla sua ricchezza, sarebbe certamente riuscito a ingraziarsi qualche feudatario della valle, che gli avrebbe presto conferito un titolo nobiliare. Meglio, dunque, avrebbe fatto a dirigere la sua attenzione verso qualche altra giovane meglio accasata e con maggiori sostanze.
Leonhardt, tuttavia, non era riuscito a dimenticarla e quel giorno sulla piazza, approfittando della confusione, le aveva parlato e avevano riso insieme delle prodezze dei giocolieri. Gertrud aveva visto la gioia sul volto della cugina: fino ad allora Sibilla aveva nascosto perfino a se stessa l’attrazione che provava per Leonhardt, ben sapendo che non avrebbe dovuto innamorarsene. Ma l’ardore che aveva visto negli occhi scuri del giovane, l’eccitazione che traspariva dalla sua voce mentre le parlava, avevano acceso in lei la speranza che, i...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Collana
  3. Frontespizio
  4. IL MERCANTE DI LANA