Capitolo uno
Il ragazzo di strada
«Antonio, guarda in fondo alla strada. Papà sta arrivando con un macchinone» grida mio fratello Gianluca.
«Mamma mia come è bella. Tutta azzurra, tutta cromata… I raggi del sole ci battono sopra e tornano indietro» dico a mia madre con gli occhi che brillano per la gioia. Papà Cosimo, Cosimino per gli amici, è a bordo di una Fiat 131 fiammante. Dev’essere il suo ultimo acquisto, lui noleggia auto. Ogni volta che torna a casa con una macchina nuova si fa festa. Solo che di solito si tratta di auto piccole. Alla fine degli anni Settanta la gente ha pochi soldi da spendere e le utilitarie consumano meno. Però chi si deve sposare chiede a mio padre qualcosa di diverso.
«Cosimino, il matrimonio è un giorno speciale e ci vuole un’auto speciale. Che ci facciamo con la 600?» E Cosimino provvede. Ecco il perché della 131.
Quando arriva a pochi metri dalla casa, papà tira fuori la mano sinistra dal finestrino e ci fa un gesto. Ci invita a salire.
«Facciamo un giro, così la provate anche voi.»
Gli amici della palazzina si sono radunati in cortile e fanno da cornice alla 131 come se fosse la star di un grande evento. Tutti la sfiorano, ci infilano dentro la testa per guardare gli accessori.
«Hai visto i sedili come sono?»
«Bella, bellissima.» La meraviglia gira di bocca in bocca.
Ma Cosimino ha fretta: «Dai, ragazzi, fate salire la mia famiglia così partiamo». No, non andiamo a fare un tour della città, solo un giro attorno all’isolato. Altrimenti si spreca benzina.
«Papà, accelera!» diciamo io e mio fratello per provare il potente motore della 131. Cosimino scuote la testa: «Ragazzi, state calmi. Non è che la dobbiamo sfasciare subito. È nuova, mi serve per i matrimoni».
In via Casanello, a Lecce, oggi ribattezzata via Parini, trascorro gli anni della mia infanzia. Ricordo tutto e tutti: i colori della casa, le facce dei miei amici, mia zia Teresa – sorella di mia madre –, mia nonna. E i miei due fratelli: Gianluca, che ha tre anni meno di me e che oggi studia gli avversari che andiamo via via ad affrontare; e Daniele, il piccolo di casa, che mi sono portato dietro a Torino quando aveva sedici anni e provava anche lui a diventare calciatore. Oggi ne ha trentuno, lavora in banca e mi aiuta a gestire gli aspetti economici della mia professione.
Al pianterreno zia Teresa la fa da padrona. Mia madre Ada ha una piccola stanza dove fa la sarta. È molto brava, fa persino gli abiti da sposa. Noi abitiamo al primo piano ma, quando siamo a casa, soggiorniamo giù perché mia mamma lavora lì.
Nella mia famiglia non si dà peso al denaro, tanto ce n’è poco. Ma non ci manca niente. Io passo tutta la roba che non metto più a mio fratello Gianluca che, a sua volta, poi la passerà a Daniele. Sono tempi in cui non ti cambi tutti i giorni, ti vesti il lunedì e vai avanti fino a domenica. Insomma, abiti e magliette sono gli stessi per una settimana. Da bambino sudi, stai in strada, ti impolveri, ti stropicci, magari ti procuri qualche strappetto qui e là. Nessun problema. Mia madre cuce e rattoppa e soprattutto, ogni sera, ci sottopone al famoso bagno nella pila.
«Forza ragazzi, dentro!» è il segnale che ormai conosciamo a memoria. Prima di andare a letto mettiamo i pigiami sulla vecchia stufa perché in casa fa molto freddo. Peccato che questi pigiami si bruciano regolarmente perché non li togliamo dal fuoco in tempo. Ma ce li mettiamo lo stesso, mezzi bruciacchiati, per evitare le sgridate di mamma. Così il pigiamotto cambia colore, macchiato da patacche nere. Che ridere! Be’, fino a quando non ci scoprono e lì casca tutto.
«Disgraziati, cos’avete fatto?» urla mia madre. La sequenza successiva è un classico: sculacciate e ceffoni, quando ci prende, poi cucchiaio di legno e battipanni. Insomma, quando combiniamo qualcosa ci insegue per tutta la casa.
«Non posso più usare le mani, mi faccio male» ripete. Ultimo stadio: minaccia di raccontare tutto a Cosimino. Quando lo fa, la scena serale è quasi sempre la stessa. D’altronde ogni giorno finisco per fare a cazzotti con qualcuno; vivendo molto in strada è inevitabile, ma a mamma Ada non sfugge nulla e, quando non mi becca direttamente lei, qualche amico di famiglia si esercita nelle soffiate: «Guarda che tuo figlio ha partecipato a una rissa, se le sono date di santa ragione». Negare poi è difficile, i segni con cui mi presento a casa spesso sono ben visibili.
«Cosa hai fatto? Cosa sono questi graffi sul collo e sulla faccia?»
Mia madre vuole spiegazioni e quando si accorge che racconto bugie dice tutto a papà. Divento matto. Dalle 7 alle 9 di sera (ora in cui rincasa mio padre) la imploro di non dirgli nulla. Con tutta la mia capacità di persuasione, prometto ogni cosa. È l’unico momento in cui la temo veramente. Le sue botte non mi fanno male più di tanto, ma di mio padre arrabbiato ho molta più paura.
«Mamma non lo faccio più, credimi.» Mi inginocchio per essere più credibile ma lei è inflessibile: «Ah sì, l’hai detto già, l’hai detto già. Non ti credo».
Non ho molto tempo per pensare alla strategia da adottare. Mangio in fretta e corro a letto, così papà penserà che sto dormendo. Oserà svegliarmi? Molto probabile, ma quella è l’unica soluzione che mi viene in mente. Dalla camera da letto accosto le orecchie alla porta per sentire il resoconto che gli sta facendo mia madre. Dettagliato. Minuzioso. Senza sconti. Come solo le mamme sanno fare quando sono inviperite e preoccupate nello stesso tempo. Rischio di non farla franca. Dallo spiraglio della porta socchiusa vedo mio padre che si avvicina, entra nella stanza, accende la luce e tira via la coperta. Non tento di fuggire. Peggiorerei soltanto la situazione. E se poi si arrabbia di più? La tattica funziona sempre. Mio padre si avvicina e mi chiede se voglio “assaggiare” la cinghia. Io non mi muovo, non parlo e dopo un po’, evidentemente intenerito, Cosimino si allontana ripetendomi: «La prossima volta non te la scampi».
Senza le regole dettate dai miei genitori, stare in strada sarebbe pericoloso. E io, fino ai dodici anni, ci sto tantissimo. La strada è casa nostra. Mia e dei miei amici. Ci sono poche auto in giro, giochiamo a calcio dalla mattina alla sera. Gli alberi fungono da porte e la partita può cominciare. Ogni tanto sbuca un’auto e qualcuno avverte: «Oooh, palla ferma… ci stanno le macchine». Con me ci sono sempre Francesco e Betta, i figli dei nostri vicini di casa. Lui è perfetto perché è l’unico del gruppo a cui piace stare in porta. Betta è molto simpatica, si trova meglio a giocare con noi maschietti che con le altre bambine. Un giorno ci guardiamo negli occhi e ci scambiamo un bacetto. Un gesto tenero e senza malizia, come avviene tra ragazzini di otto anni.
Fin quando restiamo nei dintorni di casa, godiamo di una specie di immunità. Le nostre sono tutte famiglie senza tanti soldi ma anche senza grilli per la testa. Rigide. Severe nell’educazione dei più piccoli, come se si fossero scambiate la parola. Ci danno un occhio a turno, non c’è un accordo preciso tra gli adulti ma sentiamo di non essere mai soli.
La strada è il nostro campo da calcio, ma anche il nostro campo da tennis… Tutto. Ogni tanto, per cambiare un po’, tracciamo con il gesso una linea bianca sull’asfalto. Io faccio Borg, un altro si spaccia per McEnroe, anche se sappiamo tenere a malapena la racchetta in mano. Ogni giorno ci inventiamo una cosa diversa. Giochiamo con le biglie da mandare in buca. O con i giornalini, con le carte, a fruscio e primiera. Altre volte andiamo in giro a cercare i tappi di bottiglia dei quali facciamo collezione. Una vera mania. Spesso finisce a mazzate anche per i tappi. Succede quando uno arriva prima dell’altro con un tappo di bitter Campari o dell’acqua San Pellegrino. Una posta piuttosto bassa.
Giocare è tanto, ma non è tutto. C’è la scuola. A cinque anni, strano a dirsi per un bambino di strada, piango e batto i piedi: «Mamma, voglio andare in prima elementare, non voglio più aspettare». La stresso tutti i giorni fino a quando lei non comincia a fare il giro degli istituti per capire dove organizzano la primina. Non mi prende nessuno eccetto un istituto del centro storico, il “De Amicis”, nel quartiere della Chiesa Greca. Su cento bambini, novanta sono scapestrati. Mia madre mi avverte di stare attento. Io vado senza paura ma effettivamente l’inizio è difficile. I miei compagni di banco invece dei quaderni si portano il “mollettone”: un coltello che quando schiacci fa tlac ed esce una lama gigantesca. E lo girano sul banco con il dito a mo’ di bottiglia. Sfidano gli adulti, vogliono dimostrare di essere più grandi di loro. La maestra Turchiuli s’impegna, fa il possibile, ma vive nella preoccupazione. In questa scuola non c’è posto per una donna che desidera insegnare qualcosa ai ragazzi; meglio un’assistente sociale, visto il parterre. La Turchiuli una volta rimprovera Cesare, un mio compagno di classe. E questo che fa? Prende un banco e lo butta giù in giardino! Se passa qualcuno, lo ammazza.
Al “De Amicis” studio veramente poco. A un certo punto vado da mia madre e le dico: «Senti, io devo cambiare scuola. Qui non imparo un bel niente. E non è colpa della maestra Turchiuli…». La situazione è così a rischio che all’uscita ci vengono a prendere sempre i genitori, per evitare che nel tragitto scuola-casa succeda qualcosa. Una volta, mentre siamo in classe, sentiamo sparare e una coltre di fumogeni avvolge tutto l’edificio. Una retata della polizia.
Resisto qualche anno, poi mia madre si convince che lì non tira buona aria. Capisce che ho ragione a voler andare via e mi iscrive alla “Cesare Battisti”, un istituto molto tradizionale in un quartiere tranquillo. Un trauma. Compagni nuovi, maestra nuova, tutto nuovo. Ormai sono in quinta elementare. L’insegnante comincia a parlare di analisi grammaticale: l’articolo determinativo maschile… Mi dico: «Oddio, che cos’è questa roba? Alla vecchia scuola non abbiamo studiato nessuna grammatica…». Mi rendo conto che sono a digiuno. La maestra pensa che io fino a quel momento non abbia studiato nulla e non ha tutti i torti, anche se in realtà ce l’ho messa tutta. Mi guarda con occhio severo. Faccio fatica, soprattutto in italiano. Un giorno mi dà un tema da fare a casa: “Le mie vacanze ideali”. L’insegnante me lo fa rifare dieci volte. Diventa matta perché uso il termine “comodose” per descrivere le sedie della nave da crociera di cui parlo nel tema. Mi lascio ingannare dalla pubblicità della Fiat Uno che ho visto in tv: «È comodosa, è chiccosa, è risparmiosa». Insomma, non so che fare. Sono in difficoltà. Arrivare all’appena sufficiente è un miracolo. Oscillo sempre tra mediocre e più che mediocre. Mi tocca fare cinque anni in uno, tipo Cepu delle elementari.
L’esame riesco a superarlo a stento, poi mi iscrivo alla scuola media “Quinto Ennio”. Il primo anno partecipo ai Giochi della Gioventù e primeggio in tutte le specialità. Le gare si svolgono in un’area dove normalmente fanno le corse dei cavalli. Prima della partenza della corsa campestre il prof di ginnastica ci suggerisce: «Non siate minchioni. Se partite sparati, non arrivate più». Io scatto come una saetta a duemila all’ora. Dopo due giri vomito, perché al mattino ho mangiato pesantissimo. Sono morto ma arrivo ugualmente primo.
I tre anni alle medie sono un periodo bellissimo e tutte le esperienze che fai in quegli anni chiave, te le ritrovi poi nel cuore, nell’anima e nella testa. Se hai un’educazione forte distingui il bene dal male, altrimenti sei fottuto. Io ho un’educazione forte: riesco a vedere il male senza finirci dentro, evitando di fare sciocchezze irreparabili.
Intanto, ovviamente, gioco a calcio. Faccio parte della Juventina Lecce, la società di cui mio padre è presidente e tuttofare. Il nome della squadra sembra già anticipare il mio destino. Non solo. A dieci anni partecipo a un concorso indetto da un quotidiano locale: “Disegna il tuo calciatore preferito”. Armato di carta e matita, scelgo Roberto Bettega.
Ci alleniamo proprio alla Chiesa Greca, una zona che per esperienza conosco bene, al vecchio stadio “Carlo Pranzo”. Oltre a noi della Juventina ci sono la Grassi Lecce, la Pro Patria, la Mec. Un viavai di ragazzi, e non sempre degli stinchi di santo. Quando mi alleno devo guardarmi intorno. Arrivo sempre con un pantalone vecchio. Quello nuovo ce l’ho ma non lo porto. Quante volte qualcuno ha pensato bene di sfoggiare al campo una maglietta appena comprata e, alla fine dell’allenamento, se n’è dovuto tornare a casa a torso nudo! Hai un motorino? Meglio farne a meno. Hai una bicicletta nuova? Lasciala a casa. E quante volte i miei amici hanno dovuto chiamare il padre: «Sono a piedi, mi hanno rubato la bici!». L’ambiente è difficile. Capita che durante una partita o un allenamento il mister sgridi i ragazzi che fanno di testa propria o che non si allenano bene. E come reagiscono questi tipi? Si lamentano e imprecano…
L’unico di cui hanno soggezione è mio padre. Lui è sempre stato il terrore assoluto per i ragazzi e al “Carlo Pranzo” c’è bisogno di una figura autorevole. Quando Cosimino arriva nello spogliatoio, nessuno fiata. Una volta entra mentre ci stiamo cambiando dopo un allenamento e trova praticamente una piscina. Il pavimento è un pantano. Perché? Perché il mio amico Sandro ha appena tappato la doccia con la mano per innaffiare tutta la stanza, dalle panche al soffitto. Guardo mio padre e sbianco per la paura. Quando scopre una bravata del genere, il primo ceffone è per me, anche se non c’entro.
«Nessuno deve dire che ti tratto in maniera diversa perché sei mio figlio. Dunque, se succede qualcosa, la colpa è anche tua.» Bah. A me non sembra tanto giusto. Qualche volta provo a replicare: «Papà, ma io non ho fatto niente, non c’entro!».
«Non importa, lo schiaffo te lo prendi lo stesso.»
Questa cosa fa sghignazzare tutti i miei compagni. «Noi ci prendiamo le mazzate ma la prima botta la prendi tu» mi dicono sempre.
Cosimino guarda lo spogliatoio allagato ed è furente. Penso: “Ora le prendo”. Tra l’altro siamo lì in tre, io, Sandro e un altro ragazzo, perciò le possibilità sono più alte del solito. Invece lui prende per un orecchio Sandro, lo solleva su un piccolo banco che chissà lì dentro come ci era arrivato, e inizia a rimproverarlo.
Mio padre non ha paura di questi ragazzi né delle loro famiglie ma è conscio che, se qualche mio compagno andasse a lamentarsi a casa per un eventuale ceffone ricevuto, potrebbero esserci conseguenze. Però Cosimino è sempre vissuto qui, conosce tutti. La gente sa che è severo nell’educare i giovani, con me ancora di più, ma gli è grata perché contribuisce a impartire sane regole di vita a noi ragazzi. Cosimino gestisce la Juventina da solo. Fa l’allenatore, il magazziniere, il dirigente, prepara il tè per i giocatori (con limone e tanto zucchero). Non si è scelto di certo un compito facile in quell’ambiente, eppure a volte si toglie il pane, per tenere la sua Juventina.
Viviamo in un contesto fatto anche di personaggi al limite, pieni di soldi, mentre io non ho mai una lira in tasca. Non vado al cinema, tanto che resta nella storia la volta che, con mia zia e mia madre, andiamo a vedere King Kong. Mai una pizza. Mai soldi per uscire con gli amici. Non mi manca niente, ma è dura andare in giro sempre con le tasche vuote. Capisco le esigenze della famiglia e il valore del denaro, ma per un ragazzino di tredici-quattordici anni ce ne vuole a digerirla del tutto.
Un altro esempio? Le Big Babol. Un vero incubo. Da un pezzo la tv ci bombarda con la pubblicità di questo nuovo chewing-gum. Vedo passare i miei coetanei che fanno i palloncini mentre le masticano, ma io non posso comprarle. Come fare ad assaggiarle? Un bel giorno viene da me un amico, Paolo, un perticone che gioca anche lui a calcio: «Ho i soldi e voglio comprarmi le Big Babol. Se mi accompagni al Bar Adriano, te ne do una».
«Caro Paolo, ti accompagnerei anche se mi chiedessi di andarle a comprare a dodici chilometri da qui.» E sfodero un sorriso a mille denti. Così andiamo al bar, lui compra un pacchetto di Big Babol e me ne dà una. Ne scarta un’altra e se la mette tutta intera in bocca. Sono tentato di fare la stessa cosa ma poi rifletto: così questo momento durerà solo quaranta minuti, fino a che non andrà via il sapore. No, deve durare di più. Quindi la mia Big Babol me la mangio a rate: sei o sette pezzettini. Naturalmente così perde la sua funzione, non riesco a fare un palloncino che sia uno!
Gli unici vizi me li conquisto con il nonno (che mi offre le pastiglie Valda, quelle nelle scatole di metallo dorate), la zia e la nonna. Con loro vado a mangiare le “pippette” alla Pasticceria Monica. Sono dei dolci prelibati, una specialità leccese. La nonna mi coccola ma è un tipo tosto, la zia invece è una seconda mamma e mi copre di regali. Per lei sono il figlio che non ha avuto.
Il vero inizio della mia carriera da calciatore è segnato dal passaggio dalla Juventina al Lecce, insieme con il mio amico Sandro. Il primo ad accorgersi di me è Pantaleo Corvino, direttore sportivo di varie società professionistiche. Ai tempi seguiva le giovanili della Gioventù Vernole, una squadra ricca e con un vivaio molto forte, tanto da fare concorrenza al Lecce. Corvino domanda a mio padre se io e Sandro possiamo sostenere un provino con loro e Cosimino esclama: «Antonio, tu non vai da nessuna parte! Devi studiare».
Lo imploro: «Papà, intanto lasciami andare a fare il provino, poi vediamo. Non è neppure detto che mi prendano!».
Alla fine Cosimino si convince. Nella trattativa si inserisce il Lecce, con una proposta migliore per tutti. Così il provino lo andiamo a fare per il Lecce al Delta San Donato, un campo con l’erba. Io, in tredici anni appena compiuti, non ne ho mai visto uno: fino a quel momento ho sempre giocato sulla terra battuta o sul cemento. Supero il provino, il Lecce è pronto ad accogliermi, resta un ultimo ostacolo: papà. Lo imploro a mani giunte: «Ti prego! Non ti preoccupare, continuerò a studiare, e se non andrò bene a scuola smetterò di giocare!». Una vera e propria scena strappalacrime. Ma che, alla fine, ottiene soprattutto il consenso di Cosimino. La trattativa può cominciare. Da pres...