
- 164 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Una vita da spia
Informazioni su questo libro
Per raccontare come vive un agente segreto, Emilie Randacio dà voce all'esperienza di Marco Bernardini, per molti anni all'interno del Sisde con incarichi in America Latina, nei Balcani, in Francia e in Medio Oriente. A partire dai primi tempi in Autonomia operaia fino ai suoi incontri con Arafat e Fidel Castro e all'affare Telecom, Bernardini vive in prima persona alcuni dei momenti più delicati della storia italiana contemporanea. E attraverso la sua testimonianza ci permette di ripercorrerli da una prospettiva ricca di sorprese.
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Informazioni
Print ISBN
9788817020572eBook ISBN
97888586015941
L’arruolamento
Al botteghino dei cinema il film più gettonato è Foot- loose. L’Italia del pentapartito guidato da Bettino Craxi firma il nuovo concordato con il Vaticano. Carlo Rubbia vince il premio Nobel per la Fisica. L’onorevole Tina Anselmi presenta al Parlamento la relazione finale della Commissione d’inchiesta sulla P2 che smaschera i legami tra apparati dello Stato e il capo della Loggia massonica, Licio Gelli.
Marco Bernardini nel 1984 ha 26 anni. È un ragazzo della borghesia romana, suo padre è dirigente d’azienda, sua madre è impiegata. Ha gli stessi interessi di molti suoi coetanei, nulla di più. Alla sera gli piace uscire con gli amici, è uno sportivo, con una particolare passione per le arti marziali. Mentre tenta di finire l’università, insegna ginnastica e difesa personale, d’estate fa il buttafuori in un locale jazz sul Lungotevere. È un modo per pagarsi gli studi. Dopo il liceo e una breve parentesi a Giurisprudenza, si è infatti iscritto alla facoltà di Medicina. In realtà, questo omone di un quintale in testa ha un’idea fissa: diventare un servitore dello Stato. Non ha parenti in divisa, nemmeno amici. È semplicemente affascinato dall’idea di fare questo tipo di carriera. Qualche anno prima ha tentato di entrare in polizia, ma l’iter è lungo, interminabile. Lui scalpita. Le domande presentate ai carabinieri giacciono nel cassetto di qualche caserma. Forse, su queste mancate risposte pesano i precedenti per rissa durante gli scontri tra giovani della sinistra romana e ragazzi come lui, simpatizzanti del Fronte della gioventù. È schedato dalla Digos della capitale come un picchiatore di destra. Alla politica si era avvicinato per caso, solo per simpatia, quando frequentava il liceo. La sua educazione in casa era stata apolitica. Nessun giornale di partito, nessuna ideologia particolare era professata dai genitori, né tantomeno dalle due sorelle. Ma a scuola, quegli scalmanati che seguivano i principi di Mao, di Fidel Castro, la rivoluzione comunista, proprio non li digeriva. Non gli piaceva come si vestivano, non gli piacevano i loro discorsi e lo stile di vita che reputava troppo privo di regole.
Quando si iscrive all’università Marco coltiva un sogno. Ne parla continuamente, quasi come un’ossessione. Vorrebbe lavorare per lo Stato, crede che per realizzarsi la strada giusta sia questa.
Quelli che frequenta lo sanno tutti. E il passaparola, a Natale del 1984, dà i suoi frutti. Viene invitato a casa di un suo coetaneo, che conosce da anni e che ufficialmente lavora alle “dipendenze della Presidenza del Consiglio”, per una tradizionale tombola. Una serata in famiglia di amici, mentre Roma è addobbata per le feste. Proprio in quei giorni, l’Italia è scossa dal ritorno stragista. Il 23 dicembre sul Rapido 904 scoppia una bomba in una galleria di San Benedetto Val di Sambro. Il convoglio, partito da Napoli e diretto a Milano, è carico di passeggeri, in gran parte in viaggio per le vacanze natalizie. Il bilancio finale è di 12 morti e più di 100 feriti.1
Anche i rigurgiti brigatisti sono tutt’altro che repressi. Proprio in quel periodo si registrano rapine che sembrano avere come scopo finale il finanziamento della lotta armata. Segnali che scattano come allarmi e che si materializzeranno di lì a pochi mesi con l’agguato mortale contro l’economista e consulente del governo Ezio Tarantelli, ucciso a Roma il 27 marzo 1985.
Alla vigilia del Natale, in quella casa Marco viene presentato a un enigmatico professor De Santis. E l’incontro segnerà la sua vita.
Da un doppiopetto elegante spunta in maniera grossolana il calcio di una pistola. Marco più che spaventato è incuriosito. Il suo interlocutore, dopo le presentazione di rito, stuzzica Bernardini, cerca di conoscerlo meglio: «Mi hanno detto che è interessato a diventare un servitore dello Stato». Non c’è bisogno di fingere. Nell’Italia della Prima Repubblica, nel sottobosco ministeriale degli anni Ottanta, una raccomandazione è più che sufficiente per prendere in considerazione una candidatura a lavorare per quell’ambiente tanto misterioso quanto inesplorato dei Servizi segreti. Allora il Sisde, l’intelligence che dipende dal Viminale e che si occupa degli affari interni, è la meta dei “figli d’Italia”, ovvero dei figli degli alti funzionari dello Stato, di molti politici dei partiti più vari. È un posto ambito perché gli stipendi sono particolarmente elevati – nel novembre 1984 la differenza tra uno stipendio dello Stato e uno del Sisde, a parità di grado e anzianità, è del 50% – e perché non c’è bisogno di concorso pubblico o di titolo di studio, basta una segnalazione. Ovviamente quella giusta.
Marco non sta nella pelle: «È il mio sogno, ma non vorrei rimanere dietro a una scrivania, mi piacerebbe essere operativo». Va oltre, osa. E questa sua sfacciataggine viene premiata.
«Che ne sa dei Servizi segreti?» gli chiede ancora De Santis. La risposta di Marco è disarmante: «Nulla, non so nemmeno dove stanno» dice con un sorriso. Lui non pensa a tanto. Si aspetta piuttosto di poter indossare al più presto una divisa.
«Visto quello che vuole potrebbe avere una chance» lo rassicura il professore «servono giovani motivati, lì potrebbero accoglierla con un tappeto rosso. Le interesserebbe?» Contare su una persona all’interno del Policlinico potrebbe essere un’idea vincente, utilissima al lavoro di intelligence. Al Sisde lo sanno e l’offerta non è casuale, sporadica, una banale boutade. La risposta è, ovviamente, scontata. Tombola.
Parte l’iter burocratico. In realtà è più semplice di quanto uno possa immaginare. «Mandi un curriculum, e poi ci pensiamo noi» termina De Santis. L’aspirante medico non si lascia sfuggire l’occasione, e cerca a tutti i costi di sfruttare l’opportunità. È sveglio e convinto che cercheranno di sapere qualcosa di più su di lui, e quando rientra a casa allerta il portiere dello stabile in cui abita con i genitori: «Ho fatto domanda in banca, forse vengono i carabinieri a chiedere informazioni, me lo faccia sapere». Questo scrupolo è superfluo, il suo destino è già segnato. Erano mesi che il suo amico, il tramite con il professore, parlava di lui in “ufficio”, che garantiva, ci metteva la faccia per dire che Marco era l’uomo giusto, che ai Servizi uno come lui sarebbe stato molto utile. Non c’era bisogno di indagare, erano a conoscenza già di tutto quello che serviva. Ai piani alti sapevano che era uno studente di Medicina, svolgeva il proprio tirocinio universitario preso il terzo reparto del Policlinico Umberto I, chiamato il “terzo repartino”, dove lavorava un gruppo di persone che all’epoca era considerato l’area fiancheggiatrice delle Brigate rosse.
Un paio di giorni dopo Natale, l’amico lo va a trovare e gli dice: «Vieni, ti presento il capo». L’incontro avviene in strada. Il suo primo interlocutore è il “vicecapo centro”, il numero due della sezione. Ogni unità ha un responsabile, il capocentro, e uno o più vice.
«Abbiamo visto la tua domanda, ti dico subito che bisogna essere affidabili per entrare, i numeri sono contingentati. Certo, se vuoi essere operativo, magari inizi da collaboratore esterno. Se superi questa prima prova c’è il contratto e poi vieni assunto. Ci saranno accortezze da utilizzare. La tua vita sarà stravolta. Se ti va, bene. Ci pensi e mi dai una risposta.» Di fronte al sogno che si realizza non c’è bisogno di pensare, il desiderio è solo che la notte passi velocemente. La mattina successiva, Marco accetta.
Nel 1989 la Polizia rispolvererà la sua vecchia domanda. Ma dopo cinque anni per l’aspirante 007 gli interessi e le mete sono ormai cambiati e la revocherà. Il sogno di indossare la divisa dei carabinieri non lo sfiorerà mai più e l’Arma non lo chiamerà nemmeno per un colloquio. Pratica definitivamente archiviata.
Questo è stato il primo approccio di Marco Bernardini con il Sisde. Il principale collaboratore dell’inchiesta milanese che ha scoperchiato lo scandalo delle intercettazioni abusive del gruppo Telecom, dei dossier illegali commissionati su oltre 60 mila persone, che ha spiato illegalmente uomini politici, personaggi della finanza, aspiranti dipendenti del colosso telefonico italiano, intercettato senza autorizzazione. Bernardini, romano, classe 1958, prima di passare alla Security della Telecom di Giuliano Tavaroli, al Sisde ha siglato per 12 anni e mezzo i suoi dossier con il nome di battaglia “Brigida”. La prima lettera del cognome, il resto perché un infiltrato dei Servizi segreti, in questi anni, deve portare un nome femminile o quello di un fiore. Così impone la prassi.
La sua storia è solo un esempio delle decine di migliaia di uomini sparsi per il mondo che lavorano in segreto per l’intelligence di un qualche Paese. A metà degli anni Ottanta la comunità spionistica mondiale è composta da almeno un milione e 250 mila persone (di cui 150 mila statunitensi). Un’organizzazione colossale che in quegli anni costa agli Stati una cifra superiore ai 17 miliardi e mezzo di sterline, equivalenti a 40 mila miliardi di vecchie lire all’anno. Solo il controspionaggio americano, la colossale e temutissima Cia, pesa sulle casse del governo di Washington un miliardo e mezzo di dollari all’anno. Fare un bilancio preciso dell’attività spionistica italiana è molto difficile, forse è impossibile. Gli atti, i numeri, sono doverosamente coperti dal segreto di Stato. Dal dopoguerra, «nonostante sia impossibile fare una stima attendibile, possiamo ritenere che gli infiltrati o gli informatori che hanno lavorato per i nostri apparati – anche tralasciando il piccolo confidente di quartiere – siano nell’ordine delle migliaia» (Gianni Cipriani, Lo Stato invisibile). Sulla loro attività, al di là del materiale di archivio divenuto pubblico, fino a oggi si è scoperto davvero poco.
1 Anni dopo, le indagini del pubblico ministero Pier Luigi Vigna porteranno alla condanna del boss di Cosa nostra, Pippo Calò e di un nutrito gruppo di esponenti della Banda della Magliana. Secondo l’atto d’accusa di Vigna, «è lecito sostenere che l’atto sia stato suggerito dallo scopo pratico di distogliere l’attenzione degli apparati istituzionali dalla lotta alle centrali emergenti della criminalità organizzata che in quel tempo subiva la decisa offensiva di polizia e magistratura per rilanciare l’immagine del terrorismo come l’unico, reale nemico contro il quale occorre accentrare ogni impegno di lotta dello Stato».
2
L’addestramento
Prima di firmare un’informativa, c’è da sudare. Bisogna dimostrare di essere svegli, affidabili, utili alla causa. E Brigida, per ottenere quel posto, è pronto a tutto. Per i primi due mesi non c’è retribuzione. Poi ci sarà una sorta di rimborso spese. Il vero scoglio da superare è il periodo di prova. Se le cose andranno per il verso giusto, si potrà pensare a qualcosa di più concreto, a un futuro. La speranza è quella dell’assunzione, di un posto fisso.
«Siamo interessati a inserire un infiltrato nel Collettivo di Medicina di via dei Volsci» gli dice senza troppi giri di parole il “professore”.
L’attenzione verso quella sede dell’Autonomia operaia romana, nata dal movimento studentesco, è abbastanza naturale. Via dei Volsci sembra essere una fucina delle teste più calde, dei più facinorosi, di coloro che più violentemente animano i cortei di protesta che si organizzano in quegli anni nella capitale. La sua sede è nel quartiere San Lorenzo, a pochi passi dal Tevere. La storia dei collettivi autonomi ha origine nei primi anni Settanta quando si iniziano a raggruppare alcuni transfughi del Pci e del «manifesto».1 A Roma, all’origine di tutto c’è l’alleanza lavoratori-studenti del Collettivo di Medicina, che si riconosce nelle posizioni del «manifesto», ed è dal Collettivo che si separa un nucleo di infermieri, portantini e tecnici guidati da Daniele Pifano, che con altri componenti fonda nel ’72, i Comitati autonomi operai di via dei Volsci. Insieme agli omonimi Comitati di via Donna Olimpia, diventeranno i referenti principali dell’intera area dell’autonomia romana. È un universo frastagliato in cui ogni singola componente dà il suo apporto. Si riconoscono principalmente tre anime. La prima è quella libertaria e creativa, la seconda è composta da intellettuali e teorizzatori, tra cui spicca l’ideologo Toni Negri.2 L’ultima, è quella dell’Autonomia operaia organizzata, formata dai militanti più combattivi.
A Roma, nel febbraio del ’78 viene anche dato alle stampe “I Volsci”, un periodico irregolare che identificherà il pensiero del movimento. Fino al 1981, quando uscirà l’ultimo numero, ne saranno pubblicate 11 edizioni. La rivista vuole essere una risposta alla campagna di criminalizzazione contro il Collettivo, spesso associato alla parola “covo”, in quanto sospettato di essere molto vicino ai terroristi e alle loro idee. Le posizioni con esponenti della lotta armata, non sono mai state ben definite.
Alla fine del 1978 il gruppo partecipa attivamente al dibattito in seno a tutta l’Autonoma sull’opportunità di effettuare un salto di qualità organizzativo, e costituisce una struttura accentrata che coordina tutte le forme di spontaneismo antagonista, sotto la sigla M.A.O. (Movimento dell’Autonomia Operaia). L’obiettivo politico dichiarato è quello di dedicarsi alle condizioni di lavoro dei settori ospedalieri, e degli statali in generale, colpiti già in quegli anni dal problema del lavoro nero e del precariato. Nell’ottobre del 1978, su «I Volsci» appare un articolo-manifesto, dal titolo Inchiesta: per conoscere la nuova realtà di classe dentro cui far crescere l’autonomia. Secondo la rivista, i settori statali sono dimenticati dalle politiche del sindacato indicato come «un soggetto istituzionale integrato in un progetto di programmazione capitalistica». Nel numero di marzo del 1980, il mensile sostiene che «Il Pci è fautore di una socialdemocrazia oppressiva asservito all’imperialismo sovietico, ormai rientrato nell’apparato repressivo dello Stato». Ma la rivista va anche oltre nell’affrontare quelli che sono i problemi sociali. In quegli anni, secondo «I Volsci», le politiche statali hanno causato un allargamento delle fasce di emarginazione in grado di trasformarsi, attraverso una loro organizzazione identificabile nell’Autonomia operaia, in forze rivoluzionarie. Il periodico sostiene che la carcerazione sia il principale mezzo repressivo che colpisce soprattutto il proletariato. A livello di obiettivi, il Collettivo si oppone all’imperialismo tradizionale, rappresentato soprattutto dal potere e dalla politica statunitense, e al socialimperialismo che caratterizza la politica sovietica. Il lessico utilizzato da «I Volsci» è militante, a volte involuto. Sono spesso presenti appelli alla mobilitazione. Nel novembre del ’78 si spiega come «è necessario realizzare la messa in movimento da tutti gli strati sociali in funzione antagonista all’attuale regime… Ed è necessario riuscire a ricomporre i vari settori comunisti del proletariato nella lotta contro il capitale e lo Stato».
Gli articoli de «I Volsci» non sono firmati, come se ogni pezzo volesse sembrare il prodotto di una voce collettiva. I direttori responsabili della rivista, che tira circa cinquemila copie, sono Alfredo Fanelli, Michele Tavera e Marcello Baranghini. Accanto al mensile, nasce Radio onda rossa, in cui muoverà per anni i suoi passi anche Marco Bernardini. In merito al terrorismo, il Collettivo è tutt’altro che ambiguo. Per la rivista, è solo il risultato di una politica sociale sbagliata, cieca. Viene definito, infatti, come il naturale sbocco di «Trent’anni di sottosviluppo, emigrazione, disoccupazione, emarginazione, nonché furti e ruberie, degradazione del territorio nazionale», come si legge in un articolo del mensile apparso sul numero del 10 marzo 1980.
Avere una voce che anticipi le mosse di questo ambiente può rive...
Indice dei contenuti
- Cover
- Biblioteca Universale Rizzoli
- Frontespizio
- Sommario
- Citazione
- Introduzione
- 1: L’arruolamento
- 2: L’addestramento
- 3: La mimetizzazione
- 4: Il nuovo compagno
- 5: Cuba 1986
- 6: I comitati internazionali
- 7: La guerriglia in Nicaragua
- 8: Parigi 1989
- 9: Il fronte democratico
- 10: Cipro 1990
- 11: La Palestina
- 12: La Mostra navale bellica
- 13: I Balcani
- 14: Il congedo
- Epilogo
- Appendice
- Indice dei nomi