I figli della libertà
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I figli della libertà

  1. 336 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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I figli della libertà

Informazioni su questo libro

Non hanno ancora vent'anni. Si chiamano Claude, Charles, Boris, Damira, Marius, Rosine, Jeannot. Sono spagnoli, polacchi, italiani, rumeni. Hanno la pancia vuota e la testa piena dei sogni e delle inquietudini dell'adolescenza. Nella Francia occupata della Seconda guerra mondiale vivono nell'ombra e nella paura, esuli, orfani e perseguitati in un mondo caduto preda della barbarie e della violenza. Sono i ragazzi della 35a brigata, i figli della libertà. Questa è la loro storia, la Storia di tutti noi, fatta di coraggio e incoscienza, di amore e avventura, fame di futuro e di giustizia. In un romanzo terso e commovente Levy celebra il senso universale di un'epopea vera che attraversa le generazioni.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2011
Print ISBN
9788817035675
eBook ISBN
9788858601082

Prima parte

Capitolo 1

Devi capire il contesto in cui vivevamo, il contesto è importante; come per le frasi, che fuori del loro contesto spesso cambiano di significato. E negli anni a venire, tante frasi saranno estrapolate dal loro contesto per suffragare giudizi di parte e facili condanne. Un vizio duro a morire.
All’inizio di settembre l’esercito di Hitler aveva invaso la Polonia, la Francia gli aveva dichiarato guerra e nessuno metteva in dubbio che le nostre truppe avrebbero respinto il nemico al confine. Il Belgio era stato spazzato via dalla forza dirompente delle divisioni blindate tedesche, e in poche settimane centomila dei nostri soldati sarebbero morti sui campi di battaglia del Nord e della Somme.
Il maresciallo Pétain fu nominato capo del governo; l’indomani un generale che rifiutava la sconfitta lanciò da Londra un appello alla Resistenza. Pétain preferì sancire la resa di tutte le nostre speranze. Avevamo già perso la guerra.
Stringendo alleanza con la Germania nazista, il maresciallo Pétain trascinava la Francia in uno dei periodi più bui della sua storia. La repubblica fu sostituita da quello che, da allora in poi, si sarebbe chiamato lo Stato francese. Sulla carta geografica fu tracciata una linea orizzontale e la nazione venne divisa in due zone: il Nord, occupato, e il Sud, cosiddetto libero. Una libertà relativa. Ogni giorno faceva la sua comparsa una nuova ondata di decreti che obbligavano alla precarietà due milioni di stranieri, uomini, donne e bambini, i quali vivevano in Francia privi ormai di ogni diritto: il diritto di esercitare il loro mestiere, di andare a scuola, di circolare liberamente e presto, molto presto, anche del semplice diritto di esistere.
Eppure la nazione, che adesso sembrava essersene dimenticata, di questi stranieri venuti dalla Polonia, dalla Romania, dall’Ungheria, di questi rifugiati spagnoli o italiani aveva avuto un disperato bisogno. Era toccato a loro ripopolare venticinque anni prima una Francia privata di un milione e mezzo di uomini, morti nelle trincee della Grande Guerra. Stranieri appunto, come la quasi totalità dei miei compagni, e tutti avevano subito le repressioni e i soprusi che da anni si perpetravano nei loro Paesi. I democratici tedeschi sapevano chi era Hitler, i combattenti della guerra di Spagna conoscevano la dittatura di Franco e gli italiani il fascismo di Mussolini. Erano stati loro i primi testimoni di tutto l’odio, di tutte le intolleranze, della pandemia che infestava l’Europa con il suo orribile seguito di morti e miseria. Già allora era chiaro a tutti che la sconfitta era solo un assaggio, che il peggio doveva ancora arrivare. Ma perché dare ascolto a chi porta cattive notizie? Adesso la Francia non aveva più bisogno di loro. Quindi gli esuli giunti da est o da sud venivano arrestati e internati nei campi.
Pétain non si era limitato ad arrendersi, ma si preparava a scendere a patti con i dittatori europei, e mentre il Paese si intorpidiva attorno al vecchio maresciallo, già si facevano avanti il capo di governo, ministri, prefetti, giudici, gendarmi, poliziotti e miliziani, l’uno più zelante dell’altro nel compiere il loro orrendo dovere.

Capitolo 2

Tutto è cominciato come un gioco da ragazzi tre anni fa, il 10 novembre 1940. L’infame maresciallo di Francia, attorniato da alcuni prefetti cinti di argentee corone di alloro, cominciava a Tolosa il giro della «zona libera» di un Paese prigioniero della sua disfatta.
Che strano paradosso quelle folle smarrite e stupite con lo sguardo rivolto al bastone del maresciallo, lo scettro di un vecchio capo tornato al potere e nel nome di un ordine nuovo. Ma quello di Pétain sarebbe stato un ordine nuovo fatto di miseria, segregazione, denunce, omicidi e barbarie.
Alcuni di quelli che presto avrebbero formato la nostra brigata conoscevano già i campi di prigionia in cui il governo francese aveva ammassato chiunque avesse avuto il torto di essere straniero, ebreo o comunista. E nei campi del Sudovest, si trattasse di Gurs, Argelès, Noé o Rivesaltes, la vita era terribile. Inutile dirti che per chi aveva amici o famigliari prigionieri l’arrivo del maresciallo in città rappresentava l’ultimo affronto al poco di libertà che era rimasto.
Poiché la popolazione si preparava ad acclamare Pétain, toccava a noi dare l’allarme, risvegliare la gente da quella paura che travolge le masse e le porta ad arrendersi, ad accettare qualsiasi cosa; a tacere e a giustificare la vigliaccheria con la scusa che il vicino fa così, perché se il vicino fa così vuol dire che è così che bisogna fare.
Per Caussat, uno dei migliori amici di mio fratello minore, come per Bertrand, Clouet o Delacourt, di arrendersi e tacere non se ne parla proprio. La sinistra dà mostra di sé, marciando nelle strade di Tolosa, che sarà teatro di un’azione esemplare.
Oggi è necessario che qualche parola di verità, di coraggio e dignità piova sul corteo. Un testo improvvisato, ma capace di denunciare quel che dev’essere denunciato; e poi cosa importa ciò che dice o non dice il testo. È più urgente trovare il modo per diffondere quanti più volantini possibile senza farsi arrestare immediatamente dalle forze dell’ordine.
I compagni hanno organizzato l’operazione come si deve. Alcune ore prima della sfilata attraversano Place Esquirol. Hanno le braccia cariche di pacchi. La polizia è ovunque, ma chi si cura di quattro adolescenti dall’aria innocente? Eccoli a destinazione: un edificio all’angolo di Rue de Metz. A quel punto tutti e quattro sgattaiolano nell’ascensore e salgono fino al tetto con la speranza di non trovarci nessuna sentinella. L’orizzonte è libero e la città si stende ai loro piedi.
Caussat costruisce il meccanismo che ha architettato insieme ai compagni. Sul bordo del tetto sistema un’assicella che oscilla sopra un trespolo come un’altalena. A un’estremità sistemano la pila dei volantini che hanno battuto a macchina, all’altra una latta piena d’acqua. Sul fondo del recipiente hanno fatto un forellino da cui l’acqua inizia a gocciolare nella grondaia mentre loro filano giù in strada.
L’auto del maresciallo si avvicina, Caussat alza la testa e sorride. La limousine decappottabile risale piano piano la strada. La latta sul tetto è quasi vuota, sempre più leggera, l’assicella si inclina e i volantini cadono volteggiando nell’aria. Il 10 novembre 1940 è il primo autunno del maresciallo traditore. Lui guarda il cielo: i volantini svolazzano e, colmo della felicità per quei ragazzini dal coraggio improvvisato, alcuni finiscono proprio sulla visiera di Pétain. La folla si china a raccoglierli. La confusione è generale, la polizia corre da tutte le parti e nessuno sa che quei ragazzi non acclamano il corteo come tutti, ma stanno, invece, festeggiando la loro prima vittoria.
Si sono sparpagliati, e ora si allontanano. Rientrando a casa quella sera, Caussat non può immaginare che, denunciato, tre giorni dopo sarà arrestato e passerà due anni nelle prigioni della centrale di Nîmes. Delacourt non sa che qualche mese dopo, braccato, sarà freddato dai poliziotti francesi in una chiesa di Agen dove si era rifugiato; Clouet non può intuire che l’anno successivo sarà fucilato a Lione; quanto a Bertrand, invece, nessuno troverà mai il fazzoletto di terra sotto cui riposa. Quando Caussat uscirà dal carcere, con i polmoni divorati dalla tubercolosi, si unirà alla Resistenza. Arrestato di nuovo, stavolta verrà deportato. Morirà a Buchenwald a ventidue anni.
Vedi bene che per i nostri compagni tutto era cominciato come un gioco da ragazzi, ragazzi che non avrebbero avuto il tempo di diventare adulti.
Devo parlarti di loro, di Marcel Langer, Jan Gerhard, Jacques Insel, Charles Michalak, José Linarez Diaz, Stefan Barsony e di tutti quelli che nel corso dei mesi a venire li avrebbero seguiti. Sono i primi figli della libertà, quelli che hanno fondato la 35a brigata. Perché? Per resistere! È la loro storia che conta, non la mia, e perdonami se a volte i ricordi si smarriscono, se mi confondo e sbaglio i nomi.
Che importanza hanno i nomi, ha detto un giorno il mio compagno Urman, eravamo pochi ed era come se fossimo uno solo. Vivevamo nella paura, nella clandestinità, non sapevamo cosa ci avrebbe riservato il domani. Per questo è oggi così difficile rievocare una sola di quelle giornate.

Capitolo 3

Credimi, la guerra non assomiglia mai a un film; nessuno dei miei compagni aveva il volto di Robert Mitchum, e se Odette avesse avuto anche solo le gambe di Lauren Bacall forse non avrei esitato come uno stupido e l’avrei baciata davanti al cinema, tanto più che il pomeriggio successivo due nazisti la freddarono all’angolo dell’Allée des Acacias. Da allora detesto le acacie.
Per quanto possa sembrare incredibile, la maggiore difficoltà fu trovare la Resistenza.
Dopo la scomparsa di Caussat e dei suoi compagni, mio fratello e io brancolavamo nel buio. Al liceo non ce la passavamo molto bene, tra le tirate antisemite del professore di storia e geografia e le battute degli studenti di filosofia con cui facevamo regolarmente a botte. Passavo le serate davanti alla radio per captare le notizie da Londra. Di rientro dalle vacanze estive trovammo sui banchi alcuni volantini intitolati «Lotta». Avevo visto un ragazzo uscire di soppiatto dalla classe: era un rifugiato alsaziano di nome Bergholtz. Ho corso a più non posso per raggiungerlo in cortile, per dirgli che anch’io volevo fare come lui, distribuire volantini per la Resistenza. Si è messo a ridere, ma ben presto sono diventato il suo braccio destro. I giorni seguenti lo aspettavo sul marciapiede all’uscita da scuola. Non appena appariva all’angolo della strada, io cominciavo a camminare e lui accelerava il passo fino ad affiancarmi. Insieme infilavamo giornali gollisti nelle buche delle lettere; a volte li lanciavamo dalle piattaforme dei tram prima di saltare giù dalla vettura in corsa e darcela a gambe.
Una sera, all’uscita da scuola, Bergholtz non si è visto, e nemmeno la sera dopo…
Alla fine delle lezioni mio fratello e io prendevamo il treno che costeggiava la Route de Moissac e andavamo di nascosto al Manoir. Era una grande casa dove vivevano in segreto una trentina di bambini i cui genitori erano stati deportati; dei giovani volontari li avevano presi con sé e se ne occupavano. Claude e io zappavamo l’orto e a volte insegnavamo matematica e francese ai più piccoli. Non passava giorno che non supplicassi Josette, la direttrice del Manoir, di darmi una mano per entrare nella Resistenza, e ogni volta alzava gli occhi al cielo, fingendo di non capire.
Un giorno, infine, Josette mi portò nel suo ufficio.
«Ho una cosa che penso possa interessarti. Alle due del pomeriggio fatti trovare davanti al numero 25 di Rue Bayard. Un passante ti chiederà l’ora. Gli risponderai che il tuo orologio non funziona. Se ti domanda: “Per caso lei è Jeannot?”, è l’uomo che cerchi.»
E fu proprio così che andò…
Ho portato mio fratello con me e, davanti al 25 di Rue Bayard a Tolosa, abbiamo incontrato Jacques.
Aveva un cappotto grigio, un cappello di feltro e la pipa all’angolo della bocca. Ha gettato il giornale nel cestino fissato al lampione. Non l’ho raccolto perché non rientrava nelle istruzioni che avevo ricevuto. Dovevo solo aspettare che Jacques mi chiedesse l’ora. Si è fermato alla nostra altezza, ci ha squadrati, e quando gli ho risposto che il mio orologio non funzionava ha detto di chiamarsi Jacques e ha voluto sapere chi dei due fosse Jeannot. Ho fatto subito un passo avanti: Jeannot ero io.
Jacques si occupava da solo del reclutamento dei partigiani. Non si fidava di nessuno e faceva bene. Può sembrare ingeneroso affermare questa cosa, ma non dobbiamo dimenticare il contesto.
Allora non potevo sapere che qualche giorno dopo un partigiano di nome Marcel Langer sarebbe stato condannato a morte per colpa di un procuratore francese che aveva chiesto la sua testa. E nessuno in Francia, libera o no, poteva immaginare che, dopo l’assassinio da parte di uno dei nostri di quel procuratore, sotto casa sua, una domenica mattina mentre andava alla messa, nessuna Corte di Giustizia avrebbe più osato chiedere la testa di un partigiano arrestato.
E io non potevo prevedere che avrei fatto fuori un bastardo, un pezzo grosso della Milizia che aveva denunciato e ucciso tanti giovani della Resistenza. Il miliziano in questione non ha mai potuto intuire che per un soffio non ebbe salva la vita, che avevo così paura di sparare che quasi mi pisciai sotto, che ci mancò poco che lasciassi cadere l’arma. E se quel bastardo non avesse chiesto pietà, lui che non ne aveva avuta per nessuno, non avrei trovato la rabbia necessaria per esplodergli cinque pallottole in corpo.
Abbiamo ucciso. Mi ci sono voluti anni per riuscire a dirlo, ma il viso di uno a cui hai sparato ti resta impresso nella mente per sempre. Noi però non abbiamo mai ammazzato un innocente, nemmeno un imbecille. Io lo so, e lo sapranno anche i miei figli perché è questo ciò che conta.
Sulle prime Jacques mi guarda, mi soppesa, mi fiuta quasi come un animale, poi decide di seguire l’istinto e mi si para davanti. Le parole che sta per pronunciare sconvolgeranno per sempre la mia vita.
«Cosa vuoi esattamente?»
«Raggiungere Londra.»
«Allora non posso fare niente per te. Londra è lontana, e là non ho nessun contatto.»
Mi aspetto che mi volti le spalle e se ne vada, invece rimane davanti a me e non mi stacca gli occhi di dosso. Allora ci riprovo.
«Può mettermi in contatto con i partigiani? Voglio darmi alla macchia.»
«Anche questo è impossibile» risponde Jacques, riaccendendosi la pipa.
«Perché?»
«Perché dici di voler combattere. Alla macchia non si combatte, tutt’al più si recuperano pacchi, si passano messaggi, ma lì la Resistenza non è ancora attiva. Se vuoi combattere, devi unirti a noi.»
«Noi?»
«Te la senti di combattere per le strade?»
«Quello che voglio è uccidere un nazista prima di morire. Voglio una pistola.»
L’avevo detto con fierezza, e Jacques è scoppiato a ridere. Non capivo cosa ci fosse di tanto divertente, a me sembrava piuttosto una risposta che rivelava tutta la tragicità del momento. E infatti era proprio questo che lo aveva divertito.
«Hai letto troppi libri, bisognerà che qualcuno ti insegni a usare il cervello.»
L’osservazione paternalistica mi ha un po’ offeso, ma non voglio darlo a vedere. Sono mesi che provo a mettermi in contatto con la Resistenza,...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Bur
  3. Frontespizio
  4. Dedica
  5. Prima parte
  6. Seconda parte
  7. Terza parte
  8. Ringraziamenti