Skeleton
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I romanzi della serie tv Bones

  1. 400 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Skeleton

I romanzi della serie tv Bones

Informazioni su questo libro

Per Temperance Brennan la verità su un caso di omicidio è scritta nelle ossa dei morti. Abituata a cercare con freddezza, sotto la luce del neon nel suo laboratorio di Montreal, indizi che gli investigatori non riuscirebbero mai a scovare, si trova smarrita quando lo scheletro di una ragazzina, scomparsa da molti anni, riaffiora all'improvviso. Il luogo del ritrovamento, inquietanti coincidenze e un infallibile istinto la portano a pensare che quelle ossa siano i resti di Evangeline Landry, l'amica del cuore sparita nel nulla quando entrambe erano ancora bambine. Angosciata dalle linee d'ombra del passato, Tempe cerca di scoprire il significato delle strane lesioni sulle ossa della bambina muovendosi nel territorio minato della memoria.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2011
Print ISBN
9788817028462
eBook ISBN
9788858619384

1

I bambini muoiono. La gente scompare. La gente muore. I bambini scompaiono.
Ho fatto i conti molto presto con queste realtà. A scuola, le suore parlavano di Paradiso, Purgatorio, Inferno e Limbo. Sapevo che i miei, un giorno, «se ne sarebbero andati», come si diceva in casa mia usando un eufemismo. Sarebbero andati a stare con Dio, a riposare in pace. Così, con questa nozione nebulosa, avevo assimilato l’idea che la vita terrena è destinata a finire; eppure la morte di mio padre e del mio fratellino fu un duro colpo per me.
E la scomparsa di Evangeline Landry era semplicemente inspiegabile.
Ma sto correndo troppo.
Iniziamo dal principio.
Da bambina vivevo nella periferia sud di Chicago, a Beverly. Concepito come luogo di villeggiatura dell’élite cittadina, il quartiere si distingue per gli ampi giardini, i grandi olmi e i clan di cattolici irlandesi dagli alberi genealogici più intricati degli stessi olmi.
La casa in cui abitavo era una vecchia fattoria ed era l’abitazione più antica del quartiere: una costruzione bianca dalle persiane verdi con un portico che le girava tutto intorno, una vecchia pompa dell’acqua sul retro e un garage ricavato da un’antica stalla.
I miei ricordi d’infanzia legati al quartiere sono felici. D’inverno tutti i ragazzini del vicinato si ritrovavano a pattinare sul ghiaccio su una pista improvvisata. Quando cadevo, mio padre mi aiutava a rimettermi in piedi sui miei «bilama» e mi ripuliva la giacca a vento dalla neve fangosa. D’estate, giocavamo per strada a palla, a rimpiattino o a mago libero. Mia sorella Harry e io catturavamo lucciole per rinchiuderle in vasetti di vetro col coperchio bucherellato.
Durante gli interminabili inverni del Midwest, schiere di zie e zii Brennan si riunivano a giocare a carte in quell’accozzaglia di stili che era il nostro salotto. Il rituale si ripeteva immutabile: dopo cena, mamma prendeva alcuni tavolini pieghevoli dal ripostiglio, li apriva e ne spolverava la superficie. Harry ci stendeva sopra una tovaglietta di lino e io disponevo al centro i mazzi, insieme a tovaglioli e ciotole colme di arachidi.
Con l’arrivo della primavera, i tavolini da gioco cedevano il posto alle sedie a dondolo sulla veranda, mentre la canasta e il bridge erano sostituiti da lunghe chiacchierate. Non ci capivo molto: Commissione Warren, incidente del Golfo del Tonchino, Krusciov, Kosygin. Ma non me ne importava. Quelle riunioni di persone col mio stesso DNA mi trasmettevano un senso di sicurezza. Il mio mondo era prevedibile, popolato di parenti, insegnanti, bambini come me, con famiglie simili alla mia. La mia vita era la Saint Margaret’s School, gli scout, la messa domenicale e, in estate, il campeggio.
Poi Kevin morì e il mio universo di bambina di sei anni si frantumò in schegge di dubbio e incertezza. Nella mia visione del mondo, la morte riguardava gli anziani, vecchie zie con nodose vene blu e pelle traslucida, non poppanti dalle guanciotte rosee.
Ricordo poco della malattia di Kevin. Meno ancora del suo funerale. Harry irrequieta sulla panca accanto a me. Una macchia sulle mie scarpette nere di vernice. Da dove veniva? Non lo so, ma mi pareva una cosa grave. Fissavo la piccola chiazza grigia per non vedere quel che mi stava succedendo intorno.
L’intera famiglia riunita, naturalmente, le voci sommesse, i volti tesi. I parenti della mamma dal North Carolina. E i vicini. I parrocchiani. Colleghi dello studio legale dove lavorava papà. Sconosciuti che mi accarezzavano la testa, bofonchiando di Paradiso e di angeli.
La casa traboccava di teglie e di vaschette avvolte in fogli d’alluminio o pellicola trasparente. Mi erano sempre piaciuti i tramezzini ma non quel giorno, né mai più da allora. A volte ci colpiscono cose davvero strane.
La morte di Kevin mutò ben più dei miei gusti in fatto di sandwich. Modificò l’intero scenario in cui si era svolta fino ad allora la mia vita. Gli occhi allegri di mia madre non furono più gli stessi, da quel momento perennemente cerchiati di scuro e infossati. Io, ancora bambina, ero incapace di comprendere fino in fondo le ragioni di quello sguardo ma ne avvertivo la tristezza. Anni dopo vidi la foto di una donna del Kosovo: il marito e il figlio giacevano rinchiusi in bare improvvisate. Riconobbi la stessa aria di sconfitta, la stessa muta disperazione che avevo visto, un tempo, nello sguardo di mia madre.
Ma il cambiamento non riguardava solo l’aspetto di mia madre. Lei e papà abbandonarono l’abitudine di prendere insieme l’aperitivo; di trattenersi a tavola a chiacchierare bevendo il caffè; di guardare la televisione seduti uno accanto all’altra, dopo aver sparecchiato e aver fatto indossare a me e Harry il pigiama. Lui smise di prenderle la mano e di sorriderle.
Dopo che la leucemia si fu portata via Kevin, le risate abbandonarono per sempre la nostra casa.
Mio padre fece lo stesso. Non si ritrasse in una silenziosa autocommiserazione come aveva finito per fare la mamma. Michael Terrence Brennan, avvocato d’assalto, intenditore di vini e notorio bon vivant, si rifugiò in una bottiglia di buon whiskey irlandese. In molte bottiglie, a dire il vero.
Al principio non mi resi conto delle assenze di papà. Come un dolore che si propaga progressivamente e di cui è difficile ricordare quando è cominciato, un giorno mi accorsi che a casa lo si vedeva sempre più di rado. Le cene senza di lui si fecero più frequenti, l’ora del suo rientro sempre più tarda, finché papà divenne poco più di un fantasma nella mia vita. Certe notti sentivo passi malfermi sui gradini, una porta che sbatteva troppo forte, il rumore dello sciacquone, poi silenzio o voci attutite in camera dei miei genitori, parole di accusa e risentimento.
Ancora oggi, lo squillo del telefono dopo mezzanotte mi fa rabbrividire. Sarò un’allarmista, ma, secondo la mia personale esperienza, le chiamate notturne portano solo cattive notizie: un incidente, un arresto, una lite.
Per la mamma, la chiamata peggiore arrivò diciotto mesi dopo la morte di Kevin. Allora i telefoni emettevano onesti squilli, non versioni polifoniche delle canzoni del momento. Il primo trillo echeggiò nel silenzio. Mi svegliai. Ne udii un secondo, l’inizio del terzo, poi un suono leggero, a metà tra il grido e il gemito e, infine, il rumore del ricevitore che cadeva sul ripiano di legno. Spaventata, mi tirai le coperte fin sugli occhi. Nessuno venne in camera mia.
C’era stato un incidente, disse mamma il giorno dopo. La macchina di papà era finita fuori strada. Non parlò mai del rapporto della polizia, del tasso alcolico nettamente superiore ai limiti. Questi particolari li scoprii da sola: origliare viene naturale a otto anni.
Ricordo il funerale di papà anche meno di quello di Kevin. Una bara color bronzo, una corona di fiori bianchi. Panegirici infiniti. Pianti soffocati. Mamma sostenuta da due zie. L’erba del cimitero di un verde da allucinazione psicotica.
I parenti della mamma arrivarono ancora più numerosi dell’altra volta: i Daessee, i Lee, cugini di cui non ricordavo i nomi. Sempre tenendo discretamente aperte le orecchie, carpii brandelli del loro piano: riportare la mamma e le bambine a casa.
L’estate che seguì alla morte di papà fu la più calda nella storia dell’Illinois: le temperature rimasero per settimane al di sopra dei 32°C. I meteorologi parlavano dell’effetto rinfrescante del Lago Michigan, ma noi eravamo lontane dall’acqua, circondate da troppi edifici e cemento. Niente brezze lacustri, dunque: a Beverly accendevamo i ventilatori, aprivamo le finestre e sudavamo copiosamente. Harry e io dormivamo su brande sistemate nella veranda chiusa dalla zanzariera.
Per tutto giugno, fino al principio di luglio, nonna Lee fu impegnata in una campagna telefonica volta a promuovere il «ritorno a Dixie». I Brennan venivano ancora a casa nostra, ma non più in gruppo, al massimo a coppie: uomini con le ascelle cerchiate di sudore, donne in abiti flosci di cotone. La conversazione procedeva tesa e imbarazzata, mamma nervosa e sempre sul punto di piangere, con la zia di turno che le teneva amorevolmente la mano e diceva: «Fa’ quel che è meglio per te e per le ragazze, Daisy».
Con una sorta di intuito infantile, fiutavo in quelle visite una crescente impazienza che il lutto finisse e si ricominciasse a vivere. Sebbene nessuno dei parenti di papà desiderasse veramente venire a farci visita, tutti sentivano il dovere di farlo, perché Michael Terrence era stato uno di loro e la questione della vedova e delle orfane andava opportunamente risolta.
La morte produsse un cambiamento anche nei miei rapporti sociali. I miei coetanei che abitavano nel quartiere ora mi evitavano e, se per caso li incrociavo per strada, abbassavano lo sguardo. Imbarazzati? Confusi? Timorosi di essere contagiati? Molti trovavano più facile tenersi alla larga.
Mamma quell’anno non ci iscrisse al campeggio e così Harry e io trascorremmo da sole quelle lunghe giornate afose. Io leggevo alla mia sorellina delle storie. Facevamo giochi da tavolo, mettevamo in scena spettacoli di burattini oppure andavamo a piedi da Woolworths, sulla 95a, per comprare fumetti e bibite alla vaniglia.
Nel corso di quelle settimane, sul comodino di nostra madre fiorì una piccola farmacia. Quando lei era al piano inferiore della casa, io correvo in camera sua ed esaminavo le boccette con i tappi bianchi zigrinati e le etichette con i nomi scritti a macchina. Le scuotevo, sbirciavo attraverso la plastica gialla e marrone. La vista di quelle minuscole capsule mi dava un fremito d’inquietudine.
La mamma prese la decisione a metà luglio. O forse nonna Lee la prese per lei. Ero presente quando lo comunicò ai fratelli e alle sorelle di papà. Tutti le rivolsero un affettuoso: «Forse è meglio così» e a me parve che nella voce ci fosse un’inflessione di sollievo. Ma a otto anni è difficile cogliere certe sfumature.
Nonna Lee arrivò lo stesso giorno in cui apparve un cartello nel nostro cortile. Nel caleidoscopio della mia memoria, la rivedo scendere dal taxi: una donna anziana, secca come un chiodo, mani nodose, pelle rugosa. Aveva cinquantasei anni.
Di lì a una settimana, ci pigiammo nella Chrysler Newport che papà aveva comprato prima della diagnosi di Kevin. Nonna guidava. Mamma sedeva davanti. Harry e io sui sedili posteriori, una barriera di pastelli e giocattoli nel mezzo, a delimitare i rispettivi territori.
Due giorni dopo arrivammo a casa della nonna, a Charlotte. A noi bambine fu assegnata la camera con la carta da parati a strisce verdi. L’armadio sapeva di canfora e lavanda. Harry e io restammo a guardare la mamma che sistemava i nostri abiti sugli appendini: i vestiti invernali separati da quelli della domenica e da quelli per tutti i giorni.
«Quanto ci fermeremo, mamma?»
«Si vedrà.» Le grucce dondolavano lievemente.
«Andremo a scuola qui?»
«Si vedrà.»
A colazione, la mattina dopo, la nonna ci domandò se ci sarebbe piaciuto passare il resto dell’estate al mare. Harry e io la fissammo da sopra la scatola dei cereali, sconvolte dalla portata dei cambiamenti che si stavano abbattendo sulle nostre vite.
«Certo che vi piacerebbe» si rispose da sola.
Come sai che cosa voglio o non voglio, pensai? Tu non sei me. Ovviamente aveva ragione – difficilmente nonna Lee si sbagliava – ma non era quello il punto. Un’altra decisione era stata presa e io non avrei potuto far niente per cambiarla.
Due giorni dopo il nostro arrivo a Charlotte, salimmo di nuovo a bordo della Chrysler, e la nonna si rimise al volante. Mamma dormì per tutto il viaggio, svegliandosi solo quando il gemito dei pneumatici annunciò che stavamo percorrendo la sopraelevata.
La sua testa emerse dallo schienale. Non si voltò verso di noi, non sorrise esclamando: «Pawley’s Island, arriviamo!» come aveva fatto in tempi più felici. Si limitò a ricadere pesantemente sul sedile.
La nonna le toccò la mano, un gesto identico a quello che usavano i Brennan come segno di conforto. «Staremo bene» sussurrò, con l’identico accento strascicato della figlia. «Fidati di me, Daisy, cara. Staremo bene.»
E io, non appena incontrai Evangeline Landry, stetti bene.
E così i successivi quattro anni.
Finché Evangeline scomparve.

2

Sono nata in luglio, il che, per una bambina, è un bene e al tempo stesso un male.
Ho sempre trascorso le mie estati nella casa al mare, a Pawley’s Island, e ho festeggiato i miei compleanni laggiù, con un pic-nic e poi una gita al Gay Dolphin Park, sulla passeggiata di Myrtle Beach. Adoravo quei pomeriggi al luna-park, specialmente le montagne russe: salire e scendere sugli stretti binari, essere catapultati a testa in giù, aggrappandosi alla sbarra finché le nocche non diventavano bianche, il cuore che batteva all’impazzata, lo zucchero filato che tornava su. D’altra parte però non ho mai avuto la soddisfazione di portare i pasticcini a scuola.
Quell’estate dopo la morte di papà compii otto anni. Mamma mi regalò un portagioie rosa con un carillon: se sollevavi il coperchio, compariva una ballerina. Harry disegnò per me un ritratto di famiglia: due omini grandi e due piccoli, mani sovrapposte, niente sorrisi. Il regalo di nonna Lee fu un libro di Lucy Maud Montgomery della serie Anna dai capelli rossi.
Anche se la nonna preparò il tradizionale pic-nic con pollo fritto, gamberi bolliti, insalata di patate, uova in salsa piccante e biscotti, non ci fu la gita pomeridiana al luna-park, quell’anno. Harry si era scottata al sole e mamma aveva l’emicrania, così me ne restai sola sulla spiaggia, seduta su una sdraio a leggere le avventure di Anna con Marilla e Matthew.
In principio non mi accorsi di lei, a causa del rumore delle onde e del richiamo dei gabbiani. Quando alzai lo sguardo, era a meno di due metri da me, le mani sui fianchi e le braccia piegate.
Ci studiammo a vicenda, in silenzio. Dalla statura dedussi che doveva avere un anno o due più di me, un corpicino da bambina, il costume sbiadito ancora piatto sul seno.
Parlò per prima, indicando il mio libro con il pollice. «Io ci sono stata.»
«Io no» dissi.
«Ho visto la regina d’Inghilterra.» Il vento danzava nel groviglio di capelli castani che aveva in testa, sollevando e lasciando ricadere le ciocche.
«Io no» ripetei, sentendomi immediatamente stupida.
«La regina di solito vive in un palazzo a Londra.» La ragazzina si tirò via dagli occhi i riccioli sbatacchiati dal vento. «Il mio grandpère mi ha preso sulle spalle, così l’ho potuta vedere.»
Il suo inglese non aveva l’accento nasale del Midwest, né la parlata strascicata, piena di vocali della costa sud-orientale. Esitai, incerta.
«Che aspetto aveva?»
«Portava i guanti e un cappellino lilla.»
«Dove l’hai vista?» scettica.
«A Tracadie.»
La «r» gutturale aveva ...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. 1
  4. 2
  5. 3
  6. 4
  7. 5
  8. 6
  9. 7
  10. 8
  11. 9
  12. 10
  13. 11
  14. 12
  15. 13
  16. 14
  17. 15
  18. 16
  19. 17
  20. 18
  21. 19
  22. 20
  23. 21
  24. 22
  25. 23
  26. 24
  27. 25
  28. 26
  29. 27
  30. 28
  31. 29
  32. 30
  33. 31
  34. 32
  35. 33
  36. 34
  37. 35
  38. 36
  39. 37
  40. 38
  41. 39
  42. 40
  43. 41