Uno, nessuno e centomila
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Uno, nessuno e centomila

  1. 191 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Uno, nessuno e centomila

Informazioni su questo libro

Può la banale scoperta di possedere un naso lievemente storto mandare in frantumi tutta una vita? È ciò che accade a Vitangelo Moscarda, quando la moglie si lascia sfuggire un commento distratto sul suo aspetto. Quelle parole spingono Vitangelo a imboccare una tortuosa strada che lo porterà fino alla drammatica consapevolezza di quanto sia labile e incerta la concezione della propria identità, di come ognuno di noi non sia mai "uno", ma possieda allo stesso tempo le "centomila" personalità che gli altri gli attribuiscono, fino a diventare, tragicamente, "nessuno". Pubblicato nel 1926 e apice della produzione pirandelliana, Uno, nessuno e centomila era considerato dallo stesso autore il testo "più amaro di tutti, profondamente umoristico, di scomposizione della vita". Attraverso lo sconvolgimento e la follia del protagonista, Pirandello rivela come nessun altro la natura contraddittoria e illusoria delle maschere imposte all'uomo dalla società.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2011
Print ISBN
9788817014670
eBook ISBN
9788858601532
Argomento
Literature

UNO, NESSUNO E CENTOMILA

LIBRO PRIMO

I
Mia moglie e il mio naso

«Che fai?» mia moglie mi domandò, vedendomi insolitamente indugiare davanti allo specchio.
«Niente,» le risposi, «mi guardo qua, dentro il naso, in questa narice. Premendo, avverto un certo dolorino.»
Mia moglie sorrise e disse:
«Credevo ti guardassi da che parte ti pende.»
Mi voltai come un cane a cui qualcuno avesse pestato la coda:
«Mi pende? A me? Il naso?»
E mia moglie, placidamente:
«Ma sì, caro. Guardatelo bene: ti pende verso destra.»

Avevo ventotto anni e sempre fin allora ritenuto il mio naso, se non proprio bello, almeno molto decente, come insieme tutte le altre parti della mia persona. Per cui m’era stato facile ammettere e sostenere quel che di solito ammettono e sostengono tutti coloro che non hanno avuto la sciagura di sortire un corpo deforme: che cioè sia da sciocchi invanire per le proprie fattezze. La scoperta improvvisa e inattesa di quel difetto perciò mi stizzì come un immeritato castigo.
Vide forse mia moglie molto più addentro di me in quella mia stizza e aggiunse subito che, se riposavo nella certezza d’essere in tutto senza mende, me ne levassi pure, perché, come il naso mi pendeva verso destra, così…
«Che altro?»
Eh, altro! altro! Le mie sopracciglia parevano sugli occhi due accenti circonflessi, ⁁ ⁁, le mie orecchie erano attaccate male, una più sporgente dell’altra; e altri difetti…
«Ancora?»
Eh sì, ancora: nelle mani, al dito mignolo; e nelle gambe (no, storte no!), la destra, un pochino più arcuata dell’altra: verso il ginocchio, un pochino.
Dopo un attento esame dovetti riconoscere veri tutti questi difetti. E solo allora, scambiando certo per dolore e avvilimento la maraviglia che ne provai subito dopo la stizza, mia moglie per consolarmi m’esortò a non affliggermene poi tanto, ché anche con essi, tutto sommato, rimanevo un bell’uomo.
Sfido a non irritarsi, ricevendo come generosa concessione ciò che come diritto ci è stato prima negato. Schizzai un velenosissimo «grazie» e, sicuro di non aver motivo né d’addolorarmi né d’avvilirmi, non diedi alcuna importanza a quei lievi difetti, ma una grandissima e straordinaria al fatto che tant’anni ero vissuto senza mai cambiar di naso, sempre con quello, e con quelle sopracciglia e quelle orecchie, quelle mani e quelle gambe; e dovevo aspettare di prender moglie per aver conto che li avevo difettosi.
Uh che maraviglia! E non si sa, le mogli? Fatte apposta per scoprire i difetti dei mariti.
Ecco, già, le mogli, non nego. Ma anch’io, se permettete, di quei tempi ero fatto per sprofondare, a ogni parola che mi fosse detta, o mosca che vedessi volare, in abissi di riflessioni e considerazioni che mi scavavano dentro e buscheravano giù per torto e su per traverso lo spirito, come una tana di talpa; senza che di fuori ne paresse nulla.
«Si vede,» voi dite, «che avevate molto tempo da perdere.»
No, ecco. Per l’animo in cui mi trovavo. Ma del resto sì, anche per l’ozio, non nego. Ricco, due fidati amici, Sebastiano Quantorzo e Stefano Firbo, badavano ai miei affari dopo la morte di mio padre; il quale, per quanto ci si fosse adoperato con le buone e con le cattive, non era riuscito a farmi concludere mai nulla; tranne di prender moglie, questo sì, giovanissimo; forse con la speranza che almeno avessi presto un figliuolo che non mi somigliasse punto; e, pover’uomo, neppur questo aveva potuto ottenere da me.
Non già, badiamo, ch’io opponessi volontà a prendere la via per cui mio padre m’incamminava. Tutte le prendevo. Ma camminarci, non ci camminavo. Mi fermavo a ogni passo; mi mettevo prima alla lontana, poi sempre più da vicino a girare attorno a ogni sassolino che incontravo, e mi maravigliavo assai che gli altri potessero passarmi avanti senza fare alcun caso di quel sassolino che per me intanto aveva assunto le proporzioni d’una montagna insormontabile, anzi d’un mondo in cui avrei potuto senz’altro domiciliarmi.
Ero rimasto così, fermo ai primi passi di tante vie, con lo spirito pieno di mondi, o di sassolini, che fa lo stesso. Ma non mi pareva affatto che quelli che m’erano passati avanti e avevano percorso tutta la via, ne sapessero in sostanza più di me. M’erano passati avanti, non si mette in dubbio, e tutti braveggiando come tanti cavallini; ma poi, in fondo alla via, avevano trovato un carro: il loro carro; vi erano stati attaccati con molta pazienza, e ora se lo tiravano dietro. Non tiravo nessun carro, io; e non avevo perciò né briglie né paraocchi; vedevo certamente più di loro, ma andare, non sapevo dove andare.
Ora, ritornando alla scoperta di quei lievi difetti, sprofondai tutto, subito, nella riflessione che dunque — possibile? — non conoscevo bene neppure il mio stesso corpo, le cose mie che più intimamente m’appartenevano: il naso, le orecchie, le mani, le gambe. E tornavo a guardarmele per rifarne l’esame.
Cominciò da questo il mio male. Quel male che doveva ridurmi in breve in condizioni di spirito e di corpo così misere e disperate che certo ne sarei morto o impazzito, ove in esso medesimo non avessi trovato (come dirò) il rimedio che doveva guarirmene.

II
E il vostro naso?

Già subito mi figurai che tutti, avendone fatta mia moglie la scoperta, dovessero accorgersi di quei miei difetti corporali e altro non notare in me.
«Mi guardi il naso?» domandai tutt’a un tratto quel giorno stesso a un amico che mi s’era accostato per parlarmi di non so che affare che forse gli stava a cuore.
«No, perché?» mi disse quello.
E io, sorridendo nervosamente:
«Mi pende verso destra, non vedi?»
E glielo imposi a una ferma e attenta osservazione, come se quel difetto del mio naso fosse un irreparabile guasto sopravvenuto al congegno dell’universo.
L’amico mi guardò in prima un po’ stordito; poi, certo sospettando che avessi così all’improvviso e fuor di luogo cacciato fuori il discorso del mio naso perché non stimavo degno né d’attenzione né di risposta l’affare di cui mi parlava, diede una spallata e si mosse per lasciarmi in asso. Lo acchiappai per un braccio, e:
«No, sai,» gli dissi, «sono disposto a trattare con te codest’affare. Ma in questo momento tu devi scusarmi.»
«Pensi al tuo naso?»
«Non m’ero mai accorto che mi pendesse verso destra. Me n’ha fatto accorgere, questa mattina, mia moglie.»
«Ah, davvero?» mi domandò allora l’amico; e gli occhi gli risero d’una incredulità ch’era anche derisione.
Restai a guardarlo come già mia moglie la mattina, cioè con un misto d’avvilimento, di stizza e di maraviglia. Anche lui dunque da un pezzo se n’era accorto? E chi sa quant’altri con lui! E io non lo sapevo e, non sapendolo, credevo d’essere per tutti un Moscarda col naso dritto, mentr’ero invece per tutti un Moscarda col naso storto; e chi sa quante volte m’era avvenuto di parlare, senz’alcun sospetto, del naso difettoso di Tizio o di Caio e quante volte perciò non avevo fatto ridere di me e pensare:
«Ma guarda un po’ questo pover’uomo che parla dei difetti del naso altrui!»
Avrei potuto, è vero, consolarmi con la riflessione che, alla fin fine, era ovvio e comune il mio caso, il quale provava ancora una volta un fatto risaputissimo, cioè che notiamo facilmente i difetti altrui e non ci accorgiamo dei nostri. Ma il primo germe del male aveva cominciato a metter radice nel mio spirito e non potei consolarmi con questa riflessione.
Mi si fissò invece il pensiero ch’io non ero per gli altri quel che finora, dentro di me, m’ero figurato d’essere.
Per il momento pensai al corpo soltanto e, siccome quel mio amico seguitava a starmi davanti con quell’aria d’incredulità derisoria, per vendicarmi gli domandai se egli, dal canto suo, sapesse d’aver nel mento una fossetta che glielo divideva in due parti non del tutto eguali: una più rilevata di qua, una più scempia di là.
«Io? Ma che!» esclamò l’amico. «Ci ho la fossetta, lo so, ma non come tu dici.»
«Entriamo là da quel barbiere, e vedrai,» gli proposi subito.
Quando l’amico, entrato dal barbiere, s’accorse con maraviglia del difetto e riconobbe ch’era vero, non volle mostrarne stizza; disse che, in fin dei conti, era una piccolezza.
Eh sì, senza dubbio, una piccolezza; vidi però, seguendolo da lontano, che si fermò una prima volta a una vetrina di bottega, e poi una seconda volta, più là, davanti a un’altra; e più là ancora e più a lungo, una terza volta, allo specchio d’uno sporto per osservarsi il mento; e son sicuro che, appena rincasato, sarà corso all’armadio per far con più agio a quell’altro specchio la nuova conoscenza di sé con quel difetto. E non ho il minimo dubbio che, per vendicarsi a sua volta, o per seguitare uno scherzo che gli parve meritasse una larga diffusione in paese, dopo aver domandato a qualche suo amico (come già io a lui) se mai avesse notato quel suo difetto al mento, qualche altro difetto avrà scoperto lui o nella fronte o nella bocca di questo suo amico, il quale, a sua volta… — ma sì! ma sì! — potrei giurare che per parecchi giorni di fila nella nobile città di Richieri io vidi (se non fu proprio tutta mia immaginazione) un numero considerevolissimo di miei concittadini passare da una vetrina di bottega all’altra e fermarsi davanti a ciascuna a osservarsi nella faccia chi uno zigomo e chi la coda d’un occhio, chi un lobo d’orecchio e chi una pinna di naso. E ancora dopo una settimana un certo tale mi s’accostò con aria smarrita per domandarmi se era vero che, ogni qual volta si metteva a parlare, contraeva inavvertitamente la palpebra dell’occhio sinistro.
«Sì, caro,» gli dissi a precipizio. «E io, vedi? il naso mi pende verso destra; ma lo so da me; non c’è bisogno che me lo dica tu; e le sopracciglia? ad accento circonflesso! le orecchie, qua, guarda, una più sporgente dell’altra; e qua, le mani: piatte, eh? e la giuntura storpia di questo mignolo; e le gambe? qua, questa qua, ti pare che sia come quest’altra? no, eh? Ma lo so da me e non c’è bisogno che me lo dica tu. Statti bene.»
Lo piantai lì, e via. Fatti pochi passi, mi sentii richiamare.
«Ps!»
Placido placido, col dito, colui m’attirava a sé per domandarmi:
«Scusa, dopo di te, tua madre non partorì altri figliuoli?»
«No: né prima né dopo,» gli risposi. «Figlio unico. Perché?»
«Perché,» mi disse, «se tua madre avesse partorito un’altra volta, avrebbe avuto di certo un altro maschio.»
«Ah sì? Come lo sai?»
«Ecco: dicono le donne del popolo che quando a un nato i capelli terminano sulla nuca in un codiniccio come codesto che tu hai costì, sarà maschio il nato appresso.»
Mi portai una mano alla nuca e con un sogghignetto frigido gli domandai:
«Ah, ci ho un… com’hai detto?»
E lui:
«Codiniccio, caro, lo chiamano a Richieri.»
«Oh, ma quest’è niente!» esclamai. «Me lo posso far tagliare.»
Negò prima col dito, poi disse:
«Ti resta sempre il segno, caro, anche se te lo fai radere.»
E questa volta mi piantò lui.

III
Bel modo d’esser soli!

Desiderai da quel giorno ardentissimamente d’esser solo, almeno per un’ora. Ma veramente, più che desiderio, era bisogno: bisogno acuto urgente smanioso, che la presenza o la vicinanza di mia moglie esasperavano fino alla rabbia.
«Hai sentito, Gengè*, che ha detto jeri Michelina? Quantorzo ha da parlarti d’urgenza.»
«Guarda, Gengè, se a tenermi così la veste mi paiono le gambe.»
«S’è fermata la pendola, Gengè.»
«Gengè, e la cagnolina non la porti più fuori? Poi ti sporca i tappeti e la sgridi. Ma dovrà pure, povera bestiolina… dico… non pretenderai che… Non esce da jersera.»
«Non temi, Gengè, che Anna Rosa possa esser malata? Non si fa più vedere da tre giorni, e l’ultima volta le faceva male la gola.»
«È venuto il signor Firbo, Gengè. Dice che ritornerà più tardi. Non potresti vederlo fuori? Dio, che nojoso!»
Oppure la sentivo cantare:
E se mi dici di no,
caro il mio bene, doman non verrò;
doman non verrò
doman non verrò
Ma perché non vi chiudevate in camera, magari con due turaccioli negli orecchi?
Signori, vuol dire che non capite come volevo esser solo.
Chiudermi potevo soltanto nel mio scrittojo, ma anche lì senza poterci mettere il paletto, per non far nascere tristi sospetti in mia moglie ch’era, non dirò trista, ma sospettosissima. E se, aprendo l’uscio all’improvviso, m’avesse scoperto?
No. E poi, sarebbe stato inutile. Nel mio scrittojo non c’erano specchi. Io avevo bisogno d’uno specchio. D’altra parte, il solo pensiero che mia moglie era in casa bastava a tenermi presente a me stesso, e proprio questo io non volevo.
Per voi, esser soli, che vuol dire?
Restare in compagnia di voi stessi, senza alcun estraneo attorno.
Ah sì, v’assicuro ch’è un bel modo, codesto, d’esser soli. Vi s’apre nella memoria una cara finestretta, da cui s’affaccia sorridente, tra un vaso di garofani e un altro di gelsomini, la Titti che lavora all’uncinetto una fascia rossa di lana, oh Dio, come quella che ha al collo quel vecchio insopportabile signor Giacomino, a cui ancora non avete fatto il biglietto di raccomandazione per il presidente della Congregazione di carità, vostro buon amico, ma seccantissimo anche lui, specie se si mette a parlare delle marachelle del suo segretario particolare, il quale jeri… no, quando fu? l’altro jeri che pioveva e pareva un lago la piazza con tutto quel brillìo di stille a un allegro sprazzo di sole, e nella corsa, Dio che guazzabuglio di cose, la vasca, quel chiosco da giornali, il tram che infilava lo scambio e strideva spietatamente alla girata, quel cane che scappava: basta, vi ficcaste in una sala di bigliardo, dove c’era lui, il segretario del presidente della Congregazione di carità; ...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. BUR
  3. Frontespizio
  4. Copyright
  5. Prefazione
  6. Notizie Su Pirandello
  7. Bibliografia
  8. Uno, nessuno e centomila
  9. Sommario