La fine del giorno
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La fine del giorno

Un diario

  1. 180 pagine
  2. Italian
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La fine del giorno

Un diario

Informazioni su questo libro

Il sesso nell'epoca della sua riproducibilità tecnica – ovvero del Viagra e della giovinezza artificiale. È il tema della breve opera a cui sta lavorando P., in un autoironico gioco intellettuale, quando arriva il fulmine che sconvolge la sua vita: alla compagna, Silvia, viene diagnosticato un tumore non operabile. I quindici mesi che seguono sono un corpo a corpo spossante con la malattia, che ribalta priorità, ruoli, senso. Gli inevitabili, temporanei cedimenti alla disperazione non fiaccano la resistenza coraggiosa di Silvia, che assapora con avidità straziante momenti e sensazioni quotidiani: una passeggiata, una cena con gli amici, un film, una mostra. Fino all'ultimo dei suoi giorni. E mentre P. si confronta con l'universo simbolico e reale della malattia, teso tra scienza e pensiero magico, sprazzi dell'abbandonata ricerca sul sesso si intromettono nei suoi pensieri. Tormentandolo con la frivolezza del dramma estetico dell'invecchiare male mentre Silvia fa i conti con un destino ben più crudele: non poter invecchiare affatto. Dal cortocircuito tra queste due dimensioni, dallo scandalo di questa vicinanza indicibile, eppure inevitabile, tra sesso e morte nasce questo libro. Un diario intimo, un dono sorprendente di pagine autobiografiche intessute con il respiro di un romanzo, che si situa nel solco di una grande tradizione letteraria, con echi di Philip Roth e Martin Amis. In quest'opera singolare, che cattura il lettore e lo accompagna tra le pieghe meno confessabili del pensiero, Pierluigi Battista si confronta con un nodo cruciale della contemporaneità la tensione tra desiderio e pensiero della fine, tra narcisismo e accettazione del limite. Ed esplora con lucidità appassionata la realtà inesorabile della perdita e la profondità dell'amore.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2013
Print ISBN
9788817064507

1

Nati sotto il segno del Cancro








P. ricordava con esattezza millimetrica ogni momento di quel mattino della diagnosi che aveva condannato Silvia: come la sequenza di un film riprodotta e scrutata un milione di volte alla moviola, fotogramma dopo fotogramma. In sala d’aspetto lei era molto nervosa e sfogliava macchinalmente le riviste accatastate su un tavolino. La tormentava quel nuovo nodulo al seno di cui c’erano da scoprire entità e natura. Ci voleva la risonanza magnetica. Poi sarebbe seguito l’esame dell’ago aspirato. Ci si aggrappava ancora alla verosimile speranza che quella piccola pallina, al tatto così liscia e perfettamente tonda, fosse di natura benigna. Poco probabile, ma non impossibile. Silvia aveva compiuto cinquantadue anni cinque giorni prima. Alla vigilia del suo compleanno, la mammografia aveva dato l’allarme. In previsione della diagnosi peggiore, P. si era già messo in contatto con Milano, dove i tumori al seno, dicevano tutti, sono trattati con eccezionale competenza. Era molto inquieto, le notti rese interminabili dall’insonnia, ma il compito che si era assegnato era di tranquillizzarla (proposito vano, purtroppo). Per i suoi cinquantadue anni avevano programmato da tempo un altro viaggio a Parigi, in un albergo del Marais, non lontano dalla casa di Ritanna e Sergio da cui si sente il trambusto vivace della strada stretta e popolosa e che sta proprio sopra un ristorante ebraico dove servono i falafel più buoni del mondo. Non erano partiti con la stessa leggerezza di altre occasioni. Di solito a Parigi amavano passeggiare per ore, fino allo sfinimento. Oppure, alla ricerca di una scusa plausibile per sedersi un po’, facevano i turisti su un battello lungo la Senna. Stavolta Silvia, che pure aveva camminato tutta la mattina per non mancare il consueto appuntamento con il mercatino di Porte de Vanves, si stava stancando in modo insolito e durante la giornata voleva tornare spesso in albergo per riposare. Però era loquace come sempre, impaziente di usare la sua nuova macchina fotografica. Trascinò tutti a una mostra di André Kertész al Jeu de Paume, e in una bella libreria di Rue de Rivoli acquistò l’ennesimo volumone fotografico su Parigi. Come una fame ingorda di immagini. Da scattare, da consultare, da sfogliare, da includere in un nuovo file del computer. Del nodulo al seno, almeno con P., non voleva parlare. Si comportava come ci si comporta normalmente a cinquantadue anni, immaginando di averne ancora tanti davanti a sé. E a ogni albergo carino che incrociavano, prima scattava una foto della facciata e poi entrava per farsi dare il biglietto da visita per le future prenotazioni.
Prendeva la cosa del nodulo con ironia sdrammatizzante. E quando la sera doveva inghiottire la compressa che Anna, sua amica e suo medico, le aveva prescritto come extrema ratio ottimistica prima degli esami definitivi (per testare l’effetto che eventualmente avrebbe fatto: magari non era un tumore, magari), non mancava di manifestare il proprio disincanto, calcando su un romanesco sardonico e caricaturale: «E famose st’artro po’ di cura Di Bella». Lo sberleffo era la sua arma segreta e visto che P. si voleva occupare dei nuovi vecchi nella letteratura e nel cinema, nel mezzo di un corteo sindacale di protesta contro la riforma delle pensioni di Sarkozy immortalò nei pressi della piazza della Bastiglia P. e Sergio che chiacchieravano, mentre un ragazzino dall’aria assai sveglia passava davanti con un cartello dove c’era scritto: «Les vieux à la retraite». Provocava: bene, voleva dire che era ancora in forma. Sull’aereo che li riportava a Roma, Silvia e P. trascorsero un paio d’ore in silenzio. Sapevano molto bene che i giorni successivi sarebbero stati difficili e carichi di tensione. Immaginavano una cosa brutta. Non, però, la cosa più brutta che c’è.
Silvia era già da una decina di minuti dentro la sala della risonanza magnetica, quando P. vide il radiologo e il suo vice uscire precipitosamente con volti pallidi e contratti. Era stata rilevata una «estesa ombra» sul polmone destro e volevano chiedergli d’urgenza il consenso per una Tac. Gli dissero anche di chiamare subito il medico di famiglia perché indirizzasse Silvia da qualche specialista: «Il mondo dell’oncologia è un mondo a parte». Il «mondo a parte» dell’oncologia? Una «estesa ombra»? Un tumore al polmone? Al polmone non ci avevano pensato. Pensavano a un pericolo grave ma circoscritto, diciamo ragionevolmente «guaribile», e di dover capire al massimo se si trattasse di un tumore benigno o maligno e se fossero stati contaminati i linfonodi, il che sarebbe stato un guaio vero. Ma adesso il quadro si faceva apocalittico. P. sentì montare un’angoscia indicibile, senza respiro, una sensazione di stordimento mai provata prima. Voleva vedere Silvia. Si domandava che cosa stesse pensando là dentro, infilata in un tubo opprimente e rimbombante di rumori sinistri, e se stesse morendo di paura, frastornata, senza comprendere bene le ragioni di quell’urgente supplemento di indagini. Il cellulare non prendeva, ma lui aveva la gola serrata, non avrebbe saputo dir nulla. Ancora qualche minuto e il radiologo uscì di nuovo. Cominciò a parlare con rapidità prima che Silvia avesse finito di rivestirsi: «Sua moglie sta molto male. Veda lei come dirglielo. C’è una grossa lesione al polmone destro e un processo metastatico già molto diffuso». Lui reagì d’istinto, fingendo di non capire o sperando di non aver capito: «Lesione?». «Tumore.» «Operabile?» Il medico scosse la testa, costernato: «Temo proprio di no, ma non voglio dire cose azzardate. Non mi competono. Chieda all’oncologo». «Inoperabile», nel gergo medico-oncologico significa più o meno «spacciato», inutile girarci intorno. Si infranse la speranza di non aver capito e il cuore di P. andò in pezzi.
Fu in quel momento che uscì Silvia. P. non l’aveva mai vista così stravolta, invasa dall’ansia. «Che è successo? Che cosa ho? Che cos’è quella faccia?» Lui raccolse tutte le forze che aveva per dirle la verità. Ma sentiva che non ce l’avrebbe fatta da solo e che per edulcorare troppo la tragica realtà, per evitare di renderla atrocemente definitiva, avrebbe inscenato in modo controproducente una commedia degli inganni davvero fuori luogo. Perciò diede al medico l’incombenza di fare il lavoro «sporco» e di comunicarle, secondo prassi, l’esito dell’esame. Fu un errore. Vedendo che le cose stavano prendendo una piega psicologica devastante, P. decise di tornare sulla sua decisione e cercò goffamente di intervenire per aggiustarle nel modo migliore. Per non pronunciare con un sovrappiù di crudeltà una condanna a morte. Per renderle più delicato l’impatto con la verità. Michel Onfray, uno scrittore francese che peraltro P. non aveva mai amato, dopo aver vissuto un’esperienza simile con sua moglie, ha descritto così il momento in cui gli venne scaraventato addosso un verdetto tanto duro e inappellabile: «Un fulmine mi avrebbe spaccato di meno in due». Ecco, non fu un fulmine. Fu più di un fulmine. P. sentiva il suo mondo deflagrare. Ma il centro della catastrofe era lei, destinataria inerme di un messaggio terribile. Era a lei che avevano annunciato la morte. Ed era il suo sguardo, in quel preciso istante, a provocargli un dolore inaudito. Non poteva immaginare che si potesse soffrire tanto come lei, palesemente, stava soffrendo in quegli attimi, ammutolita dallo sgomento. Stava cominciando per Silvia «la deportazione ferma e gentile dal paese dei sani oltre il desolato confine della terra della malattia», come ha scritto, con dolente autoironia, Christopher Hitchens. Le avevano appena consegnato il passaporto per entrare in questa terra senza biglietto di ritorno. Da quel momento cos’altro avrebbe potuto fare P., se non tentare di non lasciarla mai più sola, fino alla fine del suo giorno nel mondo dei vivi?
«No, scusa, spiegami meglio questa storia dei vecchi porci nell’èra del Viagra.» P. si era stupito molto (la malattia era ancora lontana) dell’imprevisto interesse di Silvia per le sue elucubrazioni. Da sempre vigeva infatti tra di loro un regime di collaudatissima separazione delle carriere, senza confusione e contaminazioni. Lui non metteva becco sulla forma delle sedie Adirondack che Silvia costruiva con una cura maniacale del dettaglio. Né sul tipo di legno usato, sui colori da mischiare, o sulle sue tecniche fotografiche. Lei, in compenso, non leggeva pressoché nulla delle cose che P. scriveva sui giornali e nei libri. C’è chi, campando di scrittura e dotato di un Ego smisurato (le due cose sono spesso intrecciate), potrebbe sentirsi oltraggiato da una così macroscopica manifestazione di disinteresse. Non era disinteresse, bensì premurosa delimitazione delle rispettive sfere. Anzi, P. sentiva che questa delicata assenza di impulsi intrusivi, equamente bilaterale, aveva reso più forte il loro legame. Vedeva molte, troppe coppie di giornalisti (e scrittori) che si parlavano addosso, e che si usavano reciprocamente come specchio. O addirittura come platea acclamante in formato famigliare.
Silvia invece rivendicava una filosofia di vita distinta dall’universo spesso fittizio o artificiale della comunicazione giornalistica e, a ricasco, delle sue non sempre limpide relazioni umane. E gli garantiva così l’ancoraggio a un mondo più «vero», o comunque lontano dall’autocombustione talvolta isterica che soffoca, con l’apparenza di elettrizzarlo, quello delle redazioni e dell’editoria in genere. Senza contare il benefico effetto di ridimensionamento ironico del super-narcisismo di cui la professione di P. era, e resta, fucina inesauribile. Per la verità, in un paio di occasioni a P. era venuto il sospetto che quel distacco non fosse così granitico. Nel corso di un’accesa discussione non si ricordava su che cosa, per contraddirlo lei gli disse: «Ma se una volta l’hai anche scritto». E lui: «Scusa, quale volta?». Non ci fu risposta: ma forse era solo un mugugno retroattivo, oppure si confondeva con una cosa sentita e non letta. Fu un episodio isolato.
Quella singolare abitudine era andata avanti per tanti anni, con risultati apprezzabili da ambo le parti, e perciò P. fu incuriosito dalla sua improvvisa richiesta di precisazioni. Ma dopo aver cercato di spiegarle meglio la cosa, lei tornò a raccomandarsi con una certa apprensione, più o meno con questo ragionamento: «Stai attento, davvero. Capisco la tua intenzione. Capisco che ti piaccia sproloquiare sulle cose del sesso come fai nelle telefonate con Paolo, che quando usciranno le intercettazioni, non illuderti, io ti lascerò dopo neanche un minuto, ma bada che in questo genere di cose è facile oltrepassare la soglia. Sei su un terreno minato, la nomea di “vecchio porco” è sempre in agguato. E che figura ci fai e, se permetti, ci faccio di conseguenza anche io, se quello che vuoi scrivere viene preso come il riflesso autobiografico di un cinquantenne in crisi?». Il suo consiglio, per la verità, suonava quasi come un rimprovero preventivo. Ma insomma, precauzioni a parte, alla fine il suo era pur sempre un semaforo verde. Meno male. E meno male che, per addolcire il clima, dopo la severa esortazione al ritegno, Silvia cominciò a canticchiare, stonata come sempre, un passaggio famoso della Città vecchia di Fabrizio De André, una delle sue, delle loro, canzoni preferite: «… diecimila lire, per sentirsi dire, micio bello e bamboccio-one». Un passaggio memorabile in cui protagonista è il solito vecchio moralista e molto ipocrita: «Vecchio professore, cosa vai cercando in quel portone, / forse quella che sola ti può dare una lezione, / quella che di giorno chiami con disprezzo pubblica moglie…». Ecco, era la prova che Silvia aveva capito. Grazie per la comprensione.
In realtà P. faceva un po’ fatica a spiegare quale fosse il baricentro del suo progetto. Ma ci provò. Le disse, cercando di non apparire pedante, che il vertiginoso aumento delle aspettative di vita, di cui tutti parlano come di un’ovvietà, stava incendiando la mente di una quantità immensa di maschi sul viale del tramonto, finalmente galvanizzati dalla verosimile prospettiva di ancora tanti anni intensi e pieni di brio erotizzante, ossia da trascorrere senza doversi mettere da parte e rassegnarsi al destino dell’ospizio, o del «volpino ai giardinetti» (come temeva Lucio Colletti). E fin qui, nulla di nuovo. Però, come si evinceva da molti film, canzoni e romanzi, in particolare di Philip Roth, che P. teneva sulla scrivania, «anni intensi e pieni di brio» significava senza ipocrisie anni sessualmente attivi. E «attivi», principalmente, attraverso la frequentazione di donne di giovane e giovanissima età con cui dar prova di un’arte seduttiva ancora intatta e piena di vigore. Era come se gli uomini un po’ in là con gli anni si fossero messi a leggere tutti insieme una massima di Charles Baudelaire: «Non si è morti fino a quando si desidera sedurre ed essere sedotti». Prima della modernità del benessere, dell’alimentazione migliore, delle vitamine per tutti, dell’igiene, della medicina, del progresso, della rivoluzione sessuale e della rilassatezza dei costumi, raggiunta una certa età questo desiderio di sedurre e di essere sedotti era semplicemente irrealizzabile. Ora, invece, era diventato possibile. E su scala di massa, per giunta.
Un tempo il vecchio satiro concupiscente e abietto era associato a un’immagine ripugnante, a un aspetto fisico rivoltante. Con Plauto e Giovenale era predominante la descrizione orripilata della decrepitezza, del decadimento fisico, della dissoluzione dei corpi che perdono ogni attrattiva. Uno era immortalato tutto «tremulo». Un altro messo così male, che «per masticare il pane non ha più altro che gengive senza denti»: che orrore. Nel vocabolario usato per designare i «vecchi dissoluti» della letteratura greca e latina, ha scritto Maria S. Haynes, i termini più ricorrenti erano «canuto», «vacillante», «puzzolente», «panciuto», «malaticcio», «tremolante», «flaccido», «vecchia carcassa», «colorito giallo», «alito cattivo», «logoro». E Titone preferì rinunciare all’immortalità perché non era riuscito a ottenere l’eterna e gagliarda giovinezza.
Ora no. Nel nostro mondo i coetanei di quei «vecchi dissoluti», dicono le statistiche, fanno uso sempre più massiccio di cosmetici. Osservano con disciplina militaresca le ingiunzioni della nuova religione salutistica. Seguono diete disumane. Sfoggiano tutti i simboli della cultura del narcisismo di massa. Si impegnano senza tregua nella cura del corpo. Si ritoccano l’estetica e frequentano la chirurgia plastica come le loro signore. Ingurgitano pillole multivitaminiche. Si sottomettono alle mode di un abbigliamento giovanile e spigliato. Vanno in palestra, corrono all’alba, smettono di portare la cravatta. E perché fanno tutto questo? Forse, come dicono con aria fiera di sé, per sentirsi in forma, in salute, in pace con se stessi, meno pesanti, più sciolti, più liberi? Oppure, più realisticamente, per continuare a essere sessualmente attraenti, per prepararsi ad altri anni di vita attiva, per esercitare un prima insperato richiamo erotico su ragazze di decenni più giovani? Basta leggere le trame dei libri che P. aveva sulla scrivania, o vedere qualche film contemporaneo, per capire il vero perché. E poi c’è il Viagra. Che si usino o no quelle pillole azzurre, il messaggio della nuova pozione magica, del nuovo elisir di lunga vita (sessuale), del nuovo filtro chimico d’amore è questo: puoi farlo. Anzi, «do it», «fallo», come si diceva con evidente doppio senso nella cultura underground tra i giovanissimi ribelli di qualche decennio fa. Ora quei giovanissimi sono diventati anzianotti. Ma nell’èra del Viagra, il sesso da vivere e praticare nella lunga e interminabile vecchiaia è stato sdoganato. L’incendio nella mente del generale Petraeus è stato appiccato così. E da allora non si è più spento.
Quel tema ronzava nella mente di P., che adesso leggeva romanzi fondamentali nella propria educazione sentimentale con occhi nuovi. E curiosità improvvise. Come quella per il «vecchio porco» di nome Viktor Ippolitovicˇ Komarovskij, un personaggio del Dottor Živago. Non lo aveva mai considerato prima, né nel romanzo di Boris Pasternak, né nel film che ne aveva tratto David Lean, dove era interpretato da Rod Steiger. Un essere laido, orrendo, una macchia fangosa sulla luminosa e commovente storia d’amore tra Jurij Živago-Omar Sharif e Lara-Julie Christie nel grandioso scenario della tragedia rivoluzionaria in Russia: le vite sconvolte dalla Storia, la fuga, l’infarto straziante di lui a pochi passi da lei, ignara, dopo la lunga lontananza. E poi la colonna sonora del film, pura passione. Eppure (P. aveva negligentemente sorvolato su questo aspetto quando aveva letto per la prima volta il romanzo e visto il film) quell’essere ripugnante rappresentava la pagina più oscura della giovinezza di Lara. Lei, ancora una «ginnasiale infagottata in un’uniforme scura». Lui invece, Komarovskij, l’uomo di potere ruffiano con i potenti più potenti di lui, «freddamente pratico», asserragliato in un «lussuoso appartamento da scapolo», ombroso, arrogante, padronale nei modi, iracondo al punto da picchiare il suo adorato bulldog nei momenti di massimo malumore. La giovanissima Lara divenne presto la preda di una persona così spaventosa perché «si sentiva lusingata da quell’uomo dai capelli grigi che poteva esserle padre» e che spendeva «tempo e denari per lei» (denari, ovviamente). «Lusingata»? Il «vecchio porco» la sottoponeva alle umiliazioni più tremende. La conduceva «nel separé di quell’orribile ristorante, dove i camerieri e gli avventori la seguivano con sguardi che parevano spogliarla». Oppure si prendeva delle «libertà in carrozza sotto il naso del cocchiere o nel palco, sotto gli occhi dell’intero teatro». Una preda da esibire con una volgarità smisurata: e Lara si sentiva «lusingata» per tutto questo? Ma come era possibile? E come era stato possibile che P., incantato dalla grande storia tra Lara e Jurij, non si fosse mai pienamente reso conto, anni e anni prima, delle gesta repellenti del «vecchio porco»?
Forse perché era giovane anche lui. Quando si è giovani si considera un atto elementare di giustizia il tentativo di Lara, finalmente tornata in sé, di uccidere il «vecchio porco» oramai odiatissimo. E ci si compiace per la bruciante sconfitta di Viktor Ippolitovicˇ Komarovskij che un tempo aveva fatto tanto il gradasso, che aveva offerto Lara come merce pregiata allo sguardo lubrico di cocchieri complici e avventori di un orribile ristorante che la «spogliavano con gli occhi», e adesso invece, oramai abbandonato e disprezzato, «si agitava come una belva prigioniera senza trovar pace». L’uomo dai «capelli grigi» aveva perduto. Il ricordo della bellezza di Lara «gli attanagliava lo sguardo e gli entrava nell’anima». Soffriva come un cane e «sentiva un bisogno estremo di lei»: ben gli stava. Il dominatore era diventato una marionetta nelle mani di chi un tempo aveva manipolato con la forza dell’età, del potere e del denaro. Si era trasformato nell’ennesima figura patetica e grottesca del vecchio che sembra più forte, ma in realtà viene soggiogato dalla donna giovane. Senza pietà.
L’incantesimo era finito, e Viktor Ippolitovicˇ Komarovskij, il «vecchio porco», aveva ricevuto la lezione che si meritava: così P. aveva pensato molti anni prima. Ma adesso, leggendo meglio tutta la storia, il categorico «ben gli sta» di una volta si stava impercettibilmente mutando in un bonario e accondiscendente «poveretto». P. sentiva dentro di sé il condizionamento psicologico e anagrafico di questa metamorfosi. Ma un cedimento così (cedimento sì: meglio l’intransigenza giovanile, tutto sommato) lo sconcertava, anzi lo contrariava. I colpi inferti dall’anagrafe possono cambiare così radicalmente il giudizio su un «vecchio porco»? Il suo gingillarsi su questi vecchi che non vogliono diventare vecchi era forse lo specchio deformante della sua contingenza autobiografica? Quando era molto giovane e aveva l’ambizione di studiare storia della letteratura per tutta la vita, P. si era tuffato nei tormenti e nelle incertezze romantiche di un personaggio giovanissimo come il Tonio Kröger di Thomas Mann, con qualche ...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Dedica
  5. 1. Nati sotto il segno del Cancro
  6. 2. I nipotini del professor Unrat
  7. 3. Piangere piano
  8. Indice