1983-2009
Teheran-Torino
Teheran, 1988
Quando rispose al telefono e udì la sua voce, sentì un tuffo al cuore. L’uomo non disse chi era, disse solo da dove chiamava. Ma lei aveva già capito. C’erano urla lontane e soffocate nella durezza della sua voce. Le disse di andare in prigione a prendere le cose che erano appartenute a suo marito. Lei riagganciò in silenzio e poi gridò così forte da far tremare i vetri.
Non vedeva il marito da mesi. Le visite erano state cancellate senza preavviso. Nessuno sapeva niente e tutti temevano il peggio. Alcuni conoscenti erano andati in carcere a trovare un famigliare e si erano visti consegnare un sacchetto con i suoi effetti personali. Perché quella persona non era più lì.
Non era più da nessuna parte.
C’era un foglio di carta sulla scrivania. All’inizio se ne stava lì e basta, innocuo. Ma poi cominciava a parlare. In silenzio, parlava di morte.
Le guardie li costringevano a scrivere con mano tremante:
Mio marito non è da nessuna parte.
Mia moglie non è da nessuna parte.
Mio figlio, mia figlia non è da nessuna parte.
In questo modo la morte veniva consegnata ai parenti. Su un foglio di carta, con un sacchetto riempito a metà di frammenti di vita e la richiesta di qualche firma.
Le dissero che era stata fortunata. Non tutti ricevevano una telefonata a casa. Era stata fortunata, perché l’avevano informata in anticipo del fatto che era morto.
Ma lei non si sentiva fortunata. Si sentiva vuota come una caverna.
Quel giorno tenne la morte per sé. Sedette tra i vestiti di suo marito sparsi sul letto. Non riusciva a muoversi, era come se il suo corpo si fosse addormentato. La notte si coricò tra quei vestiti. Sentiva l’odore di lui sulla camicia e si disperava; sentiva l’odore di lui, gridava il suo nome e lo malediceva. Era arrabbiata, così arrabbiata che, se fosse stato lì, lo avrebbe picchiato con le sue mani.
Nel cuore della notte sentì qualcuno che piangeva nella stanza accanto. Fu come il suono di una sveglia. Aprì gli occhi. La camicia del marito sotto di lei era bagnata di lacrime, quasi che il suo volto si fosse liquefatto nella stoffa. Puntò le braccia per sollevare il peso del corpo e trascinarsi nell’altra stanza, dove sua figlia singhiozzava disperata. L’abbracciò, sussurrando «Ssst», accarezzandole dolcemente la schiena. Ma in realtà , era se stessa che voleva calmare, che voleva tranquillizzare. La leggerezza del corpo della bambina la intimidiva, e la fragilità di quel pianto inconsolabile.
In quel momento decise che non avrebbe raccontato alla bambina come era morto suo padre. A qualunque costo, non avrebbe permesso che sua figlia venisse a conoscenza di quel dolore. Non le importava essere costretta a inventare bugie, a custodire segreti. Sapeva solo che doveva addomesticare la Storia, salvaguardare sua figlia, proteggerla dietro mura di ferro che non lasciassero trapelare il sangue. Si adagiò il corpicino della bambina sulle gambe e la cullò dolcemente finché entrambe non si addormentarono.
Probabilmente era la desolazione nei suoi occhi a tacitare chiunque, come per magia. Nessuno osava contraddirla o cercare di farle cambiare idea, tranne la madre di suo marito. Convincerla ad accettare la sua decisione non fu facile. La donna insisteva che era una barbarie. Che la bambina doveva sapere come erano andate davvero le cose. O sarà come se venisse ucciso una seconda volta. Che l’anima del figlio non avrebbe mai trovato pace, e il suo corpo si sarebbe rivoltato nella tomba.
«Fallo per lui» diceva. «Fallo per la sua memoria.»
Forse lei avrebbe dovuto provare a spiegarsi, usare più tatto. Ma il tatto in quel momento non era il suo forte. Era piena di rabbia.
«Non farò proprio niente per lui!» aveva gridato, tremante di collera. «È lui che è in debito con me! Mi deve la felicità che mi ha promesso. Ha fatto in modo che ci credessi, e poi non ha mantenuto la promessa. Mi ha tradito. Ha tradito sua figlia. Non gli permetterò di portarmela via. Ha distrutto tutto quello che avevo!»
La madre di suo marito piangeva. Aveva perso un figlio, il suo unico figlio.
Avrebbe dovuto essere meno crudele.
La madre di suo marito non si arrese mai, continuò a sperare che le sue labbra sigillate si schiudessero. Quando la madre di suo marito morì, lei scrisse alla figlia una lettera in cui confessava tutto e la nascose nel sudario della morta. La lettera fu sepolta insieme al corpo.
Torino, 2009
Non c’è quasi nessuno in aeroporto. La fila al controllo di sicurezza è breve e scorre rapida. Maryam vorrebbe girarsi a guardare verso la vetrata, ma l’agente le porge una vaschetta azzurra. Lei vi posa dentro la borsa, la giacca e la carta d’imbarco. Lo guarda. L’uomo ha la fronte sporgente e gli occhi che sembrano due lenticchie.
«Le scarpe» dice indicandole i piedi.
Anche le scarpe! Si china, rossa in viso per l’imbarazzo. Scioglie i lacci e con cautela posa a terra i piedi, non più protetti, come se si trovasse su un campo minato. Camminando sul pavimento freddo e lucido passa attraverso il metal detector. L’allarme suona implacabile. Maryam allarga le braccia davanti a una ragazza dai capelli rossi che, non trovandole addosso niente di pericoloso o sospetto, la lascia andare con un ultimo bip del congegno che impugna.
Maryam si volta, scrutando la folla oltre la barriera di vetro, e vede Sheida che alza una mano. Sembra giovanissima con quel vestito bianco, il viso delicato dichiara tutta la sua vulnerabilità . Maryam ingoia un nodo di parole e lacrime abortite e risponde al saluto. Le pare di vedere un luccichio nello sguardo di sua figlia, ma Sheida è lontana, e lei non è sicura che si tratti davvero di lacrime e non di un semplice riflesso nelle sue iridi nere.
Si allontana dal metal detector e dalle sue stridule grida di allarme, dalla parete di vetro, e da Sheida al di là di essa. Cammina davanti a una serie di negozi di vestiti, di souvenir e duty-free. All’interno i commessi ciondolano senza sapere che fare, perché l’aeroporto è mezzo vuoto. Raggiunge il suo gate e con un sospiro si lascia cadere sul sedile giallo. È stanca e le fa male la schiena. Posa tutto sul sedile accanto e intreccia le mani come in attesa di una benedizione, circonfusa da un pallido alone di tristezza.
Da bambina, Sheida piangeva ogni volta che Maryam si allontanava da lei. Adesso Sheida piange di rado, anche quando sono due continenti a separarle. Maryam vorrebbe vedere Sheida piangere. Si augura di non essersi sbagliata riguardo a quel luccichio nei suoi occhi. Le lacrime di sua figlia le sarebbero di conforto. Non ha nient’altro a cui aggrapparsi. Eppure l’immagine di quelle lacrime è più liquida e scivolosa delle lacrime stesse.
Prende un fazzoletto di carta dalla borsa per asciugarsi il sudore dal labbro. Da qualche tempo c’è qualcosa che non va nel loro rapporto. Ha la sensazione che sia diventato distante, che l’antica intimità sia stata rimpiazzata da una sorta di affetto cordiale. Ha l’impressione che Sheida non le dica tutto. Elude le sue domande con una risatina, si scuote le sue preoccupazioni di dosso come un albero lascia cadere le foglie morte. Ma cosa si aspetta, Maryam? Non può certo sperare di esserle vicina come quando tutte e due erano in Iran. Sarebbe ingenuo da parte di Maryam. Sheida è un’adulta ormai, non più una bambina, e vive in un altro Paese. In fondo, è stata Maryam a portarla in Italia.
Non è stato facile.
Maryam aveva aspettato il visto per anni. Già una volta avevano respinto la pratica perché la sorella di Maryam, che viveva in Italia e aveva inoltrato la richiesta a nome loro, aveva avuto problemi col conto in banca. Maryam non si era lasciata scoraggiare. Aveva continuato a sperare, a insistere con la sorella, a mettere da parte i soldi; finché, quando Sheida aveva quasi diciassette anni, il visto era finalmente arrivato.
Nel corso di tutti quegli anni di attesa, Maryam aveva coltivato la convinzione che, se solo fossero riuscite a oltrepassare il confine, sarebbero state entrambe al sicuro. Che portare sua figlia lontano era l’unico modo per proteggerla dal passato, dalla morte, dal sangue; che via dall’Iran avrebbero potuto vivere in pace, che la felicità di Sheida sarebbe stata garantita e ogni cosa più facile. Ma l’impulsività di Maryam complicava le cose. La faceva soffrire. I suoi desideri finivano sempre per ingarbugliarsi. Le sue decisioni le si ritorcevano contro. Una volta, quando Sheida aveva quindici anni, Maryam aveva minacciato di ucciderla se lei avesse osato abbandonarla. Questo era stato prima di lasciare l’Iran, prima che lei partisse e lasciasse sua figlia in un altro Paese. Non aveva pensato che la morte di Amir avrebbe potuto inseguirla, che avrebbe potuto inseguire entrambe tanto lontano. Ma poi si era resa conto che i ricordi erano più forti della sua volontà di andare avanti. Una parte di lei era ancora in quel cimitero, a marcire insieme al corpo senza vita di suo marito. Ogni notte, nel suo piccolo appartamento di Torino, di fronte alla piazza con il suo bell’affresco settecentesco della Madonna col bambino, Maryam sognava il cimitero che non aveva visitato ma che era diventato un’inquietante visione notturna. Non aveva mai avuto simili incubi prima, nemmeno i primi tempi. Maryam soffriva lontana da quella prigione, da quel cimitero. Aveva bisogno di stare vicina ad Amir. Non poteva lasciarlo solo in quella terra ostile, doveva tornare da lui.
Stava forse anteponendo l’amore per il marito a quello per la figlia? Le sue esigenze di vedova ai suoi doveri di madre? Queste domande la tormentavano notte dopo notte. Maryam aveva perso consistenza il giorno in cui aveva saputo della morte di Amir. Era diventata la caricatura di se stessa. E per quanto si sforzasse, per quanto ogni volta si rialzasse con la ferma determinazione a non cadere mai più, per quanto ce la mettesse tutta per essere la madre forte di cui sua figlia aveva bisogno, non faceva che incespicare. Era stanca. La vita l’aveva sconfitta da molto tempo. Negli ultimi anni aveva annaspato, niente di più. Non ce la faceva a combattere ancora. L’unico modo per sopravvivere era stare vicina a lui. Senza Amir, senza il passato, lei sarebbe crollata. Non aveva scelta, doveva salvare il mondo da cui proveniva.
Quando erano in Italia ormai da quattro anni, e lei si sentiva sicura della stabilità del lavoro di Sheida in libreria e del fatto che fosse in grado di badare a se stessa, Maryam aveva deciso di tornare in Iran. Sheida era rimasta. Non voleva tornare. Maryam aveva lasciato Sheida in quella città fredda ed enigmatica ai piedi delle Alpi, pensando, sperando che il collante che le teneva unite non sarebbe mai venuto meno.
Ma ora teme che Sheida sia cresciuta a sua insaputa, che il collante si sia seccato. Non è colpa di Sheida. Ha solo ubbidito ai piani di Maryam. Ha assecondato i desideri di sua madre. Non è Sheida quella che se n’è andata.
Maryam apre le mani e si alza. Va in bagno e se le lava con cura, come faceva sempre sua madre. Insapona due volte, coprendo di schiuma ogni centimetro. Passa la mano tre volte sotto l’acqua. Sotto l’acqua e poi via, sotto e via, e ancora sotto e via. Poi l’altra mano. È come fare le abluzioni. Una voce anonima annuncia l’imbarco imminente. Maryam raccoglie in fretta le sue cose, si asciuga le mani ed esce di corsa dal bagno.
Sheida indugia dietro la vetrata. Maryam se n’è andata, ma Sheida non riesce a staccarsi di lì. È come quando stava seduta a gambe incrociate a contare i pesci sul tappeto argento e blu di sua nonna, e le gambe le si addormentavano. Il suo corpo si rifiuta di muoversi. Come se non le appartenesse.
È un pomeriggio caldo e nuvoloso. Il parcheggio davanti all’aeroporto è sprofondato in una nuvola d’afa che l’aggredisce appena esce dalla sala climatizzata, si attorciglia attorno alle sue braccia, alle gambe, al suo abito bianco, e poi attorno alle spalle e al collo, fasciandola come uno spesso asciugamano bagnato.
L’autobus per Torino è pieno dei visi stravolti e polverosi dei viaggiatori. Sheida si lascia cadere su un sedile in fondo, vicino al finestrino. L’autista fa scattare la porta che si chiude con un fruscio, soffiando fuori l’aria. L’autobus lentamente si mette in marcia.
Oggi è il suo giorno libero. Di solito Sheida ha tante cose da fare, sbrigare commissioni, vedere gli amici, ma oggi non ha voglia di niente. La partenza di sua madre le ha lasciato un senso di vuoto. Vorrebbe trovare una via di fuga da questa giornata, dalla necessità di attraversarla, di viverla. Premere il pulsante, mandare avanti il nastro e hop, la giornata non c’è più. Ah, come sarebbe bello! pensa. Vorrebbe tornare a casa, mettere la testa sotto il cuscino e svegliarsi a giorno finito.
Sarà notte quando Maryam atterrerà nel chiassoso aeroporto di Teheran. Il pensiero, il ricordo ormai eroso di quell’aeroporto rende Sheida inquieta. Sono passati anni dalla sua ultima visita in Iran. Ha smesso di andarci senza sapere bene nemmeno lei il perché. Forse era troppo impegnata a vivere.
La strada attraversa le pianure verdi che si stendono ai piedi delle Alpi e sfumano nel cupo cielo bagnato. Le nuvole grigie incombono, così basse che alzando una mano Sheida riuscirebbe a farle a pezzi, strappando ciuffo dopo ciuffo.
Di colpo le torna in mente sua madre in ginocchio che si toglie le scarpe. Piccolissima, quasi una bambina. È ciò che diventa ogni volta che viene a trovarla: una bambina. Come nei primi quattro anni trascorsi insieme in Italia. La sua solidità si era dissolta. Il suo abituale vigore, la sua autorità erano svaniti, e doveva sempre essere Sheida a decidere dove andare, cosa fare, cosa mangiare. Maryam era diventata un’altra persona, quasi infantile. Sono passati tanti anni e Sheida non si è ancora abituata a questa nuova versione così poco attraente di sua madre.
L’autobus si intrufola nella scacchiera delle vie della città . I palazzi barocchi gialli e rosa pallido si stagliano sullo sfondo di nuvole flaccide. Sheida scende all’altezza del Po, che serpeggia nel centro di Torino separandola dalle colline. Ferma sul ponte, guarda il fiume scorrere dolcemente sotto i suoi piedi. Dai vasi di terracotta sul parapetto spuntano fiori rosa e viola. Trae un respiro profondo, e i polmoni si riempiono dell’odore dell’acqua verde e delle foglie bagnate degli alberi antichi che costeggiano il fiume.
Una volta a casa, la prima cosa che fa è accendere la radio. La musica si diffonde nel piccolo soggiorno dalle pareti color crema, con le tende bianche e le locandine di film senza cornice appese al muro. Si toglie le scarpe, getta la borsa sul divano e apre la finestra. Nel lavandino c’è un una tazza mezza piena di tè con l’impronta delle labbra di sua madre sul bordo. Vi aleggia intorno il suo profumo.
La sua dirimpettaia sgrida i figli senza pietà . Le sue urla riverberano nel cortile e irrompono nella stanza. Sheida alza il volume della radio per soffocare quelle grida isteriche e penetranti.
Maryam non l’ha mai sgridata. Maryam non ha mai alzato la voce.
In mezzo alla stanza, ascoltando la musica, col corpo indolenzito dentro e fuori immutato, Sheida comincia a ballare. Oscilla con leggerezza, a ritmo costante, come se stesse cercando di trovare il suo equilibrio. La canzone si fa più concitata e lei si muove a tempo. Salta sul pavimento e pesta i piedi sul tappeto. Spalanca le braccia nello spazio che vibra per la musica e le urla e il profumo di gelsomino di sua madre che indugia nell’aria. Il seno pesante rimbalza su e giù, trascinando con sé il vestito. È scatenata, agita le braccia e le gambe come se cercasse di liberarsi da una camicia di forza. Le guance cominciano a bruciarle per l’afflusso di sangue e per le lacrime che scorrono silenziose. Più salta, più le lacrime scorrono veloci. I suoi singhiozzi rotolano dentro alla canzone, sciolgono le parole in un miscuglio di suoni incomprensibili, gutturali.
Sua madre non è felice. Non lo è mai stata. La strategia del silenzio non ha funzionato. Ha reso tutto più difficile da sopportare. Le parole non dette, insidiose come ...