Un mese prima
Un pullman turistico scende lungo la strada che collega Assisi alla basilica.
Affacciati ai finestrini aperti, ragazzi e ragazze gridano divertiti indicando le auto di passaggio, fanno battute ai conducenti, le voci si perdono nel frastuono del traffico.
All’interno del pullman le grida sono sopraffatte dalla musica a tutto volume dello stereo portatile che uno degli studenti tiene sulla spalla, dondolandosi a ritmo insieme ad altri due compagni, in bilico tra le fila dei sedili.
«Dammi una parola, una parola sola» canta la voce della canzone, «dammi sulle labbra la parola amore» cantano all’unisono tutti i passeggeri, «la parola amore è solo da baciare.»
In quell’istante i corpi vengono proiettati in avanti per la frenata del pullman sul piazzale della basilica, la scolaresca si appresta a scendere mentre l’autista cerca un posteggio tra gli altri autobus già parcheggiati. In mezzo alle urla e alle battute dei ragazzi, un professore, con un megafono in mano, prova a gridare istruzioni. Un’altra professoressa lo aiuta cercando nel frastuono di raggruppare gli studenti secondo le classi. Dagli zaini vengono estratte piccole macchine fotografiche.
«Tu che fai, Marcella, non vieni con noi?» chiede il professore a una collega rimasta seduta nella prima fila dietro il guidatore.
«No grazie, le odio queste gite, sono venuta per fare un piacere alla Rosselli, me ne sarei rimasta volentieri a casa.»
«Come vuoi, ci vediamo dopo allora?»
Marcella annuisce, gli studenti si spintonano verso l’uscita. Lei li osserva scivolare via, infagottati nei giubbotti, i ragazzi stuzzicano le ragazze con battute, con gesti impacciati e maneschi, quelle reagiscono col primo insulto che gli arriva in bocca, restituendo scappellotti ancora più maschi e spietati.
«Allora, ragazzi, adesso stiamo per entrare nella Porziuncola, la piccola chiesa che san Francesco costruì con le proprie mani, potrete vedere così il luogo in cui Francesco e i suoi fratelli…»
La voce del megafono si perde via via che la fila viene inghiottita dal grande portale di Santa Maria degli Angeli.
«Che fa lei, resta dentro?» chiede l’autista a Marcella.
«No, scendo, mi sgranchisco un po’ le gambe.»
«Perché se no devo chiuderla dentro.»
«No, no, ho detto che scendo.»
Marcella si avvia verso il piazzale, sollevando il collo della giacca per ripararsi dalle folate di vento freddo. Cammina senza una meta precisa, allontanandosi dalla facciata della chiesa, scende le ampie scalinate oltre il piazzale, vede una panchina, fa per andare a sedersi, ma il suo sguardo viene calamitato da una figura apparsa davanti alla linea scura dei platani che delimitano il piazzale: è un frate, viene correndo a gran velocità proprio verso di lei, in una corsa scomposta, affannata, come fosse inseguito. Marcella si guarda intorno, non c’è nessun altro sul piazzale, d’istinto retrocede verso la panchina, ma il frate la raggiunge, sta quasi per precipitarle addosso ma un attimo prima si getta in ginocchio di slancio, l’urto secco delle ginocchia sul cemento sembra rimbombare sull’intero piazzale, le braccia magre dell’uomo sono scosse da un’agitazione disperata, il corpo scompare nel saio di molte misure più grande di lui, stretto alla vita da una corda sfilacciata. Spine, rami, foglie, spuntano conficcati qua e là nell’abito, le gambe e i piedi sono rigati da graffi, il respiro è cavernoso come quello di un cane dopo una lunga corsa, spalanca le braccia, le richiude, ogni suo gesto sembra dettato da un’urgenza spasmodica, inappagata. Marcella si è immobilizzata, i suoi occhi sono risucchiati da quelli febbricitanti del frate, l’uomo ha uno sguardo implorante, stringe le mani in preghiera davanti a lei con le dita intrecciate.
«Sono arrivato tardi, troppo tardi, Francesco è morto» prende a strapparsi con furia i capelli, «se arrivavo in tempo Francesco non moriva, non moriva più» si getta a terra singhiozzando, colpisce il suolo più volte coi pugni serrati.
Marcella è rimasta attonita, con la bocca semiaperta, le manca il respiro, come avesse anche lei corso a lungo insieme all’uomo.
«Dovevo arrivare in tempo, sono arrivato tardi, troppo tardi» il frate si allaccia il corpo con le braccia magre, dondola avanti e indietro, la voce gli si fa sempre più lamentosa.
«Non sono arrivato in tempo» grida d’improvviso afferrando le mani di Marcella e stringendole tra le sue, «non sono arrivato in tempo.»
Marcella cerca di divincolarsi, ma la presa dell’uomo è salda, le mani artigliano ora le sue braccia, quasi la trascinano verso il basso. Poi il frate di scatto si rialza, usando le braccia di Marcella come puntello per issarsi, entrambi barcollano, restano così, come stessero per iniziare un ballo. Gli occhi di Marcella si sono d’improvviso inumiditi di lacrime.
Al limite della piazza è sopraggiunta un’auto bianca con una scritta sulla fiancata, da cui scendono due uomini, uno indossa un camice bianco, Marcella si accorge di loro solo quando sono a pochi passi di distanza, intravede le due figure che si pongono ai fianchi del frate, sciolgono con dolcezza la stretta delle mani, gli parlano piano, lo calmano, l’uomo si lascia prendere per le braccia, di colpo rassegnato, lancia un ultimo sguardo sperduto verso Marcella.
«Non sono arrivato in tempo» dice ancora scuotendo tristemente la testa.
«Stai tranquillo, non è stata colpa tua» dice al frate uno dei due uomini, «magari la prossima volta arriverai in tempo.»
Quello col camice sorride verso Marcella, allargando le braccia come a volersi scusare per l’intrusione.
«Non si spaventi, non è pericoloso, ogni tanto scappa via e corre disperatamente fin qui, rivive la storia di frate Ginepro che vuole raggiungere san Francesco morente» sorride di nuovo.
Si incamminano verso l’auto cingendo protettivi l’uomo tra le loro braccia.
Dopo qualche passo il frate di nuovo si volta, cerca Marcella nella distanza e dice ancora qualcosa che si perde nel vento.
«Non sono arrivato in tempo» sussurra Marcella dando volume alla voce dell’altro, scuote appena la testa. Da qualche parte dentro di lei un telefono sta squillando in una stanza vuota. «Non sono arrivata in tempo» ripete con un filo di voce.
Resta lì a fissare l’auto che riparte, la piazza deserta, i platani dalle larghe foglie che ondeggiano ai colpi di vento, una lacrima le scorre sul viso, non fa nulla per fermarla, il corpo è scosso da singhiozzi che le muovono appena le spalle, a piccoli scatti.
«Avanzati, Bacilleri, Bronti.»
A ogni nome tutti in coro, ridendo, gridano «presente!».
«Crocchia.»
«Assente!» urlano sghignazzando, «assentissimo!»
La professoressa resta un attimo perplessa.
«Professoressa, Crocchia ormai…» lo studente in prima fila fa un gesto con la mano come a dare un estremo saluto a qualcuno.
«Ormai cosa?» Marcella si è girata di scatto, l’impeto del movimento costringe il ragazzo a rintanarsi nel sedile.
«No, niente dicevo che Crocchia ormai…»
«Ce lo siamo giocato» dice un altro studente due file più indietro.
«Che vuoi dire?» Marcella fa per alzarsi e andare verso di lui ma viene trattenuta per un braccio dal professore.
«Ma sì, ti ricordi, dall’inizio dell’anno scolastico Crocchia ha cominciato a fare assenze su assenze, ne abbiamo discusso a un consiglio, più di quattro mesi fa, c’eri anche tu.»
In quinta fila un ragazzo si alza con aria strafottente. «Professoressa, Crocchia…» con due dita unite si batte più volte la vena nell’incavo del braccio, alcuni compagni sghignazzano, altri trattengono le risate, in fondo al pullman qualcuno ha riacceso lo stereo.
«Parla stretta a me, dimmi cosa vuoi» tutti cantano andando dietro alla canzone, «in questo mondo tanto, ci siamo solo noi.»
«Nessuno si era accorto di niente» le dice il professore al suo fianco, «quando ce ne siamo resi conto era ormai troppo tardi.» Marcella ha un sobbalzo. «Ma cos’hai, che ti prende?»
«Dov’è ora?»
«Non lo sappiamo, abbiamo provato a contattare la famiglia, ma anche loro ormai non vogliono saperne più niente.»
Marcella si stacca dal collega, si rivolge ai ragazzi delle prime due file.
«Non l’avete più visto?»
I ragazzi la guardano stupiti, ora anche quelli seduti più lontano, come per un passaparola sotterraneo, si sono azzittiti, seguono incuriositi la professoressa di matematica che ha scavalcato le prime due file e sta venendo verso di loro, ma in quel momento il pullman ha preso a muoversi, Marcella perde l’equilibrio, cade addosso a uno degli studenti che la respinge imbarazzato tra le risatine degli altri. Il professore cerca di raggiungerla, Marcella si sorregge allo schienale, fissa il gruppo di facce che si sono sporte dai sedili più indietro per guardare.
«Nessuno l’ha più visto?»
«Ma che ne sappiamo, professoressa.»
«Lo chieda a Lucia che era la sua ragazza» grida uno dal fondo indicando una studentessa seduta al centro dell’autobus.
Marcella si dirige verso la ragazza, mantenendosi a stento in equilibrio tra i sedili.
«Tu sai dov’è ora?»
«Professoressa, ma che vuole da me?» Lucia, spaventata, si guarda intorno in cerca di aiuto, alcuni compagni le si fanno vicini.
«Marcella, su, lascia stare» le sussurra il professore che l’ha raggiunta alle spalle, prendendole con dolcezza il braccio, «vieni, torniamo a sederci.» La conduce verso la prima fila, Marcella si lascia guidare, come svuotata.
Uno dei ragazzi si tocca col dito la tempia indicando la professoressa che si allontana, molti ridono coprendosi la bocca con la mano, Lucia si è accucciata sul sedile, scossa, con un principio di lacrime agli occhi, le amiche le si fanno intorno premurose, la inviluppano di chiacchiere minute.
Marcella si è riaccomodata al suo posto, fissa l’asfalto che si snoda davanti al pullman, di colpo si volta verso il professore.
«Come si chiama di nome?»
«Chi?»
«Crocchia, di nome come fa?»
«Simone, ma perché me lo chiedi?»
Marcella solleva appena le spalle senza rispondere, riprende a fissare la strada, il professore resta a scrutarla di profilo per un po’, corrugando la fronte, poi scuote la testa, tira fuori dallo zainetto l’opuscolo appena acquistato sulla storia della basilica e si mette a sfogliarlo.
Il citofono suona, a lungo. Dal bagno, a torso nudo Matteo attraversa di slancio il corridoio.
«Che fai, non rispondi?» dice alla madre gettandole di sfuggita uno sguardo. «Sì, arrivo!» grida nella cornetta del citofono, torna di corsa sorridente, affacciandosi alla cucina.
«Dove hai messo i soldi? Dà i, che mi stanno aspettando» scompare di nuovo, poi riappare infilandosi una t-shirt rosso lacca. «Oh, dico a te, mi senti? ma che ti ha preso, sveglia!» batte le mani in aria, «dà i, che i miei amici sono giù da un pezzo.»
Marcella gira con uno sforzo la testa verso il figlio.
«Ma che ti è successo? hai una faccia…»
Il citofono trilla di nuovo, più volte, Matteo esasperato corre all’ingresso.
«E non rompete!» urla nella cornetta, «ho detto che arrivo» con la stessa furia rientra in cucina.
«E va be’, ho capito, me li prendo da solo.» Si blocca, solo ora si accorge della foto che Marcella sta fissando sul tavolo, si appoggia alle spalle della madre, allunga una mano e afferra la foto tenendola davanti a sé. «Questi siete voi due, non l’avevo mai vista, e questi altri chi sono?»
Marcella gli prende la foto dalle mani, scansa il piatto della minestra, poggia di nuovo la foto alla base della bottiglia di vino e rimane a fissarla.
«Siamo tutti imbacuccati, doveva essere d’inverno» gli occhi di Marcella sembrano perdersi dentro la fotografia, «quello lì dietro è il portone della nostra sede, non mi ricordo chi ha scattato la foto, forse Luca.» Matteo si è messo di lato, sbircia dall’alto la foto e al tempo stesso il volto della madre. «Quello al centro è Marco, tra tutti i compagni quel giorno ha voluto farsi fare la foto solo con le coppie del gruppo, noi due e Giorgio e Sara» indica le due figure a destra, «sorridiamo, vedi? io e tuo padre stavamo già insieme da un po’ di mesi, quel maglione era un suo regalo, lo aveva trovato al mercatino dell’usato, aveva un odore di pecora, lo devo ancora avere da qualche parte.»
Sfiora con l’indice la superficie della foto, scuote appena la testa, Matteo sorride, si infila la maglietta nei pantaloni.
«Dopo, di foto così non se ne sono fatte più.»
«In che senso, che vuoi dire?»
Marcella non risponde subito, non ha ancora staccato gli occhi dalla foto, fa un lungo sospiro prima di riprendere a raccontare.
«Dopo sono arrivate le armi.»
Matteo si stacca dal tavolo.
«Che armi?»
«Sono arrivate così, da un giorno all’altro, brillavano, erano lucide, quando le stringevi ti restava un po’ di unto sulle dita, come le mani degli operai in fabbrica, diceva tuo padre, Giovanni era il più bravo a maneggiarle.»
«Che dici, di che stai parlando?»
«Questa foto è stata scattata un anno e mezzo prima che tuo padre morisse.»
Matteo muove appena la testa come per cacciare una mosca.
«Prima dell’incidente?»
Marcella respira a fondo, riporta gli occhi sulla foto.
«Giovanni non è morto in un incidente.»
«Che stai dicendo?» la voce di Matteo si incrina.
«Tuo padre è stato ucciso dai carabinieri, dopo una rapina. Gli hanno sparato, una mitragliata in pieno petto, qui» Marcella si tocca con le dita aperte in mezzo ai seni, «qui» ripete.
«Che rapina?»
«Alla banca, l’avevamo preparata da mesi.»
Matteo si accascia sull’altra sedia della cucina, ha le labbra appena aperte, tremanti.
«Non è vero» mormora, «non è vero.»
«C’era un posto di blocco, nessuno se lo poteva aspettare, appena hanno imboccato lo stradone verso la periferia, si sono trovati i carabinieri davanti coi mitra in mano, non c’erano vie di scampo. Sara era alla guida, ha sentito Giovanni gridare agli altri di non reagire, che ormai era finita, poi non si sa come è successo, Sara dice che Giovanni è uscito dall’auto, Giorgio lo ha seguito, sono scesi con le mani alzate, le è sembrato di vedere Giovanni fare un movimento, come a cercare un documento nella giacca, nessuno era armato, le armi le avevano lasciate nel bagagliaio» Marcella inspira con forza, «i carabinieri hanno creduto che avesse un’arma nel giubbotto, hanno cominciato a sparare all’impazza...