Libro primo
Capitolo 1
«Quando hanno avuto inizio questi ricordi improvvisi, signor Bourne?» chiese il dottor Sunderland.
Jason Bourne, incapace di stare fermo, si aggirava nell’accogliente stanza che sembrava più lo studio di un’abitazione privata che l’ambulatorio di un dottore. Muri color cremisi, rivestimento in legno di mogano, scrittoio d’epoca di legno massiccio e scuro, con le gambe che terminavano con dei piedini ad artiglio, due sedie imbottite e un piccolo sofà . La parete dietro lo scrittoio era tappezzata di attestati e diplomi di specializzazione, oltre che di un’impressionante serie di premi internazionali per ricerche importanti svolte nel campo della terapeutica, sia psicologica che psicofarmacologica, relativamente alla specialità del medico: la memoria. Bourne esaminò quei documenti da vicino e con attenzione, dopo di che scorse una fotografia in una cornice d’argento sullo scrittoio.
«Come si chiama?» domandò Bourne. «Sua moglie, intendo.»
«Katja» rispose il dottor Sunderland dopo un attimo d’esitazione.
Gli psichiatri in genere opponevano sempre una forte resistenza a lasciar trapelare qualsiasi informazione di carattere personale su se stessi e i loro famigliari. Ma in questo caso…, pensò Bourne.
Katja era in tenuta da sci. Il capo coperto da un berretto di lana fatto a maglia, a strisce multicolori, con tanto di pompon sulla nuca. Era bionda e molto bella. Un certo chissà che in lei suggeriva che si sentiva perfettamente a proprio agio davanti a una macchina fotografica. Sorrideva, guardando direttamente nell’obbiettivo, con il sole che le illuminava il volto. Le rughe sottili agli angoli degli occhi la rendevano stranamente vulnerabile.
Bourne sentì salire le lacrime agli occhi. Un tempo avrebbe detto che erano lacrime di David Webb. Ma le due personalità in conflitto – David Webb e Jason Bourne, il giorno e la notte della sua anima – si erano finalmente fuse insieme. Sebbene fosse vero che David Webb, ex docente di Linguistica all’Università di Georgetown, stava affondando sempre più nell’ombra, era altrettanto vero che Webb aveva smussato la maggior parte degli spigoli antisociali e paranoici di Bourne. Bourne non riusciva a vivere nel mondo normale di Webb, proprio come Webb non poteva sopravvivere nel brutale mondo d’ombra di Bourne.
La voce del dottor Sunderland si intromise nei suoi pensieri. «La prego, sieda, signor Bourne.»
Bourne obbedì. Provò un senso di sollievo nel distogliere gli occhi dalla fotografia.
Il volto del dottor Sunderland assunse un’espressione di sincera comprensione. «Questi ricordi, signor Bourne, immagino siano iniziati in seguito alla morte di sua moglie. Un evento traumatico come questo avrebbe…»
«Non è così, no…» si affrettò a precisare Jason Bourne. Ma era una bugia. Le schegge mnemoniche erano ricomparse in superficie la notte in cui aveva visto Marie. Lo avevano svegliato di soprassalto: incubi resi manifesti, perfino nella brillantezza delle luci che aveva acceso in casa.
Sangue. Sangue sulle sue mani, sangue che gli macchia il petto. Sangue sul viso della donna che porta in braccio. Marie! No, non Marie! Qualcun’altra, il suo collo liscio e pallido attraverso i rivoli di sangue. La vita della donna che gli cola addosso, gocciolando sui ciottoli della via cittadina mentre corre disperato. Ansimando nella notte gelida. Dove si trova? Perché sta correndo? Buon Dio, chi è lei?
Era fuggito, e benché fosse notte fonda, si era vestito ed era sgattaiolato fuori, mettendosi a correre a perdifiato nella campagna canadese finché la milza non aveva più retto. Il chiaro di luna di un bianco osseo lo aveva seguito come quelle dannate schegge di memoria. Era stato incapace di seminarle.
Ora si era affidato a quel dottore. Be’, perché no? Non si fidava di lui, anche se Martin Lindros – vicedirettore della CIA nonché suo intimo amico – glielo aveva raccomandato, esibendogli le sue impressionanti credenziali. Lindros aveva preso il nominativo di Sunderland da un elenco fornito dall’ufficio del direttore dell’Agenzia. A questo riguardo non c’era bisogno di fare domande al suo amico: il nome di Anne Held, in calce a ogni pagina del documento, autenticava la sua ipotesi. Anne Held era l’assistente del direttore, il suo braccio destro.
«Signor Bourne?» lo incalzò il dottor Sunderland.
Non che avesse importanza. Bourne aveva davanti agli occhi il viso di Marie, pallido ed esangue, senza vita. Avvertiva la presenza di Lindros alle sue spalle mentre ascoltava l’inglese dal marcato accento franco-canadese del coroner: La polmonite d’origine virale si era diffusa in modo troppo grave. Non saremmo stati in grado di salvarla comunque. Può trovare conforto nel fatto che non ha sofferto. Si è addormentata e non si è più svegliata. Il coroner aveva alzato lo sguardo dalla donna deceduta rivolgendolo all’affranto marito e all’amico che c’era al suo fianco. Se solo fosse tornata prima dall’escursione con gli sci…
Bourne si era morso il labbro inferiore. Si stava occupando dei nostri figli. Jamie si era storto una caviglia nell’ultimo tratto della discesa. Alison era terribilmente spaventata.
Sua moglie non ha cercato un medico? Immagino che la caviglia fosse slogata… oppure fratturata.
Lei non capisce. Mia moglie… veniva da una famiglia di gente sportiva, abituata a stare all’aria aperta, allevatori, di razza robusta. Marie era stata cresciuta, imparando a badare a se stessa nella natura selvaggia fin da bambina. Non ne aveva paura per niente.
A volte, aveva detto il coroner, provare un po’ di paura è un fatto positivo.
Non ha alcun diritto di giudicarla!, aveva ribattuto Bourne, alzando la voce per la rabbia e il dolore.
Passa troppo tempo tra i morti, aveva detto Lindros, redarguendo il coroner. Deve migliorare la sua capacità di rapportarsi con i vivi.
Scusate, aveva detto il coroner in tono dimesso.
Bourne aveva preso fiato e, rivolgendosi a Lindros, aveva detto: Marie mi aveva telefonato. Pensava si trattasse solo di un brutto raffreddore.
Una conclusione abbastanza naturale, aveva commentato il suo amico. Era chiaramente assorbita dalla salute dei figli.
«Dunque, signor Bourne, quando sono iniziati i flash mnemonici?» Nell’inglese del dottor Sunderland c’era una netta sfumatura d’accento rumeno. Aveva davanti a sé un uomo particolare, dalla fronte alta e spaziosa, la mascella quadrata e robusta, il naso grosso e sporgente, un tipo del quale poteva facilmente avere fiducia, con il quale confidarsi. Il dottore portava un paio di occhiali dalla montatura d’acciaio, aveva i capelli impomatati e pettinati all’indietro. Nessuna bizzarra suoneria di cellulare o SMS in arrivo. Soprattutto, niente impegni multipli ed efficienza di stampo nevrotico-manageriale. Sunderland indossava un completo con pesante gilet di lana cardata di tweed, e un papillon rosso a pois bianchi.
«Su, su.» Sunderland allungò il collo, sporgendo in avanti il suo testone e inclinandolo leggermente di lato, in un atteggiamento che gli ricordò un gufo. «Mi perdoni, ma ho la netta sensazione che lei stia… come posso dire?… nascondendo la verità .»
Immediatamente, Bourne si sentì messo nell’angolo. «Nascondendo…?»
Sunderland prese da un portafoglio in pelle di coccodrillo una banconota da cento dollari. Sventolando la banconota, disse: «Scommetto che i lampi casuali di memoria sono cominciati poco dopo il funerale di sua moglie. Tuttavia la scommessa sarà nulla se decide di non dirmi la verità ».
«Chi si crede di essere? Un poligrafo umano?»
Saggiamente, il dottore non rivelò le proprie opinioni.
«Metta via i soldi» disse Bourne. Poi emise un sospiro. «Ha ragione, naturalmente. I ricordi inconsci sono iniziati il giorno in cui ho visto Marie per l’ultima volta.»
«Sotto quale forma si sono presentati?»
Bourne ebbe un attimo di esitazione. «La stavo guardando nella bara… nella camera ardente dell’impresa di pompe funebri, il giorno del funerale. Sua sorella e suo padre l’avevano già identificata e fatta trasferire là dall’obitorio del coroner. La stavo guardando dall’alto e… a un tratto non la vedevo più…»
«Che cosa vedeva, invece, signor Bourne?» La voce del dottor Sunderland era suadente, distaccata.
«Sangue. Solo sangue.»
«Cos’altro?»
«Be’, il sangue non c’era, naturalmente. Non nella realtà . Era un ricordo che riaffiorava in superficie… senza preavviso… senza…»
«Accade sempre così, non è vero?»
Bourne annuì. «Il sangue… era fresco, brillante, reso bluastro dalla luce dei lampioni stradali. Il sangue copriva tutta la faccia…»
«La faccia di chi?»
«Non lo so… una donna… non era il viso di Marie. Era la faccia di… qualcun’altra.»
«Saprebbe descrivere questa donna?» domandò il dottor Sunderland.
«Il punto è proprio questo. Non ci riesco. Non so chi sia… Eppure la conosco. So di conoscerla.»
Seguì un breve silenzio, durante il quale Sunderland inserì un’altra domanda apparentemente senza rapporti con il resto. «Mi dica, signor Bourne, che giorno è oggi?»
«Non è certo questo il problema di memoria di cui soffro.»
Il dottore piegò la testa di lato. «Mi accontenti, la prego.»
«Martedì, 3 febbraio.»
«Quattro mesi dopo il funerale, quattro mesi da che è iniziato il suo problema di memoria. Perché ha atteso così a lungo prima di cercare aiuto?»
Bourne rimase in silenzio per un po’, poi finalmente dichiarò: «Settimana scorsa è successo qualcosa. Ho visto… ho rivisto un mio vecchio amico». Alex Conklin, che camminava per strada nel centro storico di Alexandria, dove Bourne aveva portato Jamie e Alison per l’ultima passeggiata che avrebbero fatto insieme per molto, molto tempo. Erano appena usciti da una gelateria, i due bambini con un grosso cono gelato in mano, ed ecco là Conklin, vivo e vegeto. Alex Conklin: il suo mentore, il suo maestro, la mente direttiva che si celava dietro l’identità di Jason Bourne. Senza Conklin, gli era impossibile immaginare dove sarebbe stato in quel momento.
Il dottor Sunderland allungò il collo. «Non capisco.»
«L’amico di cui parlo è morto tre anni fa.»
«Eppure lo ha visto.»
Bourne annuì. «L’ho chiamato ad alta voce per nome, e quando si è girato reggeva qualcosa tra le braccia… anzi, qualcuno. Una donna. Una donna coperta di sangue.»
«La donna insanguinata di cui mi ha riferito e che rivede nei lampi di memoria inconscia.»
«Sì. Lì per lì ho pensato di essere andato completamente fuori di testa.»
Era successo quando aveva deciso di allontanare i bambini. Alison e Jamie erano andati a stare dalla sorella e dal padre di Marie, che vivevano in un enorme ranch in Canada. Era meglio per loro, anche se Bourne sentiva terribilmente la loro mancanza. Non sarebbe stato un bello spettacolo vederlo in quello stato.
Da allora, quante volte aveva sognato i momenti che più temeva: rivedere davanti il volto esangue di Marie; raccogliere i suoi effetti personali nella stanza d’ospedale; restare fermo, in piedi, nella camera ardente avvolta nella penombra, con il direttore dell’impresa di pompe funebri alle sue spalle, a fissare il corpo di Marie nella bara, il suo viso immobile, cereo, truccato in un modo in cui Marie non si sarebbe mai sognata di conciarsi. Si era chinato su di lei, aveva allungato una mano, l’uomo gli aveva offerto un fazzoletto, che Bourne aveva usato per toglierle il rossetto dalla bocca e il fard dalle guance. Poi l’aveva baciata e il gelo delle sue labbra era finito in lui come una scarica elettrica. È morta. È morta. È così. La mia vita insieme a lei è finita, aveva pensato. Con un lieve cigolio, aveva abbassato il coperchio sulla bara. Rivolgendosi all’impresario delle pompe funebri aveva detto: «Ho cambiato idea. Niente bara aperta. Non voglio che qualcuno la veda in questo stato, specie i nostri figli».
«Ciononostante lo ha seguito» insistette il dottor Sunderland. «Davvero affascinante. Data la sua storia, la sua amnesia, il trauma della prematura perdita di sua moglie ha scatenato un particolare flashback mnemonico. Ha delle ipotesi sul perché il suo amico defunto è connesso alla donna coperta di sangue?»
«No.» Naturalmente la sua risposta non era sincera. Bourne sospettava di star rivivendo una vecchia missione, un’operazione in solitaria ordinatagli da Alex Conklin anni prima.
Il dottor Sunderland giunse le dita delle mani, formando una specie di guglia. «I suoi ricordi improvvisi e casuali possono essere innescati da qualsiasi fatto, ammesso che sia abbastanza vivido: qualcosa che ha visto, odorato, toccato, un che di onirico che riemerge in superficie. Solo che per lei questi sogni a occhi aperti sono veri. Sono i suoi ricordi. Sono veramente accaduti nella realtà .» Il dottore prese dallo scrittoio una penna stilografica d’oro. «Non c’è dubbio che un trauma psicologico come quello che ha recentemente sofferto sarebbe in cima all’elenco dei ricordi. E poi essere convinto di aver visto qualcuno che è morto… non c’è tanto da stupirsi che i flashback abbiamo preso a farsi più numerosi e frequenti.»
Quel ragionamento stava in piedi, ma l’aumento dei flashback aveva reso il suo stato di salute mentale molto più vulnerabile. Quel pomeriggio a Georgetown aveva abbandonato i suoi figli. Era successo solo per un momento, tuttavia quel fatto lo aveva terrorizzato, e lo spaventava ancora.
Marie se n’era andata, in un modo assurdo e terribile. E ora non era soltanto Marie a ossessionarlo, ma anche quelle strade antiche e silenziose, che lo guardavano con occhio malizioso, vie cittadine in possesso di una conoscenza che a lui sfuggiva, al corrente di qualcosa che lo riguardava, qualcosa che lui non riusciva nemmeno a immaginare. I suoi incubi ricorrenti arrivavano con inaspettati lampi di memoria che lo lasciavano in un bagno di sudore freddo. Rimaneva allora disteso a letto nell’oscurità , assolutamente certo che non avrebbe chiuso occhio. Inevitabilmente, invece, si addormentava di un sonno pesante, quasi narcotico. Quando si alzava dall’abisso in cui era sprofondato, si girava su un fianco, ancora in preda al sonno, in cerca, come faceva sempre, del corpo caldo, sinuoso, di Marie. A quel punto il pensiero tornava a investirlo come un treno merci in corsa in pieno petto.
Marie è morta. Morta e sepolta per sempre.
Il suono secco, ritmico del dottor Sunderland che scriveva sul suo blocco alcuni appunti riportò Bou...