M’ammazza
Alcune (ottime) ragioni per non fare figli
La grande fregatura della maternità è che non esistono istruzioni per l’uso. Nessuno ti dice cosa significa davvero, lo devi scoprire da sola, e quando lo scopri è ormai troppo tardi: sei fottuta, finita, spacciata. Soprattutto: non puoi tornare indietro. Prima, nessuno ha il coraggio di dirti la verità . Tutti mentono sapendo di mentire. Si affannano a nascondere la reale portata apocalittica della situazione, mascherandola dietro espressioni come «lieto evento», «stato interessante», «dolce attesa». L’evento sarà lieto soprattutto per quelli che il bambino verranno a spupazzarselo per due ore una volta al mese, ma poi torneranno nelle loro case child-free, quelle che ancora ospitano soprammobili in vetro. Il tuo stato, più che interessante, sarà affaticante, soprattutto negli ultimi mesi. Infine, vorrei che qualcuno mi spiegasse cosa c’è di dolce nel vomitare tutte le mattine, vedere il tuo corpo che si gonfia come un canotto e trasformarti in una specie di lupo mannaro sotto l’effetto degli scompensi ormonali. Durante la gravidanza, niente sushi né caffè, proibite le terme, obbligo di indossare detestabili premaman, addio al sesso per i primi tre mesi. Dopo, guerra ai giardinetti con gli altri nani e le loro insopportabili madri, monologhi notturni con il tiralatte, occhiaie d’ordinanza per almeno un anno e appuntamento quotidiano con la bilancia per tentare di rinfilarsi in quei jeans che in realtà non potrai mai più mettere (mica penserai di poter tornare esattamente come prima, vero?).
Quello che si dice sulla maternità è una bugia che si è inventato qualcuno del marketing, ed era sicuramente un uomo; che poi lo abbia fatto per vendere montagne di pannolini o per assicurare ai maschi il diritto alla riproduzione è irrilevante: ormai la frittata è fatta. È un inganno collettivo che si consuma con la complicità di quelle che mamme già lo sono, tutte zucchero e sorrisetti estatici, colori pastello e felicità sbandierata ai quattro venti. Non farti abbindolare dalle loro ostentazioni: cercano solo di vendicarsi del fatto che, quando era il momento, nessuno le ha avvisate di quello che le attendeva. Desiderano che anche tu subisca la stessa sorte. Cercheranno di indurti in tentazione mettendoti in braccio il loro neonato, ma non farti intenerire: volevano soltanto liberarsene per qualche minuto.
Non lasciarti fregare nemmeno dalle riviste di settore: straripano di foto di donne incinte al venticinquesimo mese che sorridono graziose come se quella mongolfiera che si ritrovano al posto della pancia fosse facile e chic da portare in giro quanto una pochette; tutti i loro bambini sono biondi e hanno il viso angelico delle creature che non piangono mai; i neonati sono rosei, morbidi come marshmallows e dormono sempre. Ecco, basta grattare con l’unghia la superficie patinata di quelle copertine, che sotto lo sbrilluccichio emergerà intatta la cupa, plumbea realtà : la maternità può essere l’esperienza più difficile che tu abbia mai provato.
Come in Matrix, ti ritroverai in un universo parallelo, senza più coscienza dello stato precedente. Hai idea di cosa significhi veramente un figlio nella tua vita di tutti i giorni? Innanzitutto, significa che non avrai più una tua vita. Poi significa ritrovarti col pavimento di casa ridotto a un campo minato (mai provato i mattoncini Lego sotto la pianta del piede?). Sentire l’urlo disumano «Mamma ho finito» provenire tutti i giorni dal cesso. Scoprire il tuo rossetto preferito spalmato sull’oblò della lavatrice. Ritrovarti in vacanza senza mutande perché al tuo bagaglio hai dedicato tre minuti e al suo due giorni. Imparare un linguaggio da idioti per comunicare con il bebè. Sentirti dire «Quanto ti assomiglia» quando la sua faccia è quella grinzosa di un neonato appena sfornato.
Ma è ora di dire basta. È ora di squarciare il velo e rivelare il trucco. Di dare inizio a una rivoluzione del mamma-pensiero e abolire una volta per tutte il politicamente corretto. Per esempio, lo sapevate che il termine gravidanza deriva – nientepopodimeno – dal latino gravidus cioè «pesante, che porta dentro di sé un carico, un peso»? Ecco, facciamo come i Romani, cominciamo a dare importanza alle parole!
Fare un figlio vuol dire caricarti di un fardello di cui non ti libererai mai più. Nella peggiore delle ipotesi ti resterà attaccato come una cozza fino ai quarant’anni; nella migliore, a diciotto anni deciderà di cercarsi la sua strada, ti dirà «Arrivederci e grazie» e, siccome si sarà fatto una vita all’estero, non tornerà mai a farti da badante quando sarai vecchia. Non per questo, tuttavia, smetterà di assorbire ogni tuo pensiero, ogni tua energia, ogni tuo attimo. Perché un figlio rimane un figlio fino alla fine dei tuoi giorni: a due anni hai paura che ingoi un’oliva e soffochi, a otto che sia vittima di bullismo a scuola, a sedici che caschi dal motorino – e finché non senti le chiavi nella toppa non chiudi occhio; a ventiquattro temi che la persona sbagliata gli possa spezzare il cuore, a quaranta il cuore si spezza a te quando ti dice che sta per divorziare…
Ti senti pronta per affrontare tutto questo? Pensaci bene: non fare un figlio se vuoi continuare a essere il centro del tuo universo. A meno che tu non abbia quindici tate e una schiera di puericultrici, in ogni secondo della giornata lui sarà la tua prima, unica ed esclusiva preoccupazione. E per i primi due anni dovrai rinunciare completamente a te stessa.
Non fare un figlio se non pensi di avere il compagno giusto. Già è una battaglia improba, vedi di arrivarci almeno bene armata e con qualcuno in grado ti coprirti le spalle.
Non fare un figlio perché tutte le tue amiche ne hanno uno. Certo, hanno anche l’ultimo modello di Louis Vuitton. Con la differenza che la Louis Vuitton quando ti stufa puoi abbandonarla in un cassonetto senza essere arrestata.
Non fare un figlio perché il tuo lui sta pensando di lasciarti. Ti mollerà lo stesso, e per te sarà ancora più difficile trovare un nuovo compagno con un pancione di otto mesi.
Non fare un figlio perché adori quei minuscoli vestitini rosa: avrai un maschio, puoi scommetterci.
Non fare un figlio perché il tuo lavoro non ti soddisfa: ti soddisferà ancora meno quando dovrai timbrare alle otto dopo avere passato la notte in bianco.
Soprattutto non fare un figlio se non sei pronta a fare i conti con te stessa. Se è vero che stare con lui ti farà tornare improvvisamente bambina, preparati anche a invecchiare alla velocità della luce: niente ti dà il senso del tempo che passa come vederlo crescere. E magari scoprire assurdamente che vorresti tanto che non ti lasciasse mai.
L’ora X
La fregatura dell’orologio biologico
Ce lo ripetono come un mantra fin da piccolissime, quando l’unica cosa che ci interessa è il carillon che pende sopra la nostra culla: «Un giorno incontrerai il principe azzurro: con lui costruirai la tua famiglia e finalmente anche tu diventerai madre».
Inermi e inconsapevoli dei risvolti minacciosi e catastrofici che quella frase apparentemente innocente contiene, ci caschiamo come delle idiote; e così negli anni a venire quell’idea seminata dentro ogni piccola donna mette radici e cresce lavorando nell’ombra, amplificando l’istinto naturale inscritto nel nostro Dna femminile. Perciò ecco che a partire dai due anni circa, le bimbe iniziano a prendersi cura delle loro bambole similbebè: le vestono, le cambiano, giocano a preparar loro la pappa e le mettono a nanna. Praticamente imparano a fare le mamme prima ancora di imparare a parlare. Fa quasi impressione vedere queste nanerottole manifestare un istinto di maternità e protezione già così forte.
Da grandi, poi, le cose non migliorano: ci prendiamo cura del gatto, delle nostre amiche, del nostro uomo. Dateci tempo e diventiamo materne perfino con i nostri genitori, quasi un paradosso.
Passati i trenta, tua madre inizia a chiamarti ogni mattina per raccontarti che la figlia della cugina della sua migliore amica ha avuto un bambino. Subito dopo fa una pausa. Tu, cercando di cambiare argomento, rispondi sbrigativamente che sei molto felice per lei, ma la perfida non raccoglie. Aspetta solo di sganciare la domanda a tradimento: «E tu, cara, cosa aspetti?».
Non è solo tua madre: è tutta la società che ti pressa perché ti decida a sfornare un pupo. Oggi, come in passato, una donna senza figli è una donna «strana», non completa, esattamente come duemila anni fa. Pensavate di vivere nella modernità solo perché da cinquant’anni andare in giro in minigonna non è più reato in Italia? Sbagliato. È vero che rispetto alle nostre trisnonne abbiamo qualche benefit in più: possiamo viaggiare da sole per il mondo, abbiamo una carta di credito tutta nostra ed eventualmente possiamo anche scegliere di non volere figli. Eventualmente. Perché anche dentro le nostre cucine Ikea nuove di zecca continuiamo ancora a pensare, in una qualche stanzetta in fondo al nostro cervello, che il modello «angelo del focolare» sia in fondo quello più fico. Ed è anche per questo che forse ci siamo incasinate la vita: ora non dobbiamo più solo essere professioniste affermate, ma vogliamo pure tornare a essere madri attente e premurose; il tutto, possibilmente, continuando a conservarci gnocche.
Cresciamo insomma con la certezza che un giorno saremo madri, non lo mettiamo in dubbio neppure per un secondo. Quello che è cambiato rispetto a prima sono casomai le tempistiche. Una volta, a venticinque anni ti ritrovavi sposata e un anno dopo arrivava il (primo) bambino. Oggi un figlio non capita, lo si organizza: non troppo presto perché prima c’è l’università ; poi parte la carriera e se resti incinta, nella migliore delle ipotesi, il tuo capo si accorge all’improvviso che il tuo collega (maschio) è molto più bravo di te; nella peggiore, rischi di non averlo nemmeno più, un collega. Così ci si ritrova nella seconda metà dei trenta, sperando di avere accanto un compagno decente con il quale metter su famiglia. E per raggiungere la qualifica di «decente» basta solo che non passi le sue serate a giocare con la PlayStation e che abbia dimostrato di saper tenere in vita almeno una pianta grassa.
Nonostante sia stata sposata dai venti ai ventisette anni, per un lungo periodo avere un figlio non era nei miei piani (devo essere proprio un mostro). Per me al primo posto c’era la carriera. Soltanto dopo aver superato la fatidica barriera dei trenta l’istinto materno ha cominciato, più o meno insistentemente, a farsi sentire. Per l’esattezza, la sveglia biologica è suonata a trentadue anni. A quel punto, mi rimaneva soltanto da trovare un padre.
Non che da quel momento mi sia messa ad andare in giro armata di quello che tecnicamente si chiama «l’occhio del compratore»; non che procedessi, cioè, scandagliando i fondali come un radar per capire se ci fosse materiale umano adatto ai miei scopi. Però, ecco, diciamo che ho cominciato a tenere le antenne ritte e tutti gli strumenti di rilevazione ben accesi, casomai mi fosse capitato a tiro qualche candidato interessante. È stato così che ho conosciuto Eugenio: io sondavo le acque, e lui è finito nella rete. Anzi, ci si è proprio gettato (si vede che era destino).
In realtà , sebbene fin da subito la mia «pancia» mi dicesse che poteva essere la persona giusta, ho deciso di prendermela comoda (perché va bene l’orologio biologico, ma non è che avessi tutta questa fretta e qualche settimana in più o in meno non facevano una gran differenza). Perciò, due giorni dopo il nostro primo appuntamento, visto che avevo già programmato il viaggio e non avevo alcuna intenzione di rinunciarci, ero partita con un’amica per la Costa Rica, dove saremmo rimaste un mese intero. Avevo salutato Eugenio con la consapevolezza che in quei trenta giorni poteva succedere di tutto: la guida prometteva bar sulla spiaggia, fiumi di alcol e surfisti seminudi ammassati al bancone. E noi partivamo al grido di «Ogni lasciata è persa». Sapevo che anche per lui le occasioni non sarebbero mancate e non mi aspettavo certo che si sarebbe tirato indietro.
La prima notte dopo il mio rientro in Italia, però, dopo essermi rigirata per un po’ nel letto a causa del jet lag, mi era venuto l’istinto di chiamarlo per sentire se aveva voglia di fare un salto da me a mangiare un boccone. Non l’avrei biasimato se mi avesse risposto: «Sono le due di notte. A quest’ora non uscirei di casa nemmeno se Angelina Jolie e Scarlett Johansson mi contattassero per una cosa a tre». Invece, imperturbabile, era saltato in macchina e mi aveva raggiunto da Crema, solo per poi sentirsi ammorbare per tre ore con gli aneddoti della mia vacanza. E da vero uomo, non mi aveva nemmeno chiesto se ero stata a letto con qualcuno. Non era interessato a questi stupidi dettagli. L’unica cosa che gli importava è che in quel momento ero lì, con lui. Ho capito che aveva trascorso quel mese nell’attesa del mio ritorno; anzi, era come se quel mese di distacco fosse stato solo un giorno. Da come si comportava, era chiaro che mi considerava già «la sua fidanzata». In pratica, era una specie di principe azzurro, solo molto più divertente. Anzi, proprio un vero cazzaro, con un animo festaiolo e la battuta sempre pronta, ma allo stesso tempo dolce e sensibile. Una sorta di gigante buono, visto che è un omone di quasi due metri. E in più, gran finale, risolveva anche il mio Edipo: l’ho detto subito anche a lui che mi ricordava mio padre.
Per i primi tre mesi l’ho sottoposto a un vero e proprio test drive: ci frequentavamo, andavamo al cinema e a cena, dormivamo persino insieme, ma niente sesso. Volevo prima conoscerlo, capire se avevamo davvero qualcosa di importante da condividere. Mi ero appena lasciata alle spalle una storia sbagliatissima con un insicuro cronico: a letto fuochi d’artificio, fuori un disastro. Non volevo ripetere lo stesso errore. Eugenio anche sul versante «sesso» aveva avuto la pazienza di aspettarmi (poi, alla fine, una sera non ce l’ha fatta più nemmeno lui e mi è saltato addosso – ma quale vero uomo non lo avrebbe fatto?). Chi meglio di lui, dunque, poteva essere il padre dei miei figli?
Così, qualche tempo dopo, una sera al ristorante, decisi che non avevo tempo da perdere. Anche se ci frequentavamo da poco, per molti versi lui mi sembrava la persona giusta per mettere su famiglia: era un uomo solido, leale e davvero interessato a me. Cosa ancora più importante, si trattava anche di un raro esemplare di maschio risolto, uno di quelli che possono sopportare persino di guadagnare meno di te; insomma, una vera rarità . Perciò, anche se può sembrare poco romantico, misi subito le carte in tavola dicendogli a bruciapelo: «Il mio prossimo uomo sarà il padre dei miei figli: sempre interessato?».
Mi potevo aspettare qualunque tipo di reazione, a partire da «Scusa, esco a prendere le sigarette» fino a «Prima di fare un bambino posso almeno finire di mangiare?». Se mi avesse anche semplicemente detto: «Grazie, ma non sono interessato» l’avrei apprezzato, perché mi avrebbe lasciata libera di proseguire la mia ricerca di quell’essere perfetto che volevo arruolare per il mio progetto di famiglia. Non capisco quelle donne che, anche dopo una relazione di anni, hanno paura di affrontare il discorso con il proprio compagno perché temono che lui possa scappare. Capisco ancora meno quelle che incastrano qualcuno che non ha nessuna voglia di essere incastrato: oggi, ancor più che in passato, l’uomo se ne va anche se c’è un figlio, e il rischio di ritrovarsi da sole a crescere un bambino non è poi così raro.
Io sono stata fortunata. Eugenio non si è spaventato perché ha intuito lo spirito con il quale avevo deciso di parlargli: non gli stavo proponendo di fare un figlio la sera stessa, cercavo solo di capire se l’eventualità di diventare padre gli facesse orrore al solo pensiero. Troppo pragmatica? Forse sì, ma certi sentimentalismi italiani non mi appartengono. Preferisco essere più realistica – e questo fortunatamente è un altro dei vantaggi dell’affrontare la questione quando si è un po’ più mature.
L’età della prima gravidanza per una donna si è alzata di parecchi anni; perché allora nascondere la testa sotto la sabbia come gli struzzi e rischiare di ritrovarsi sole a ricominciare tutto da capo quando ormai è troppo tardi per poterlo fare? La verità , per quanto spiacevole sia, è che dopo i trentatré anni non solo il culo non è più sodo come una volta, ma anche il sistema riproduttivo femminile è ritenuto vecchio. Sapete come chiamano le donne che restano incinte per la prima volta a questa età ? Primipare attempate. Sì, attempate, che non è proprio come dire tardone, ma poco ci manca. Non a caso, un numero sempre crescente di donne è costretta a fare ricorso alla fecondazione assistita per realizzare il proprio sogno di essere madri.
Che ironia: passi una vita a usare (giustamente) il preservativo anche per evitare gravidanze indesiderate, e quando smetti di usarlo perché una gravidanza la desideri moltissimo, scopri che non è tutto così semplice. E allora: pronti, via!, a tenere d’occhio il calendario della tua ovulazione con la stessa attenzione con cui prima seguivi le date di inizio saldi. Facciamo l’amore? Meglio lunedì prossimo, se non ti spiace. Si prova un mese, poi quello dopo, e se non ti riesce subito vieni colta dall’ansia.
Sono poche le donne che si sentono sicure della loro possibilità riproduttiva; anche quelle più tranquille, dopo qualche mese di tentativi andati a vuoto, cominciano in genere a provare una sottile ma crescente preoccupazione. Il desiderio insoddisfatto di un figlio spesso costringe a riflettere su se stesse, sull’essere donne, sulle più profonde capacità di accogliere una vita: ci si chiede se si «riuscirà », come se il concepimento e la maternità fossero una prova, un esame, un traguardo da superare, qualcosa da dimostrare. Si identifica la fertilità con l’essere donna, con la necessità di venire completate da un figlio e di risolvere i problemi di identificazione con la propria madre e con tutto il proprio mondo femminile (salvo poi trovarsi anni dopo a ripetere a tuo figlio le frasi di tua madre che più trovavi odiose o ridicole). Allora per allontanare la paura ci si sottopone a tutti gli esami del mondo: la potenza del seme di lui e il numero di ovuli di lei, le tube, gli ormoni. A qualcuna passa persino la voglia.
Oppure si rimane incinta. E diciamoci la verità , che succeda subito o dopo mesi di tentativi, quando accade ci si sente miracolate, quasi delle prescelte. Non importa quanto disinvolta una donna vi possa sembrare quando vi parla della sua futura maternità : nel fondo del suo cuore si annida sempre il terrore di non farcela, di non riuscire ad avere bambini per i motivi più svariati. Può capitare di non sentirsi all’altezza, di percepirsi «difettose», di temere di non essere come le altre. Ed è per questo che nel momento in cui si scopre di essere incinta il primo pensiero, prima dell’emozione, prima della paura, prima di tutto è: «Allora funziono anch’io! Wow». Che sollievo.
Ci son...