Grazie dei ricordi
eBook - ePub

Grazie dei ricordi

  1. 416 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Grazie dei ricordi

Informazioni su questo libro

Come si può conoscere qualcuno che non si è mai visto? Eppure è quello che succede a Joyce: dopo un terribile incidente, da cui si è salvata solo grazie a una trasfusione, ricorda un passato che non è il suo, luoghi che non ha mai visitato e sogna una bambina bionda che non conosce. Justin è un professore americano divorziato e solo. Si è fatto convincere da una collega a donare il sangue, la prima decisione impulsiva della sua vita. Joyce e Justin, l'una indipendentemente dall'altro, iniziano un viaggio alla scoperta di se stessi. Si rincorrono. Si sfi orano senza incontrarsi tra la folla di una splendida Dublino che fa da cornice alla loro avventura. E ci trasmettono sentimenti autentici, sensazioni intense, tenere e forti, in una storia che ci parla di emozioni, della curiosità e della volontà di vivere e di amare.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2011
Print ISBN
9788817028424
eBook ISBN
9788858600009
Presente

5

Apro lentamente gli occhi.
Si riempiono di luce bianca. Piano piano metto a fuoco gli oggetti e la luce bianca si affievolisce. Adesso è di un rosa arancione. Giro gli occhi intorno. Sono in un ospedale. C’è un televisore in alto sulla parete. Lo schermo è inondato di verde. Guardo meglio. Cavalli. Saltano e corrono. Papà dev’essere nella stanza. Abbasso lo sguardo e lo vedo seduto su una poltrona, le spalle rivolte a me. Picchia lievemente i pugni sui braccioli e il suo berretto di tweed compare e scompare dietro lo schienale, mentre lui rimbalza su e giù. Le molle cigolano sotto il suo peso.
La corsa dei cavalli è silenziosa. Anche lui. Lo guardo, come un film muto che mi scorre davanti. Mi domando se siano le mie orecchie che non mi permettono di sentire. Papà salta su dalla poltrona più in fretta di quanto non gli abbia visto fare da parecchio tempo e agita un pugno verso il televisore, incitando in silenzio il suo cavallo.
Lo schermo si oscura. Lui apre i pugni, solleva in aria le mani, alza lo sguardo al soffitto e importuna Dio. Poi infila le mani in tasca, vi fruga dentro e le rivolta. Niente. L’interno dei pantaloni marroni penzola fuori in bella vista. Si tasta il petto in cerca di moneta. Guarda nel taschino del cardigan marrone. Bofonchia. Allora non sono le mie orecchie.
A quel punto si volta per cercare nel soprabito posato accanto a me e io chiudo subito gli occhi.
Non sono ancora pronta. Non mi è successo niente, finché non me lo diranno. La scorsa notte rimarrà per me un incubo, finché non mi diranno che è tutto vero. Più tempo rimango con gli occhi chiusi e più ogni cosa resterà com’era. La beatitudine dell’ignoranza.
Lo sento rovistare nel soprabito, poi delle monetine tintinnano e con un rumore sordo cadono dentro il televisore. Mi arrischio a riaprire gli occhi e lo vedo di nuovo sulla poltrona, con il berretto che va su e giù e i pugni che si agitano in aria.
La tenda alla mia destra è tirata, ma capisco che condivido la stanza con altre persone. Non so quante. C’è silenzio. Manca l’aria e si avverte un odore soffocante di sudore stantio. Le enormi finestre che occupano l’intera parete alla mia sinistra sono chiuse. La luce è così intensa che non riesco a vedere fuori. Permetto ai miei occhi di adattarsi e finalmente inizio a distinguere qualcosa. C’è una fermata dell’autobus dall’altra parte della strada. Una donna è in attesa, le borse della spesa posate ai piedi e sul fianco un bambino con le gambine nude e grassocce che ballonzolano nel sole di questa estate indiana. Distolgo immediatamente lo sguardo. Papà mi sta fissando. Si è sporto dal fianco della poltrona voltando la testa, come un bambino dalla culla.
“Ciao, tesoro.”
“Ciao.” Mi sembra di non parlare da tantissimo tempo e mi aspetto di avere la voce rauca. Invece no. È pura, scivola fuori come miele. Quasi non fosse successo niente. E infatti non è successo niente. Non ancora. Non fino a quando me lo diranno.
Si alza lentamente in piedi spingendo con le mani sui braccioli e si avvicina al bordo del letto camminando come un’altalena. Su e giù, giù e su. È nato con una gamba, la sinistra, di qualche centimetro più lunga dell’altra. Nonostante le scarpe speciali che gli hanno prescritto negli ultimi anni, continua a ondeggiare, un movimento ormai radicato in lui da quando ha imparato a muovere i primi passi. Detesta quelle scarpe e, malgrado i nostri avvertimenti e i suoi dolori di schiena, va avanti a ripetere ciò che conosce. Sono abituata a vedere il suo corpo che va su e giù, giù e su. Ricordo quando da piccola andavamo a passeggiare e papà mi teneva per mano. Il mio braccio si muoveva perfettamente a ritmo con lui: veniva tirato verso l’alto quando si appoggiava alla gamba destra e spinto in basso quando spostava il peso sulla sinistra.
Era sempre stato forte. Abile. Aggiustava tutto. Sollevava e riparava ogni cosa. Aveva costantemente un cacciavite in mano con cui smontava e rimontava gli oggetti. Telecomandi, radio, sveglie, spine della corrente. Il tuttofare della nostra via. Aveva le gambe difettose, ma le mani erano sempre state e sarebbero per sempre rimaste salde come una roccia.
Avvicinandosi si toglie il berretto, lo stringe con le mani e lo fa ruotare come un volante, mentre mi scruta con aria preoccupata. Si appoggia alla gamba destra e va giù, poi piega la sinistra. La sua posizione di riposo.
“Sei… ehm… mi hanno detto che… eh.” Si schiarisce la voce. “Mi hanno detto di…” Deglutisce a fatica e aggrotta le folte sopracciglia arruffate, nascondendo gli occhi trasparenti come vetro. “Lo hai. lo hai perso.”
Il mio labbro inferiore inizia a tremare.
Quando riprende a parlare ha la voce rotta. “Hai perso molto sangue, Joyce. Ti hanno…” Lascia andare il berretto con una mano e fa dei movimenti circolari con il dito ricurvo, nel tentativo di ricordare. “Ti hanno fatto una, come si chiama, una trasfusione, per cui adesso sei… ehm… sei a posto con il sangue.”
Il mio labbro inferiore continua a tremare e le mani si spostano automaticamente sulla pancia che non ha nemmeno fatto in tempo a diventare grossa abbastanza da sporgere da sotto le coperte. Lo guardo speranzosa, rendendomi conto all’improvviso che mi sto aggrappando, che mi sono convinta che quell’orribile esperienza in sala parto è stata soltanto un incubo tremendo. Forse il silenzio del mio bambino che alla fine aveva invaso la stanza era frutto della mia immaginazione. Forse c’erano stati degli strilli che non avevo sentito. Certo, era possibile, a quel punto ero allo stremo delle forze e stavo ormai per spegnermi, per cui magari non avevo udito i primi miracolosi respiri della vita a cui tutti gli altri avevano assistito.
Papà scuote la testa con aria mesta. No, ero stata io a gridare, invece.
Il mio labbro trema sempre di più, si muove su e giù. Non riesco a fermarlo. Tutto il mio corpo si scuote terribilmente e non riesco a fermare nemmeno quello. Le lacrime mi salgono agli occhi, ma impedisco loro di cadere. Se comincio adesso, so che non smetterò più.
Sto emettendo un suono. Uno strano suono che non ho mai sentito prima. Un gemito. Un grugnito. Un insieme delle due cose. Papà mi afferra una mano e la stringe forte. La sensazione della sua pelle mi riporta a ieri sera, quando ero sdraiata ai piedi delle scale. Non parla. E che cosa potrebbe dire chiunque al suo posto? Non ne ho idea.
Mi assopisco e mi risveglio. Poi ricordo una conversazione con un medico e mi domando se sia stata un sogno. Abbiamo perso il tuo bambino, Joyce, abbiamo fatto tutto il possibile… sangue… trasfusione… Chi vorrebbe ricordare una cosa del genere? Nessuno. Nemmeno io.
Quando mi sveglio di nuovo vedo che la tenda accanto a me è stata aperta. Ci sono tre bambini piccoli che corrono inseguendosi attorno al letto, mentre quello che immagino essere il padre ordina loro di fermarsi in una lingua che non conosco. La madre, suppongo, è sdraiata sotto le coperte. Ha un’aria stanca. I nostri sguardi si incrociano e ci sorridiamo.
So come ti senti, mi dice il suo sorriso triste. So come ti senti.
Che cosa faremo? le domanda il mio sorriso.
Non lo so, rispondono i suoi occhi. Non lo so.
Staremo bene?
La donna volta la testa dall’altra parte e il suo sorriso svanisce.
Papà si rivolge alla coppia. “Da dove venite voialtri?”
“Scusi?” gli chiede il marito.
“Ho detto, da dove venite voialtri?” ripete papà. “Non siete di queste parti, mi pare.” La sua voce è allegra e cordiale. Non intende insultarli. Non intende mai insultare nessuno.
“Veniamo dalla Nigeria,” risponde l’uomo.
“Nigeria,” gli fa eco papà. “E dove sta?”
“In Africa.” Anche il tono dell’uomo è cordiale. Si rende conto di avere davanti soltanto un anziano signore che ha voglia di fare un po’ di conversazione e che sta cercando di essere gentile.
“Ah, in Africa. Io non ci sono mai stato. Fa caldo laggiù? Immagino di sì. Più caldo di qui. Ci si abbronza per bene, mi sa. Non che lei ne abbia bisogno,” aggiunge ridendo. “Ha mai freddo qui?”
“Freddo?” chiede l’uomo africano con un sorriso.
“Sì, sa com’è.” Papà si avvolge il corpo con le braccia e finge di tremare. “Freddo?”
“Sì,” risponde lui ridendo. “A volte ho freddo.”
“Mi pareva. Pure io ho freddo e sono di qui,” gli spiega papà. “Il gelo mi entra nelle ossa. Però non sono nemmeno un patito del caldo. Mi si arrossa la pelle e mi brucia tutta. Mia figlia Joyce invece si abbronza. È lei,” dice indicandomi e io chiudo subito gli occhi.
“Ha una bella figlia,” commenta l’uomo educatamente.
“Ah, sì.” C’è un momento di silenzio durante il quale suppongo che mi stiano guardando. “Qualche mese fa è andata in una di quelle isole spagnole e quando è tornata era nera, giuro. Be’, non nera come lei, ma aveva preso proprio un bel colore. Però si è spelata. Lei probabilmente non si spela.”
L’uomo ride garbatamente. Papà è fatto così. Non ha mai cattive intenzioni, è solo che non ha lasciato il Paese nemmeno una volta in vita sua. La paura dell’aereo glielo impedisce. O almeno è quello che sostiene.
“A ogni modo, spero che la sua bella signora si rimetta presto. È tremendo ammalarsi in vacanza.”
A quel punto apro gli occhi.
“Ah, bentornata, tesoro. Stavo facendo due chiacchiere con i nostri simpatici vicini.” Torna verso di me altalenando, il berretto in mano. Si appoggia alla gamba destra, scende e piega la sinistra. “Sai, ho l’impressione che noi siamo gli unici irlandesi in questo ospedale. L’infermiera che era qui un attimo fa viene da un posto che si chiama Singolare o qualcosa del genere.”
“Singapore, papà,” lo correggo con un sorriso.
“Esatto.” Alza le sopracciglia. “Allora l’hai già conosciuta? Però parlano tutti inglese, gli stranieri, cioè. Certo, meglio così piuttosto che essere in vacanza e dover usare tutto il tempo il linguaggio dei segni.” Appoggia il berretto sul letto e comincia ad agitare le dita in aria.
“Papà,” gli dico. “Non sei mai stato fuori da questo Paese in tutta la tua vita.”
“Be’, però sento i ragazzi che ne parlano al circolo del lunedì. Settimana scorsa Frank è stato in quel posto, come si chiama?” Chiude gli occhi e si concentra. “Quello dove fanno i cioccolatini.”
“Svizzera.”
“No.”
“Belgio.”
“No,” ripete frustrato. “Quegli affari rotondi e croccanti dentro. Adesso ci sono anche bianchi, ma io preferisco quelli originali con il cioccolato fondente.”
“I Maltesers?” gli chiedo ridendo, ma avverto una fitta di dolore e devo smettere.
“Esatto. È stato a Maltesers.”
“Papà, si dice Malta.”
“Giusto, Malta.” Rimane in silenzio un momento. “Li fanno lì i Maltesers?”
“Non saprei. Forse. E allora che cosa è successo a Frank a Malta?”
Strizza di nuovo gli occhi e si concentra. “Non mi ricordo più cosa volevo dire.”
Silenzio. Detesta non ricordarsi le cose. Una volta si ricordava tutto.
“Hai vinto qualcosa con i cavalli?” gli domando.
“Pochi spiccioli. Abbastanza per qualche bicchiere stasera al circolo del lunedì.”
“Ma oggi è martedì.”
“Stavolta ci vediamo di martedì perché ieri era festa,” mi spiega altalenando intorno al letto fino a raggiungere l’altro lato per andare a sedersi.
Non riesco a ridere. Sono tutta dolorante e ho la sensazione che il mio senso dell’umorismo se ne sia andato assieme al mio bambino.
“Non ti dispiace se vado, vero, Joyce? Se vuoi rimango qui, non mi interessa, non è importante.”
“Certo che è importante, invece. Sono vent’a...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. BUR
  3. Frontespizio
  4. Dedica
  5. Prologo
  6. Un mese prima
  7. Presente
  8. Un mese dopo