Ritratto del funzionario indiano da giovane
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Ritratto del funzionario indiano da giovane

  1. 374 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Ritratto del funzionario indiano da giovane

Informazioni su questo libro

A 25 anni Agastya pensa di sapere tutto sull'India. In fondo non si è mai mosso da lù, ha generazioni di bengalesi purosangue alle spalle e suo padre è uno stimato governatore. Perfino il nome che porta, ispirato dal Ramayana, è la quintessenza dell'indianità. Che poi gli amici lo abbiano sempre chiamato English - l'Inglese - è tutt'altro affare. Con il suo inseparabile Marco Aurelio, i dischi di Ella Fitzgerald, il jogging mattutino e un costante male di vivere tipicamente occidentale, Agastya non sospetta cosa sta per succedergli, quando ottiene un posto da funzionario nello Ias, la pachidermica macchina amministrativa indiana. Niente di ciò che ha vissuto o letto lo ha preparato a Madna, il rovente paesino del Sud dove viene spedito per il tirocinio. Improvvisamente circondato da una folla di burocrati, svitati e perditempo, alla mercè di un cuoco misteriosamente incapace di comprendere l'elementare concetto della bollitura dell'acqua, stremato da una canicola tropicale e da un muro impenetrabile di spleen, Agastya scopre poco alla volta che quasi nulla di ciò che credeva di sapere sull'India - o su stesso - corrisponde al vero.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2011
Print ISBN
9788817040075
eBook ISBN
9788858600481

Finalmente in partenza per Delhi

Finalmente in partenza per Delhi. Ma sarebbe stato troppo breve, pensava Agastya. Non sarebbe stata una tregua, anzi, avrebbe solo rinfocolato la sua inquietudine. Solo un interludio di dieci giorni, e un giorno e mezzo sprecato per il viaggio. E sapeva che a Delhi sarebbe stato perseguitato dalle immagini di Madna, perché la sua mente non era sotto controllo. Discutendo con Pultukaku su dove fosse meglio piantare i tulipani, avrebbe pensato che dopo una settimana da quel giorno sarebbe stato nella sua stanza alla foresteria a fare ginnastica mentre Digambar aspettava fuori. Guardando gli aeroplani atterrare all’aeroporto di Delhi con Madan, fumati all’una di notte, avrebbe pensato: la settimana prossima a quest’ora sarò a letto nella mia stanza, gli occhi spalancati per l’insonnia, cercando le punture delle zanzare, in attesa del rumore del salto successivo di Dadru. E il nono giorno avrebbe fatto di nuovo i bagagli e salutato suo zio, e la sua mente a quel punto l’avrebbe deriso fornendogli la prova sicura che l’estasi dell’arrivo non compensa mai il vuoto della partenza. Poi, sul treno, qualcuno gli avrebbe chiesto di etichettarsi, non avrebbe creduto che era ciò che era, e avrebbe detto di non aver mai sentito il nome Agastya.
Ma a dispetto di se stesso, a dispetto di tutto, la mattina della partenza, mentre faceva i bagagli aiutato da Digambar, provava una certa eccitazione. Forse doveva mettere tutto in valigia, pensò, e andarsene per non tornare mai più. Dallo scaffale prese Marco Aurelio, la Gita di Sathe e il diario.
Lui e Kumar salirono sul treno scortati dal capostazione e da una decina di agenti. Kumar impartì loro istruzioni finché il treno non si mosse, e anche dopo, e soprattutto su se stesso e le sue faccende personali. «… E telefona e digli di venirmi a prendere alla stazione, hain… arriviamo domani mattina intorno alle sette… e ricordagli di prenotarmi un posto sul treno notturno per Kanpur, e se non è possibile riservare un posto, allora su qualsiasi treno… Di’ a Bakhtiar che il frigorifero dà ancora dei problemi e che deve mandare subito un altro uomo, altrimenti li avrà lui i problemi… Quel sarto verrà con due camicie, digli che lo pagherò al mio ritorno… altrimenti pagalo tu…» Dopo nemmeno un minuto dalla partenza, il treno passò sotto il ponte sul quale, molti pomeriggi prima, Agastya si era fermato con Sathe a guardare il panorama; e poi il passaggio a livello dove la prima sera del monsone aveva provato la sensazione che il mondo fosse grande e in perenne movimento. Si trovava sui binari che arrivavano al bordo del cielo, in un treno arancione e crema, e là dietro la chiesa c’era un poligono giallo spento, la foresteria, dove si era seduto a bere il tè e a guardar passare quello stesso treno.
Diciotto ore a Delhi. A Kumar piaceva viaggiare in treno, se la godeva come si godeva tutto il resto. Si infilò gli occhialoni da sole e per festeggiare fumò una sigaretta. Poi chiarì per bene la propria identità all’addetto alle cuccette, assicurando così a entrambi lenzuola eccellenti per la notte. Agastya stava già fumando nella toilette. Scesero praticamente a ogni fermata a mangiare e bere porcherie. Un ragazzino se l’era fatta nei pantaloni e zampettava allegramente per il vagone elargendo il suo prodotto in modo imparziale, ma nonostante ciò Kumar tubava come una colomba. «Arré, Sen, non c’è niente di più bello che tornare a casa.»
«Ma ancora meglio è non lasciarla mai.»
«No, certe volte penso di no. È meglio lasciarla, perché così il ritorno è molto più dolce. E comunque la vita è così piena di alti e bassi…»
Agastya stava attraversando a gran velocità l’entroterra, e adesso sapeva cos’erano quei puntini. Il treno si fermò senza una ragione apparente subito fuori Ratlam. Si vedevano pezzetti di città. Quel vecchio e pomposo edificio con la bandiera poteva essere la sede del governo distrettuale, pensò, e la cadente casa grigia quella del giudice distrettuale, e quel rudere forse il Club di Ratlam. Quegli edifici sorgevano nella parte più tranquilla della città, che forse chiamavano Civil Lines; a duecento metri da loro oziava pigramente in un clima torpido una vita della quale loro e i loro inquilini non erano consapevoli… il mondo dei panwala e dei bottegai e dei ciabattini e dei guidatori di risciò; che a loro volta avrebbero acquistato la consapevolezza di un mondo più grande solo quando si fossero fermati a un passaggio a livello a veder passare i treni… alcuni pitturati di arancione e crema.
Kumar si era portato la cena; o meglio, alcuni dei suoi sottoposti avevano rispettosamente messo insieme al bagaglio pacchetti e contenitori di cibo. «Non ci si può fidare del cibo delle ferrovie indiane, ah no» disse Kumar aprendone due o tre. «Quei ragazzi…» Sorrise e scosse la testa con affetto e ingordigia nel vedere il banchetto. «Pensano proprio che mangi come un maiale.» Poi lui e Agastya si misero a mangiare come maiali. «Si crede che il cibo indiano faccia molto male alla salute, hain, Sen? Un mucchio d’olio e peperoncino… Ma cos’è la vita senza le spezie, yaar? A casa mangia forse cibo inglese, tutto bollito e al forno? No, no, mi ricordo, lei mangia pesce come un bungaali.» Dopo che si furono riempiti la pancia Kumar chiese: «Con chi abita a Delhi? Da solo?».
«No, con uno zio.»
«E quando suo padre andrà in pensione? Dev’essersi costruito una casa da qualche parte.»
«No, abbiamo una specie di casa di famiglia in Bengala, a Calcutta. Un bel posto, a mio padre piace molto.» Poi masticarono pan masala e Agastya si fumò un altro spinello.
La notte dormì a tratti, afflitto dalla sua mente anarchica. Il ritmo profondo del treno sotto di lui sembrava il respiro di una grande bestia insensibile, sul punto di risvegliarsi, ma assolutamente remota. La ventola dell’aria condizionata era proprio sopra la sua testa. Quasi quasi sperava di prendere un’infreddatura, perché il disagio del corpo soffocasse l’inquietudine della mente.
Sei di mattina, le città satellite industriali di Delhi, la cui bruttezza non era attenuata neppure dalla luce del mattino. Ma in esse Agastya intuiva il pulsare, che risuonava più forte ogni minuto, di una grande città. Uscì dallo scompartimento e andò alla porta del vagone per catturare la frescura mattutina, e regalò alle ciminiere delle fabbriche e ai depositi una grazia a essi del tutto estranea. Aveva provato spesso quella sensazione prima di allora, e l’aveva sempre riempito di eccitazione, quel sentimento della megalopoli; era stata più acuta sorvolando Calcutta qualche mese prima, col sole morente dietro l’ala sinistra dell’aereo e un bagliore arancione che si diffondeva sulla tristezza brunastra della grande città. Il treno continuava la sua corsa sbatacchiando. Odori tipici della megalopoli, di gas di scarico e liquami troppo abbondanti per le fogne cittadine; scorci della megalopoli: baracche e casupole, ma certe sovrastate dalle antenne della tivù, e milioni di persone in movimento verso una qualche meta.
Nessuna delegazione di galoppini attendeva Kumar e Agastya alla stazione di Delhi. Profumi di tè e pakora, la folla che lentamente si distribuiva in gruppi omogenei, voci di campagnoli che discutevano con i coolie, Kumar con il broncio. «Questi tizi sono degli irresponsabili. Non si può nemmeno telefonare.» Non si dava più tanta importanza; senza il suo seguito sembrava un qualsiasi viaggiatore grasso e sudicio. Agastya ricordò la strana sensazione che l’aveva preso vedendo Srivastav e Kumar sulla strada di Madna, mentre camminavano verso il camion parcheggiato male; gli erano sembrati insicuri e come rattrappiti. Aspettarono un po’, benché Agastya fosse ansioso di andarsene. Alla fine: «Okay, Sen, andiamo. Prenderemo un taxi, e lei mi farà scendere lungo strada.»
Al posteggio attesero pazientemente mentre un gruppo di teppisti si litigavano i taxi. Il vincitore sembrava un dacoit del fiume Chambal, la magrezza che smentiva i baffi mostruosi, la voce che vinceva ogni opposizione. «Il Nord dell’India è tutto così rozzo» piagnucolò Kumar mentre il taxi si faceva strada di prepotenza fra i risciò. «Lo conosco, ci sono cresciuto in queste città. A Madna, non so se l’ha notato, la gente è molto più civile, più disponibile.»
Le vie ampie e pulite di South Delhi, con un traffico che forse stonava con il lifting che la città aveva subito grazie ai Giochi asiatici. Ma Agastya era contento, a dispetto della sicurezza che ripartire gli avrebbe procurato dolore. Non aveva ricordi di Delhi che si potessero definire propriamente felici; sapeva solo che lì non era mai stato infelice, e questo bastava. Forse aveva solo nostalgia del passato in un presente scomodo e aveva dimenticato le sue piccole infelicità, sedotto da esso solo perché non poteva più controllarlo.
Kumar fece fermare il taxi in un vicolo interno di uno dei quartieri più antichi di South Delhi. Il tassista scese per togliere dal baule un paio di valige.
«Quant’è?» chiese Kumar.
Agastya fece un finto tentativo di protesta: «Lo pago io, signore, quando arrivo a casa».
«Arré, non posso permettere che un subalterno paghi per me, hain, bhai… Quanto?»
«Cinquanta rupie» disse il tassista grattandosi le palle ed esaminandosi le unghie.
«Cos’ha detto, hain? Cinquanta rupie!» Seguì una lunga discussione. «Cinquanta rupie!… Cos’hai nella testa, hain? Perché non prendi una pistola e ci rapini? Sarebbe più semplice per te… maledetto dacoit… Il tuo dannato tassametro segna venticinque, e dovrebbero essere venti…» Agastya voleva solo che Kumar la piantasse. La disonestà dei tassisti e dei guidatori di risciò di tutte le città del Nord era senza pari, quasi proverbiale. Mentre Kumar faceva la sua tirata, il tassista sbadigliò, scatarrò, si accese una sigaretta e manifestò la sua noia in qualche altro modo. «Tu non sai chi sono io, io sono un sovrintendente di polizia, un funzionario Ips, che è come dire un funzionario Ias…»
A questo punto, del tutto inaspettatamente, il tassista, guardando Kumar con gli occhi arrossati e socchiusi, si slacciò il pajama, si prese il cazzo in mano e disse: «Questo è quello che penso dei tizi del governo».
La prima reazione di Agastya fu di mettersi a ridere; sorprendentemente fu anche quella di Kumar. Dimostrando un certo buonsenso, aveva capito di non essere a Madna alle prese con un camionista in torto. Poi Kumar tornò serio e chiese all’autista di allacciarsi i calzoni e di aspettare mentre lui chiamava la polizia. «Sen, scarichi i suoi bagagli dall’auto» intimò, e salì al primo piano di una casa.
Agastya disse al tassista: «Non avresti dovuto farlo. Non è bello mostrare il cazzo al primo venuto. Quel grassone è davvero un sovrintendente di polizia, e adesso ti fotterà».
Il tassista risalì in macchina. «Digli di pulircisi il culo con le sue cinquanta rupie» e se ne andò.
Kumar comparve sulla veranda. Sembrava che nessuno, a quel piano, conoscesse il numero del più vicino posto di polizia. Agastya gli diede il numero del taxi e si avviò a piedi verso la via principale. «Arrivederci, Sen» disse Kumar dalla veranda. «Ci vediamo a Madna.» Suonava strano.
«Il treno era in ritardo?» Quando Agastya arrivò al cancello suo zio, in dhoti e kurta, contemplava il prato stando in piedi al centro di esso.
«Ciao, Kaku! No, ho dovuto dare un passaggio a un idiota.»
Parthiv Sen era uno scapolo sulla sessantina. Faceva il giornalista freelance del tipo sospetto: nessuno sapeva come riuscisse a vivere così agiatamente. Dhrubo sosteneva che fosse un agente della Cia. Era eccentrico tanto quanto si addiceva alla sua condizione. Scriveva un paio di pagine di pedanti analisi politiche per qualche rivista bengalese e inglese. Riusciva a estrarre stupefacenti genealogie dall’avvenimento politico più banale. L’abilità, come aveva più volte spiegato al nipote, era nascondere il significato sotto la verbosità. Dieci anni prima, in un’oscura università americana, aveva frequentato un corso di Relazioni Internazionali e Giornalismo del Terzo Mondo, o qualcosa del genere, un corso molto americano (che gli era stato utile, per cui dopo suo zio aveva odiato tutte le università indiane perché non lo fornivano, tutte le università americane per la ragione opposta, e anche ogni tanto se stesso, per averlo trovato utile), in un posto chiamato Rapidwater o Flowingbrook; dopodiché aveva iniziato a scrivere sul casino della politica indiana per oscuri giornali americani. Oscurità e disapprovazione sembravano il suo terreno ideale. La casa era sua, costruita circa trent’anni prima con i soldi lasciati dal nonno di Agastya. «Dada ha telefonato qualche giorno fa e c’è una sua lettera che ti aspetta.» Dada, ossia fratello maggiore, era il padre di Agastya. «Non hai fatto colazione, vero?»
Il domestico garhwali, un adolescente allegro, fece la sua comparsa, disse namasté e portò via la borsa di Agastya. Tra una cosa e l’altra, Agastya aveva trascorso quasi sei anni in quella casa. Quando era all’ostello del college passava i fine settimana con suo zio, e poi si era fermato tutto l’ultimo anno. La casa aveva tre camere da letto ed era molto semplice, ma ad Agastya piaceva perché gli era familiare. Il domestico cucinava bene. Cose semplici, buon cibo, il prato ombreggiato da nim, jacarande e gulmohar, una lussureggiante buganvillea gialla fuori dalla finestra della sua camera che dava a est; a Madna la sua ambizione era diventata di aggrapparsi a quelle semplici cose.
«Cos’è questa stupidaggine che vuoi lasciare lo Ias e vuoi che Tonic ti dia un lavoro?» Agastya portò fuori due sedie dalla veranda. Sorrise per l’approccio diretto dello zio, che faceva parte della sua eccentricità. «Allora Baba deve esserti sembrato preoccupato al telefono» disse.
Si sedettero. Un intero lato della casa era fiancheggiato da una fila di eucalipti vecchi di trent’anni. «Non sono molto felice a Madna. Non riesco ad adattarmi al lavoro…» Sorrise vergognandosi. Suo zio era un uomo delicato dalla pelle chiara, con il naso grande e piccoli occhi bruni. Non disse niente, ma guardò Agastya con disgusto, come per invitarlo a parlare, a difendersi e a giustificarsi. «Naturalmente non c’è niente di definitivo. Sono in una specie di stato fluido, inquieto.» Si agitò sulla sedia. «Non voglio sfide o responsabilità o altro, voglio solo essere felice…» Si interruppe imbarazzato. Sembrava una cosa terribile da dire. Nella mite luce autunnale, Madna sembrava lontana anni luce, ma lui sapeva che sarebbe tornata, magari quando faceva buio e tutte le volte che si fosse ritrovato da solo. Sembrava irreale e tuttavia accessibile, un viaggio sonnambulo di diciotto ore. Avrebbe voluto dire di più, ma non sapeva da dove iniziare. Avrebbe voluto dire: guarda, io non voglio il paradiso, o nessuna delle cose effimere come il potere o la gloria, voglio solo questo, questo momento, questo sole, l’auto nel garage, lo stereo nella mia camera. Queste volgari cose materiali, potrei far durare questo per sempre. Quando coltivo qualche desiderio più elevato, serve solo ad alimentare pigre fantasie: Vienna e Hong Kong, e le perversioni di Bangkok. Questo piccolo mondo placido, qui e adesso, è sufficiente, dove il successo consiste nel veder fiorire i rajanigandha che hai piantato. Non ambisco all’estasi; pensa al futuro, mi dirai, ma i decenni a venire impallidiscono di fronte a questo istante, la lunghezza della mia vita è meno importante della sua qualità. Voglio stare seduto qui, sotto questo sole delizioso, e cercare di non pensare, di sfuggire l’inquietudine sbagliata della mia mente. Capisci? C’è qualcuno che comprenda l’assenza di ambizione, o l’ambizione per la semplicità?
«E poi perché Tonic? Tonic è un idiota. Vuoi lasciare un buon lavoro per lavorare in una casa editrice? Redazionare manoscritti sulle forme di danza indiane e le popolazioni tribali di Chhota Nagpur?» (Tonic era un secondo cugino, che con grande mancanza di tatto aveva rifiutato di pubblicare una raccolta di articoli di Pultukaku su qualcosa come Il rinnovamento indiano.) Il domestico uscì e annunciò che la colazione era pronta. Agastya aprì la lettera di suo padre.
Caro Ogu,
sono rimasto un po’ sorpreso dalla tua ultima lettera, ma ho fatto come desideravi. La tua decisione ha sorpreso anche Tonic. Il suo commento è stato: «Ecco cosa succede a vivere in una città senza sapere com’è il resto dell’India», o qualcosa di simile. Credo che Tonic abbia esagerato, come al solito. Tuttavia è vero che finora hai condotto una vita comoda da grande città, a Delhi e a Calcutta, una vita in cui amici e abitudini sono largamente occidentalizzati. Durante il nostro ultimo incontro ti ho detto che il tuo lavoro sarebbe stato un’esperienza immensamente arricchente. Intendevo dire, attraverso il contatto con un diverso tipo di ambiente. Madna ti ha fornito una prospettiva per considerare Delhi e Calcutta, deve avertela data. A me è accaduto quando ero nel Konkan, quarant’anni fa. Ma immagino che le mie reazioni siano state diverse dalle tue. Dopo il collegio della presidenza, il Konkan fu una meravigliosa sorpresa. Ma mi sto ripetendo. Ti ho già detto tutto questo l’ultima volta che sei venuto a Calcutta. Al momento Madna potrà sembrarti uggiosa, e la vita forse inquietante, ma non decidere di lasciare il lavoro solo per questa ragione. Ogu, non scegliere la via più facile solo perché è più facile, non ci si può realizzare pienamente in questo modo. Ma è anche vero che la vita è tua, e le decisioni dovrai prenderle tu. Basta con le prediche. Cerca di vedere presto Tonic, così la prossima volta che telefono a Pultu mi dici com’è andato l’incontro.
Con affetto
Baba
«Ha telefonato anche Tonic, ieri sera» disse suo zio. «Volava sapere se eri arrivato.» Agastya andò in camera sua, per rilassarsi e disfare i bagagli. Una volta era stato felice, o almeno così credev...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. BUR
  3. Frontespizio
  4. Dedica
  5. Fuori dal finestrino c’era la
  6. Con il treno più veloce
  7. L’amministrazione dei distretti in India
  8. Tutta quella trasmissione di saggezza
  9. Alle undici il palazzo del
  10. L’abitazione riservata al governatore e
  11. Era inevitabile che la vita
  12. «Telefono per lei, signore» annunci
  13. Potrei parlare con Mr. Bajaj
  14. Poi a Madna arrivarono le
  15. Un’oscura festività locale. «Lei si
  16. Il giorno del picnic. Dovevano
  17. L’assegnazione temporanea alla polizia iniziò
  18. Finalmente in partenza per Delhi
  19. E poi eccolo di nuovo
  20. Alle otto meno un quarto
  21. Agastya era diretto all’ufficio del
  22. Come un’attrazione che veniva da
  23. Per i tre giorni successivi
  24. «Allora» chiese Bajaj «come sta
  25. Le nove e mezzo del
  26. Un giorno imprecisato durante la
  27. Il tramonto. La foresta si
  28. «Si sentiva sempre più
  29. I mesi che gli restavano
  30. Si svegliò presto, alle sei
  31. Rutti a base di carne
  32. Glossario
  33. Postfazione
  34. Indice