Dico tutto
eBook - ePub

Dico tutto

  1. 195 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

"Chiedo scusa" l'ha detto davvero poche volte. "Allora gioca tu…" invece è proprio da lui. Antonio Cassano, il talento più controverso del calcio italiano, era già un idolo per tutti nei vicoli di Bari Vecchia dove è nato. Perché il mondo lo conoscesse c'è voluta però una sera di dicembre del 1999 con un gol rimasto nella memoria di tutti, soprattutto se interisti. In questa nuova edizione Cassano arricchisce la sua autobiografia con curiosità e cassanate inedite. Racconta la povertà, la ricchezza improvvisa, le grandi esaltazioni e le depressioni folli, la passione per le belle donne e poi l'amore vero, con tanto di matrimonio, proprio durante quel Mondiale in Sudafrica a lungo sognato. Sincero, autoironico, sorprendente, il Peter Pan del calcio guarda dietro e dentro di sé e rivela cose che nessun altro calciatore ammetterebbe mai, anche a costo di non andare in Nazionale...

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2011
Print ISBN
9788817040099
eBook ISBN
9788858600436

Prefazione

di Pierluigi Pardo

Se tutti fossero come lui, il mondo sarebbe un casino. Più rumoroso, confuso e anarchico. Certamente divertente. Comunque, un casino.
Niente paura, non succederà. In pochi nascono come Antonio Cassano.
Peter Pan eterni, assolutamente indisponibili all’idea di crescere, contrari per principio a ogni possibilità di compromesso, sempre pronti a buttar via la maglia urlando «allora gioca tu», appena qualcosa non gli piace.
Antonio Cassano la vita se la beve. La butta giù tutta dentro, anche a costo di ubriacarsi. Il paradosso per un astemio che odia ogni droga ed eccesso. Divide il mondo in bianco e nero, simpatici e antipatici, gente di cui si può fidare, poca, e altra potenzialmente pericolosa. Il suo mondo odora di cose forti, intense. A ventisei anni può dire di conoscere il colore grigio povero dei sottani di Bari e il blu abbagliante e ricco del mare della celebrità.
Bianco o nero, appunto. Lampo, intuito, follia e nessuna voglia di crescere.
Il giorno che gli ho parlato per la prima volta è stato perché lui, già miliardario e già famoso, aveva voglia di dire a un giovane telecronista di Stream che gli era simpatico. L’ha fatto alla sua maniera con una pacca forte sulla schiena nel centro esatto di un aeroporto. Poi ha sorriso ed è scappato via. Dribbling secco, di quelli che gli piacciono molto. Logico, per uno veloce di corsa e di testa.
Nessun rispetto dell’etichetta, nessuno snobismo. La classe da lui cercatela solo in campo.
Antonio Cassano adora i gesti eclatanti, perché il pesce crudo si mangia con le mani, perché se una cosa ti piace allora devi prenderla, perché resistere non ha alcun senso.
Lui ha i tempi dell’anguilla. Divora la vita, sfugge a ogni possibile marcatura, ti imprigiona di curiosità. Non conosce gli apostrofi, che devono sembrargli roba inutile come tutto ciò che è forma o stile, insensata distanza dalle cose vere. Così un abbraccio, per lui a volte diventa un’abbraccio, nonostante il lavoro di qualche professoressa che gli è pure rimasta nel cuore.
Ma anche se gli apostrofi li mette a caso, non è certo un ignorante. Conosce bene il mondo, solo che lo fa dalla sua parte, con i tempi e i modi di quel pezzo di vita, con un talento smisurato per il pallone e un senso irresistibile per il colpo di scena, la battuta a effetto, la risata grassa.
Raccontare la sua vita, giovane e già piena di vertigini, esaltazioni enormi e abissi inspiegabili è stato anche guardare alla mia e a quelle degli altri.
Soprattutto comprendere che qualche «cassanata», a piccole dosi e sempre dopo i pasti, può far bene a tutti, come la necessità del gesto forte e il rifiuto del calcolo. È l’istinto puro, quello che ti ricorda che se una cosa ti piace devi prenderla, appunto.
Se Peter Pan un giorno crescerà o se riuscirà per sempre a dribblare il tempo non è dato saperlo. Di sicuro possiede talento sufficiente per invecchiare senza diventare adulto, come in una vecchia canzone che non è entrata nella sua playlist e che forse nemmeno conosce.
Io intanto me lo immagino così, tra dieci anni o tra cento, con la risata in canna, eternamente pronta a scoppiare, il viso segnato dalla vita, il sorriso pieno, la faccia sospesa per sempre a metà fra uno che ti dice «ti voglio bene» oppure si sfila la maglia e te la tira: «Allora gioca tu».

Vvattin’ da ddoj’

(Via da qui)

Ho aperto la porta di casa. Erano tutti lì. Centinaia di persone. Ho cacciato un urlo e un sorriso. «Fino a ieri nessuno mi salutava» ho gridato, «stasera siete tutti ddò, siete venuti tutti qui. Fuori dai piedi, subito.»
Era l’una di notte, e la mia vita era appena cambiata. Sul tabellone dello stadio c’era ancora scritto il risultato: Bari-Inter 2 a 1. Io ero nel traffico. Pazzesco. Un’ora e mezza c’ho messo per tornare a casa mia, Bari Vecchia, in macchina con Beppe Bozzo, il mio procuratore. Gli dicevo che doveva correre, che volevo rivedere il gol, ma niente da fare. Man mano che camminavamo il traffico aumentava, diventava pazzesco entrando nel Corso, quello che a Bari separa, in dieci metri, i ricchi dai poveri. Entrando verso via San Bartolomeo, la viuzza dove abitavo, diventava impossibile procedere. L’intera città era lì, per me.
C’erano i fuochi d’artificio e gli spari in aria, colpi di pistola in mio onore. In cielo, mica a me. C’erano le persone di Bari Vecchia, come in pellegrinaggio dal Santo. E per quanto possa sembrare incredibile, il Santo, ero io. Avevano portato di tutto a casa: pane, pasta, olio, pandoro, champagne e panettone. Pochi giorni dopo sarebbe stato Natale e io naturalmente le vacanze le avrei passate lì, visto che non c’avevo una lira. Fino al giorno prima non avevo da mangiare, da quel momento con tutta quella roba potevo anche diventare obeso.
Ho chiuso la porta di casa, dopo averli cacciati e sono rimasto con i miei amici. Pochi. Non volevo estranei alla mia festa. È stata la mia prima «cassanata». Forse avrei dovuto chiudere un occhio, accettare i regali, dare retta a mia madre che mi diceva di farli restare. Ma io non sono così. Dico le cose che penso in faccia, anche a costo di sbagliare. Sempre.
Non ricordo nulla di quella notte. Un enorme buco nero fino all’abbraccio con mia madre, al brindisi (aranciata, niente alcol). L’ultima cosa che ho in mente è l’ottantottesimo minuto della partita, il lancio di Perrotta, l’unico che gli è riuscito in carriera tra l’altro, ancora lo prendo in giro, cinquanta metri perfetti, l’aggancio di tacco, avevo preso in velocità Blanc che stava rientrando, Panucci veniva in diagonale, ho fatto passare la palla tra i due, sono andati dritti al bar, ho chiuso sul palo corto, poi ho visto la curva sempre più vicina, e il boato. Ero nato. Tutto da quel giorno sarebbe stato diverso. In un certo senso so di avere due date di nascita, il 12 luglio 1982, quando mamma Giovanna ha partorito questo mezzo matto, e il 18 dicembre 1999 quando il mondo si è accorto di lui.
L’ho rivista in tv quella scena, mille volte, e adesso qualcosa ricordo. Grazie alla televisione ho scoperto dei particolari che avevo completamente rimosso, per esempio il fatto di essere stato ammonito. Il primo giallo della mia carriera, un dettaglio inutile, in effetti. È un peccato, vorrei sapere tutto, mi piacerebbe ricordare meglio la notte che mi ha cambiato la vita. Invece niente, a parte una richiesta a Matarrese negli spogliatoi: «Preside’, guadagno due milioni e settecentomila lire al mese, il minimo contrattuale, mi dia l’aumento che non c’ho una lira…».
Lui mi disse: «Tranquillo».
Ovviamente non arrivò nulla.
Ma quella notte cambiò tutto. Diventai ricco comunque, anche senza i soldi di Matarrese, diventai improvvisamente famoso, e pure piuttosto bello, a giudicare dalle donne che da quel momento cominciavano a guardarmi in modo diverso. Quasi Brad Pitt e tutto grazie a un colpo di tacco. Il calcio fa miracoli, davvero.
Spesso ripenso a quel sabato di dicembre del 1999, al freddo che c’era, a come mi ha cambiato la vita, a cosa sarebbe successo se quel giorno non fosse mai arrivato, se Blanc e Panucci fossero stati più svegli, o se Perrotta avesse sbagliato il lancio, oppure se, per assurdo, avessi sbagliato io. Forse sarei diventato comunque un grande giocatore, del resto erano anni che a Bari mi consideravano un fenomeno, e però quell’azione accelerò tutto, la storia della mia vita cominciò a correre. Il destino ha deciso così. È stato un bene.
L’unico rimpianto che a volte mi prende è la rinuncia alla normalità, i fotografi che rompono le scatole, i giornalisti che inventano dichiarazioni, ma sono dettagli, piccoli contrattempi di una vita bellissima.
E poi l’alternativa più probabile se quel Bari-Inter non ci fosse mai stato, se tutto quello non fosse successo, era diventare un delinquente. C’erano ottime possibilità che questo avvenisse. Se sei un nullafacente e non hai voglia di lavorare, e io credetemi, proprio non ne avevo, andare a rubare è un’opzione possibile, probabile, quasi certa. Io a lavorare non ci pensavo proprio e in più ero veloce. Velocissimo. L’unica cosa che sapevo fare era correre, e dribblare. Nient’altro. Ancora oggi non so fare nulla se non questo.
Sarei diventato un rapinatore, o uno scippatore, comunque un delinquente. Molte persone che conoscevo sono state arruolate dai clan, come qualcosa di logico, normale, inevitabile. Quella partita e il mio talento mi hanno portato via da una strada che sarebbe stata pericolosa e violenta, dalla prospettiva di una vita di merda. È stato un colpo di genio, e di culo, a farmi scappare via.
L’unica cosa di cui sono sicuro è che non mi sarei mai rovinato la vita con le droghe. Mi fanno schifo. Tutte. Non fumo e non bevo. Al massimo un dito di vino bianco, annacquato. Lo so che non è il massimo per uno che dovrebbe essere il ribelle del calcio italiano. Ma le cose stanno così. Spero davvero di non avervi deluso.
A Bari Vecchia mi chiamavano «Cavallo Bianco», perché avevo la faccia allungata ed ero veloce. Giocavo per ore tra le bancarelle del mercato di piazza Ferrarese.
Tutti mi volevano in squadra con loro e scommettevano dieci, quindici o ventimila lire sulla squadra dove giocavo io. Io mica ero un trimone, mica ero scemo, gli dicevo che se volevano puntare sulla mia squadra non bastava venire a stringermi la mano, dirmi: «Bravo!». Volevo il grano, io, dovevano darmi la percentuale. Avevo otto anni, ma ero già il Capo. Tutti volevano giocare in squadra con me. Spesso mi mettevano contro gente più grande, di due o tre anni, ma il risultato non cambiava. Anzi proprio i ragazzi più grandi cominciarono regolarmente a invitarmi al Castello Svevo.
Si giocava nel fossato fin quando c’era luce. Il punteggio te lo portavi dietro da un giorno all’altro. Le partite non finivano mai. I risultati erano tipo 1026 a 947. Vincere contava ma contava soprattutto la classe e io ero troppo più forte. Palleggiavo per ore davanti ai passanti che mi guardavano stupiti. Ancora oggi quando mi capita di tornare a Bari e passeggiare mi succede di incontrare qualcuno che mi ricorda di averlo fatto per ore.
«Ne hai fatti mille, no sono stati milletrecento, ma che dici, millecinquecento» questo è il tenore delle conversazioni. Comunque sia quando il pallone cadeva era solo perché mi ero rotto le palle di palleggiare, statene certi. Non mi ricordo più molto di quel periodo. Ma alcuni particolari, sì. Che per me il campo non è mai stato verde, per esempio.
La prima partita sull’erba l’ho fatta a tredici anni, in un’amichevole contro la prima squadra del Bari. Prima di quel giorno il calcio per me era soltanto pietre e terra e ovviamente nessuna maglietta. Giocavo sempre a petto nudo. In quella piazza avrò segnato migliaia di gol, più di Romario in tutta la sua carriera. Il problema è che spesso le partite venivano sospese dai vigili o dalla polizia. Sembrava che ce l’avessero con noi. Noi un po’ con loro, del resto, ce l’avevamo. Se ci rompevano le scatole rispondevamo. Buttavamo le uova, le arance, i pomodori delle bancarelle. Lo so che non è particolarmente civile. Ma è la verità. Era un modo per farci rispettare.
Spesso poi c’erano spari, macchine della polizia con le sirene accese, ambulanze. Ci divertivamo quando si sentivano gli spari, come i bambini per i botti di Natale, ma se ci penso adesso so di avere rischiato. Era Bari Vecchia, del resto. La mia città. L’unico posto dove potevo nascere. Per questo non venderò mai la casa di via San Bartolomeo e anzi un giorno mi piacerebbe tornare a viverci. Quella è la radice cui appartengo, casa mia.
Se fossi nato ricco magari sarei diventato un bamboccione, e mi sarei perso delle cose fondamentali. «Portofino» per esempio, la nostra spiaggia, una schifezzeria assoluta, niente a che vedere con la vera Portofino, quella vicina a dove vivo adesso, uno dei posti più belli d’Italia, di altissimo livello, molto esclusivo. Lì di esclusivo c’era solo lo schifo. Ci si andava e si faceva il bagno nudi, tutti amici, solo maschi.
Ero molto povero in quegli anni, sono ancora in credito con la vita. A oggi mi sono fatto diciassette anni da disgraziato e nove da miliardario. Me ne mancano ancora otto, prima di pareggiare.
Comunque sia, non rinnego nulla della mia vita precedente. A me non piace la gente già «fatta», quella che nella vita deve solo difendere il proprio benessere, le ville e le piscine. A me non piace difendere. Io sono un attaccante.
Mi piacciono i deboli, gli indifesi, quelli che provano a sovvertire. Mi piaceva uno che si chiamava Nicola e aveva il soprannome «Tovalieri», un ragazzo poliomielitico, un amico mio. Facevamo un torneo tra i quartieri della città. C’erano le parrocchie, i rioni, io ovviamente giocavo per quello della Città Vecchia, San Nicola, e in squadra con me c’era lui. Gli dicevo di mettersi vicino alla porta. Mi piaceva dribblare tutti, gliela tiravo forte addosso e lui faceva gol. Una volta gliene avrò fatti fare dieci. Era un tifoso sfegatato del Bari e gli volevo bene, un bravissimo ragazzo. Anzi gli voglio ancora bene. Se poi qualche volta mi è capitato di prendere in giro gli avversari, di sfotterli perché avevano subito gol da un ragazzo poliomielitico, mi dispiace. È successo solo per il gusto della battuta, per la voglia di umiliarli, per l’adrenalina che c’era in campo. E in corpo.
Ero povero, certo, ma tengo a precisare che nella mia vita non ho mai lavorato. Anche perché non so fare nulla, appunto.
Nel tempo sono nate leggende metropolitane in merito. Tutto falso. Non ho mai fatto il cameriere, per esempio. È vero, andavo da Mimmo, che aveva la pizzeria, ma soltanto perché era un amico, un fratello maggiore. Mi portava in giro con la macchina, mi invitava a cena, visto che io non avevo una lira, mentre lui aveva già i soldini, oppure andavamo da Paolo, in via Quintino Sella, a mangiare il panzerotto con prosciutto e pomodoro, strepitoso, oppure con carne (a parte allego la ricetta, provate a rifarlo se siete capaci). Ma lì io mica lavoravo, andavo solo per mangiare gratis, con gli amici, dopo essermi svegliato all’una, cosa che, grazie a Dio, continuo a fare con una certa frequenza e con enorme gusto. Stavo lì, mangiavo gratis e rompevo le scatole alla gente.
Da Onofrio invece c’era la Torta Sorriso, la più buona in assoluto. Bari Vecchia del resto per me era il centro del mondo, di tutto, al punto che quando Matarrese procurò a me e mamma una casa in affitto in un quartiere elegante, residenziale, io non ci andavo mai. Solo per dormire e lavarmi la faccia. Per me era come stare all’estero, lontano dalla gente che contava davvero.
Tra i miei amici c’era Remì. Più di un amico, un fratello. Venne ucciso a diciotto anni, nel giorno di Santa Maria, il 10 settembre del 1998. Mi manca. Viveva con me e da un giorno all’altro non me lo sono più trovato accanto. Non era il solo.
Michele Fazio consegnava pizze a domicilio, morì per una pallottola vagante. So che era un mio tifoso, e che quelle poche volte che ci eravamo incontrati non aveva avuto il coraggio di chiedermi l’autografo. È morto che aveva sedici anni, quando io ero già a Roma. Con il passare del tempo mi sono reso conto che quell’autografo serviva a lui m...

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