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RE PER UN GIORNO
«A New York. Il presente è tanto potente
che il passato è perduto.»
JOHN JAY CHAPMAN
Dalle 22,30 di venerdì alle 15,30 di sabato
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Voleva soltanto dormire.
L’aereo era atterrato con due ore di ritardo e c’era stata un’attesa infinita per i bagagli. E poi l’autonoleggio aveva fatto casino: la limousine se n’era andata un’ora prima. E così, ora stavano aspettando un taxi.
Lei era in fila con gli altri passeggeri, il corpo snello piegato in avanti per il peso del computer portatile. John sproloquiava qualcosa sui tassi di interesse e su nuovi modi possibili di rinegoziare l’accordo, ma tutto ciò a cui lei riusciva a pensare era: Sono le dieci e mezzo di venerdì sera. Voglio mettermi in tuta e buttarmi sul letto.
Gli occhi fissi sulla fiumana senza fine di taxi gialli. Qualcosa, nel colore e nella somiglianza delle automobili tra loro, le ricordava gli insetti. E rabbrividì alla sensazione di fastidio che le tornò in mente, un ricordo della sua infanzia sulle montagne, quando lei e il fratello si imbattevano in un tasso sventrato da qualche animale o scalciavano un nido di formiche rosse e rimanevano a osservare attoniti la massa umida di corpi e zampette brulicanti.
T.J. Colfax avanzò stancamente quando il taxi accostò e si fermò accanto alla banchina di attesa con uno stridio di freni.
Il tassista aprì il bagagliaio, ma rimase in macchina. Avrebbero dovuto caricarsi da soli le valigie, cosa che mandò John su tutte le furie. Era abituato ad avere gente che faceva le cose al suo posto. A Tammie Jean non importava: di tanto in tanto, riusciva ancora a sorprendersi di avere una segretaria che le scriveva al computer le lettere e le archiviava i documenti. Buttò la valigetta nel bagagliaio, chiuse il portello e salì in macchina.
John entrò dopo di lei, sbatté la porta e si tamponò la faccia rotondetta e la testa semicalva come se lo sforzo di infilare la sacca da viaggio nel bagagliaio gli avesse esaurito le forze.
«Prima fermata alla Settantaduesima Est» borbottò John attraverso il divisorio.
«Poi nell’Upper West Side» aggiunse T.J. Il pannello di plexiglas tra i sedili posteriori e quelli anteriori era piuttosto rigato, e T.J. riusciva a malapena a vedere il tassista.
La macchina partì rapidamente e poco dopo si immise sull’autostrada verso Manhattan.
«Guarda» disse John, «ecco perché c’è tutta questa folla.»
Stava indicando un cartellone pubblicitario che dava il benvenuto ai delegati per la conferenza di pace delle Nazioni Unite, che sarebbe iniziata lunedì. Ci sarebbero stati diecimila visitatori in città . T.J. alzò lo sguardo verso il manifesto: bianchi, neri e asiatici che sorridevano e salutavano con la mano. C’era qualcosa che non andava nel disegno, però. Le proporzioni e i colori erano sbagliati. E le facce sembravano tutte smorte.
«Ultracorpi» mormorò T.J.
Stavano percorrendo a velocità sostenuta l’ampia autostrada a quattro corsie che risplendeva di un giallo innaturale sotto le luci dei lampioni. Oltre il vecchio cantiere navale, oltre i moli di Brooklyn.
Alla fine John smise di parlare, prese il suo Texas Instruments e cominciò a macinare cifre sulla tastiera. T.J. si rilassò contro lo schienale, osservando i marciapiedi fumosi e i volti imbronciati delle persone sedute sulle verande delle case di arenaria prospicienti l’autostrada. Nel calore, le facce sembravano semicomatose.
Faceva caldo anche nel taxi, e T.J. allungò una mano verso il pulsante che abbassava il finestrino. Non fu affatto sorpresa di scoprire che non funzionava. Si voltò dalla parte di John. Anche quello era rotto. In quel momento, si accorse che mancavano anche i fermi delle portiere.
E anche le maniglie.
La sua mano scivolò lungo la portiera, tastando in cerca della maniglia. Niente. Come se qualcuno l’avesse tagliata via con una sega elettrica.
«Cosa c’è?» domandò John.
«Be’, le portiere… come le apriamo?»
John stava guardando i pomelli mancanti quando il cartello per il Midtown Tunnel sfrecciò accanto ai finestrini.
«Ehi!» John batté con forza sul divisorio di plexiglas. «Ha saltato l’uscita. Dove sta andando?»
«Forse ha intenzione di passare per il Queensboro» suggerì T.J. Prendendo il ponte di Queensboro si allungava la strada, ma si evitava anche il pedaggio del tunnel. La donna si sporse in avanti e bussò sul divisorio, servendosi dell’anello.
«Vuole fare il ponte?»
Il tassista li ignorò.
«Ehi!»
E, un istante dopo, superarono a gran velocità l’uscita per il Queensboro.
«Merda» gridò John. «Dove ci stai portando?» Poi si rivolse a T.J. «Harlem. Scommetto che ci sta conducendo a Harlem.»
T.J. guardò fuori dal finestrino. Una macchina procedeva parallelamente al taxi in una lenta manovra di sorpasso. Picchiò forte sul vetro.
«Aiuto!» gridò. «Per favore…»
Il guidatore della macchina la guardò una volta, poi di nuovo, corrugando la fronte perplesso. Rallentò e si fermò dietro di loro, ma, con un violento scossone, il taxi imboccò una rampa di uscita nel Queens, svoltò in una stradina e accelerò in una zona di magazzini deserti. Non doveva andare a meno di novanta chilometri orari.
«Che cosa sta facendo?»
T.J. picchiò di nuovo sul divisorio. «Rallenti, maledizione. Dove diavolo…?»
«Oh, Dio, no» borbottò John. «Guarda.»
Il tassista aveva indossato un passamontagna.
«Che cosa vuole?» gridò T.J.
«Soldi? Ti daremo i soldi. Tanti.»
Dal sedile anteriore ancora silenzio.
T.J. aprì la borsa da viaggio e tirò fuori il suo portatile nero. Lo sollevò e sbatté con forza l’angolo del computer contro il finestrino. Il vetro tenne, anche se il rumore parve spaventare a morte il tassista. Il taxi sbandò ed evitò di pochi centimetri il muro dell’edificio che stavano oltrepassando.
«Soldi! Quanti? Posso farti avere un sacco di soldi!» sbottò John; lacrime di paura gli scorrevano sulle guance grassocce.
T.J. picchiò ancora sul vetro del finestrino con il portatile. Lo schermo volò via nell’impatto, ma il finestrino rimase intatto.
Tentò ancora una volta, e il corpo del computer si aprì in due e le cadde dalle mani.
«Oh, merda…»
Il taxi inchiodò, mandandoli a sbattere violentemente contro il divisorio, e si fermò in un vicolo cieco male illuminato.
L’uomo scese dall’auto, con una pistola in mano.
«Ti prego, no» implorò lei.
L’uomo si avvicinò alla parte posteriore del taxi e si chinò, sbirciando dal finestrino bisunto. Rimase lì per un lunghissimo istante, mentre T.J. e John si ritraevano dalla parte opposta, schiacciandosi contro la portiera, i corpi sudati premuti l’uno contro l’altro.
Il tassista giunse le mani a coppa per ripararsi gli occhi dal bagliore dei lampioni e li scrutò attentamente.
Uno schianto improvviso risuonò nell’aria e T.J. sussultò. John emise un grido soffocato.
Alle spalle del tassista, il cielo si era riempito di strisce infuocate rosse e blu. Altri tonfi e sibili. L’uomo si voltò: un enorme ragno arancione sovrastava la città .
Fuochi d’artificio, ricordò T.J. L’aveva letto da qualche parte sul «Times». Un regalo del sindaco e del segretario generale delle Nazioni Unite per i delegati della conferenza di pace, per dar loro il benvenuto nella città più grande del mondo.
L’uomo tornò a voltarsi verso il taxi. Con uno scatto secco, tirò la maniglia e aprì lentamente la portiera.
La telefonata era stata anonima. Come al solito.
Quindi non c’era modo di controllare per cercare di capire a quale area fabbricabile si riferisse il DA. La centrale aveva comunicato via radio: «Ha detto alla Trentasettesima, dalle parti dell’Undicesima. Nient’altro».
I Denuncianti anonimi non erano certo famosi per fornire informazioni dettagliate sulle scene dei delitti.
Già sudata nonostante fossero soltanto le nove del mattino, Amelia Sachs si fece largo in una chiazza di erba alta. Stava effettuando una ricerca a striscia – come la chiamavano quelli del «luogo del delitto» – seguendo un percorso a esse. Nulla. Chinò la testa verso il microfono agganciato alla casacca blu della sua uniforme.
«Qui Portatile cinque-otto-otto-cinque. Centrale, non riesco a trovare niente. Avete altre informazioni?»
Preceduto da una scarica di elettricità statica, l’addetto alle chiamate rispose: «Non c’è altro sul luogo, cinque-otto-otto-cinque. Ma c’è una cosa… il DA ha detto che sperava che la vittima fosse morta. Passo».
«Ripeti, centrale.»
«Il DA ha detto che sperava che la vittima fosse morta. Per il suo bene. Passo.»
«Passo.»
Sperava che la vittima fosse morta?
Sachs oltrepassò una catena metallica e si mise a perlustrare un’altra area deserta. Niente.
Voleva andarsene. Dichiarare un 10-90, delitto non trovato, e tornare alla Deuce. Le dolevano le ginocchia e aveva un caldo d’inferno con quel pidocchioso clima di agosto. Desiderava soltanto infilarsi sul Port Authority, passare un po’ di tempo con i ragazzi e bersi una bella lattina di tè freddo. Poi, alle undici e mezzo – a meno di due ore di distanza – avrebbe svuotato il suo armadietto al distretto di Midtown South e sarebbe andata in centro per la lezione di addestramento.
Ma non poteva ignorare la chiamata. Continuò ad avanzare: lungo l’asfalto caldo del marciapiede, nello stretto passaggio tra due edifici abbandonati, attraverso un altro campo pieno di erbacce.
Infilò l’indice destro sotto il berretto a visiera e si grattò furiosamente la testa. Il sudore le colava sulla fronte, solleticandola mentre si grattava anche un sopracciglio.
Le mie ultime due ore sulla strada. Posso anche farcela, pensò.
Mentre si inoltrava tra le erbacce, avvertì la prima sensazione di disagio di quella mattina.
Qualcuno mi sta osservando.
Il vento caldo frusciava tra la sterpaglia secca e automobili e camion sfrecciavano rumorosamente da e verso il Lincoln Tunnel. Amelia pensò quello che spesso passa per la mente agli agenti di pattuglia: Questa città è così dannatamente rumorosa che qualcuno potrebbe arrivarmi tranquillamente alle spalle, a distanza di coltellata, e io non me ne accorgerei nemmeno.
Oppure puntare un mirino sulla mia schiena…
Si voltò di scatto.
Soltanto foglie, macchinari arrugginiti e abbondante spazzatura.
Si arrampicò su un cumulo di pietre con una smorfia di dolore. Amelia Sachs, trentunenne – a malapena trentunenne, avrebbe detto sua madre –, era tormentata dall’artrite. Ereditata da suo nonno, con la stessa lampante chiarezza con cui aveva ricevuto la corporatura flessuosa di sua madre e il bell’aspetto e la carriera di suo padre (nessuno aveva mai capito da dove avesse preso i capelli rossi). Un’altra fitta di dolore la trafisse quando si issò oltre un’alta cortina di cespugli morenti. Per pura fortuna si fermò a un passo da uno strapiombo di dieci metri.
Sotto di lei c’era un canyon in penombra, tagliato profondamente nel suolo del West Side. Lì correvano le rotaie della Amtrak per i treni diretti verso nord.
Strizzò le palpebre, guardando la base del canyon non lontano dal letto delle rotaie.
E quello che cos’è?
Un cerchio di terra smossa, con un piccolo ramo d’albero che fuoriusciva dalla sommità ? Sembrava…
Oh, mio Dio…
Rabbrividì. Sentì la nausea montarle nello stomaco, bruciandole la pelle come una fiammata. Con uno sforzo riuscì a mettere a tacere quella minuscola parte di sé che voleva voltarsi dall’altra parte e fingere di non aver visto nulla.
Sperava che la vittima fosse morta. Per il suo bene.
Corse verso una scaletta di ferro che scendeva dal marciapiede alle rotaie. Fece per allungare una ma...