PARTE PRIMA
Rosina
24 novembre 1924, di pomeriggio
«Rosina?»
«…»
«Rosina, dove sei?»
«…»
«Ma dove ti sei nascosta?»
«…»
«Rosina, hai vinto, non ti trovo.»
«…»
«Dai, Rosina, esci fuori.»
«…»
«Rosina?»
«…»
«Basta, non mi diverto più. Hai vinto. Te l’ho detto, hai vinto. Esci fuori.»
«…»
«Rosina! Rosina esci fuori, o me ne vado!»
«…»
«Rosina?»
«…»
«Rosina?»
«…»
«Mamma, mamma, Rosina non si trova più!»
Bianca
5 giugno 1924
Quel brutto fatto me lo raccontava sempre la mamma, la sera. Iniziava in piedi, mentre mi infilavo il pigiama, e poi continuava appoggiata al bordo del mio letto. Ma a volte le piaceva raccontarmelo anche quando preparava il pranzo o mentre facevo i compiti, seduta al tavolo di legno della cucina. Sempre però quando eravamo sole, quando il papà era fuori per il lavoro o per qualche altro motivo. Per lei era come raccontare una favola. Per me invece era come sentire e rivivere un incubo.
Il racconto mi veniva somministrato tutti i giorni, come fosse un cucchiaio di sciroppo per la tosse. Dopo quella storia mi sentivo irrigidire tutta; sentivo dei brividi di freddo salire fino alla fronte, e poi ridiscendere fino ai piedi. Anche le scarpe me le sentivo gelate. E poi la notte, immancabilmente, facevo dei brutti sogni.
A volte riuscivo ad assentarmi, a portare i miei pensieri altrove; e dovevo stare bene attenta a far finta di starla a sentire, altrimenti si arrabbiava. Ma erano più le volte che la seguivo rapita; e le sue parole mi facevano piombare in un orrore che io non volevo conoscere, di cui non volevo sapere.
Non mi sembrava giusto essere sottoposta a quel martirio quotidiano. Trovavo che fosse un rito crudele. L’ho pensato finché non sono diventata madre anch’io; solo allora ho capito che quello era un gesto d’amore.
L’amore mia madre me lo dimostrava così. Mettendomi in guardia. Mettendomi paura tutti i giorni. Una paura da togliere il fiato.
Perché era lei ad aver paura. Era la mia mamma che non poteva togliersi dalla testa quel giorno. Quei fogli di giornale che coprivano un corpo di bambina.
E allora deve aver pensato che solo spaventandomi non mi sarei allontanata, come aveva fatto la biocchetta.
Per lei quello, il giorno in cui iniziò questa brutta storia, era uno dei tanti. Aveva preparato un cestino con tante cose buone. Sul tavolo di cucina aveva messo un bel po’ di ghiottonerie e poi le aveva ricoperte con la carta del pane, quella spessa, che tratteneva l’unto. C’era il salame. C’era il formaggio. C’era una frittata ripiena. E anche un pezzo di ciambellone, con tanto zucchero e tanto burro. In una fiaschetta aveva messo il vino rosso. E in un’altra l’acqua fresca.
A Roma, a giugno, c’era già un sole caldo. Anche se il mese era appena iniziato, le giornate si erano allungate, e la temperatura alzata.
Mamma aveva messo su lo scialle azzurro, quello leggero di seta che le aveva regalato la nonna. Voleva coprire le spalle nude.
Diritta e fiera, si dirigeva verso la porta. Verso la ferrovia. Dove lavorava il suo amore.
E il suo bel marito con la tuta blu le avrebbe regalato un grande sorriso. Le sarebbe andato incontro. E poi avrebbe cercato di abbracciarla. E lei si sarebbe arrabbiata. Perché così, se non avesse fatto attenzione, avrebbe rovinato tutto il cestino.
Ma quel giorno non andò come al solito.
Anna Maria Durante uscì prima. Mentre percorreva la strada di campagna che costeggiava le rotaie, vide qualcosa di strano. E forse, proprio perché non aveva fretta, si avvicinò.
C’erano delle mosche che ronzavano. Ma a colpire la sua attenzione furono soprattutto i maiali. Quattro o cinque maiali che si avvicinavano ad alcuni fogli di giornale. Questi ultimi erano posti uno accanto all’altro, come per formare una coperta. Sì, sembrava una coperta di giornali. E i maiali e le mosche erano lì perché attirati da quello che doveva esserci sotto.
Anna Maria si avvicinò ancora.
I maiali. Le mosche. I fogli di giornale.
Non capiva cosa potesse esserci lì sotto. Non certo un animale grande, perché i fogli ricoprivano qualcosa che poteva avere le dimensioni di un gatto, anzi di un cane.
“Chissà cosa ci sarà lì sotto quei giornali” pensava Anna Maria avvicinandosi ancora. “Forse una carcassa.”
I maiali non le facevano paura.
Le mosche ronzavano, ma ce ne erano tante anche vicino a casa sua.
I fogli di giornale, ai lati, si levavano smossi dal venticello. Ma il vento non era abbastanza forte da portarli via. Non era abbastanza potente da scoprire quello che era nascosto.
Allora Anna Maria si avvicinò ancora.
Il vento alzò il lembo più esterno del giornale.
Qualcosa ora si vedeva.
Anna Maria si abbassò sulle ginocchia. La testa inclinata di lato. Gli occhi che andavano curiosi sotto quel foglio un poco sollevato.
Anna Maria si rialzò di scatto.
Aveva visto,
che lì sotto,
sotto quei fogli di giornale,
c’era una bambina.
Il giorno prima
4 giugno
Roma. Saranno state le 19.30, l’ora in cui l’imbrunire rende la città ancora più bella. Gli ultimi raggi di luce davano ai palazzi un colore quasi pastello, un morbido ocra.
Guardando il panorama dall’alto, si poteva respirare aria di nobiltà e di antiche gesta.
Dal basso, però, la realtà era ben diversa. Nei vicoli si respirava la polvere, e l’odore antigienico di quello che era stato evacuato poco prima, da vecchi o da fanciulli.
Per Bianca era l’ora più bella. La mamma cucinava e il papà non era ancora tornato dal lavoro. In quei momenti poteva sfuggire al controllo dei genitori, per giocare a nascondino con le sue amichette.
Era quello che più la divertiva. Rincorrersi. E toccarsi, e poi scappare via.
E ancora correre, nascondersi. Trovarsi. E ridere ad alta voce, quando si sorprendeva qualcuno dentro un portone, o sotto la fontana, o dietro il muro.
Bianca si sentiva libera, e leggera. Finalmente non le pesava quella brutta mano che il buon Dio le aveva regalato sin dalla nascita. La chiamavano la mano «offesa».
Ma da chi?
Era lei, Bianca, che si sentiva offesa.
Offesa, perché le altre bambine avevano le mani lunghe e ben curate, e soprattutto l’una uguale all’altra.
Offesa, perché doveva metterla sempre in tasca, altrimenti gli occhi dei passanti li avrebbe trovati tutti lì a curiosare tra le sue dita.
Ma mentre correva la sua mano destra aveva la stessa agilità di quella sinistra. E lei, Bianca, poteva andare veloce senza farsi notare da nessuno.
Era più veloce degli sguardi curiosi.
Era più allegra e sana di tutte le altre bambine.
Finalmente si dimenticava di essere la biocchetta.
Non le piaceva affatto questo soprannome. Ma oramai ci aveva fatto l’abitudine. Bianca non capiva bene il significato di questa parola. Ma sapeva che la deridevano perché diceva sempre di sì a tutti, non si arrabbiava mai, ci cascava a ogni scherzo: «abboccava», come si diceva a Roma.
La biocchetta forse perché abboccava a tutto.
Bianca non lo sapeva.
Ma questo soprannome non la faceva arrabbiare.
Erano gli sguardi dei curiosi, quelli sì, che la irritavano tanto.
Stava trattenendo il fiato per non farsi sorprendere, quando sentì un rumore. Qualcuno si stava avvicinando. Forse la sua amichetta l’aveva scoperta.
Ma non era la sua amica.
La sagoma era alta e finiva con un bel cappello nero.
Forse era qualcuno che abitava in quel palazzo.
Bianca trattenne ancora il fiato. Ma era lì, e non poteva sfuggire allo sguardo di quello sconosciuto.
Il signore alto e con il cappello nero che si avvicinò alla bambina nascosta dietro il portone non guardò la sua mano offesa, non la notò affatto. Anzi, la afferrò con aria divertita. Prese proprio la mano offesa, e non fece alcun commento sprezzante.
La guardava dicendole che era proprio carina, e che l’avrebbe accompagnata lui, e che aveva tante caramelle. E tanti soldini.
E la tirò fuori dal portone.
La biocchetta non seppe dirgli che non poteva andare con lui, che doveva lasciarla in pace, perché doveva giocare con le sue amichette.
Il suo carattere mansueto le proibì di urlare.
Le proibì persino di protestare.
Non le uscì neanche una parola,
mentre veniva portata via.
C’erano tante persone per strada,
e qualcuno si voltò a guardarla.
Bianca perse il sandaletto.
Ma l’uomo non se ne accorse.
E nessuno disse nulla.
Ma perché erano sempre tutti interessati alla sua mano offesa, e quella volta nessuno disse neanche una parola al signore che le aveva fatto perdere il sandaletto?
Continuava a camminare,
anzi, più che camminare, cercava di stare al passo veloce di quel signore.
Ma lui aveva le gambe più lunghe.
E non aveva un piede scalzo, come lei.
E allora Bianca correva,
con la mano offesa che non riusciva a tirare via.
Perché il signore gliela teneva stretta.
Così stretta da farle male.
Aveva la sensazione che, se avesse potuto, quel signore l’avrebbe sollevata da terra.
Lei lo seguiva come un aquilone che deve ancora prendere il volo.
La biocchetta ora aveva il fiatone.
Ma dalla sua bocca non usciva una parola,
non un grido,
non una protesta.
Bianca si ritrovò in un vicolo
ancora più buio degli altri.
Quel signore alto le mise una mano sulla bocca.
Ma perché, visto che lei non avrebbe urlato?
Non era necessaria quella mano, pensava Bianca.
Ma il signore premeva e premeva.
E allora lei cercava di spiegargli con gli occhi che non avrebbe urlato, che era biocchetta, e che lo sapevano tutti, e sempre con gli occhi cercava di dirgli che lei voleva solo tornare a casa.
Ma quel signore l’afferrò come un pacco.
E la portò via.
Chi era quel signore?
«Era alto!»
«Era ben vestito!»
«Sì, era molto elegante!»
«Avrà avuto 35 anni!»
«No, di più di 35!»
«No, di meno!»
«Comunque aveva i baffi.»
«Sì, i baffi li aveva, ne sono certa!»
«Erano folti, a spazzola.»
«E aveva anche un cappello.»
«Sì, sì… mi sembra che fosse floscio e nero come il cappotto.»
«Per essere precisi era un abito ed era color cenere.»
«Vabbè, sì, cenere.»
«A me sembrava un cinese.»
«Ma va’…»
«Era alto, con un abito nero, con i baffi, e correva veloce.»
«Sì, era molto agile.»
«FATE SILENZIO! UNO PER VOLTA!»