Estate crudele
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Estate crudele

  1. 216 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Estate crudele

Informazioni su questo libro

Alessio Slaviero è un uomo molto temuto nel suo quartiere, quel triangolo di strade strette che si estende a Milano tra viale Monza, via Padova e la ferrovia; il ventre oscuro della città, dove il territorio si conquista e si difende con la forza, tutti i giorni. Alessio Slaviero è un uomo assediato da mille ombre e da mille fantasmi. Il suo unico amico è Manuel, un travestito brasiliano bello come un adolescente cattivo, che abita nell'appartamento di fianco. Ma Alessio Slaviero è anche un uomo, forse l'ultimo, capace di intuire nella miseria del quotidiano la grandezza di un passato rimosso, e di aggrapparsi a una visione: una donna incantevole che ogni sera si affaccia, sul balcone di fronte al suo, per dare l'acqua alle piante. Se non una promessa di felicità, almeno la conferma che un senso può ancora esserci. Ma il caldo infernale dell'estate del 2003 avvolge e appanna la metropoli in una morsa che vanifica la speranza, istiga alla violenza e prelude a un ultimo scontro frontale. Ci saranno ferite e ritorsioni, passioni irrefrenabili, esaltazione e vergogna, finché arriverà il momento di prendere decisioni irreversibili. Alessandro Bertante restituisce una dimensione epica a un tempo, il nostro, che sembra avere smarrito la memoria. E ci regala un romanzo scorretto, di straordinaria potenza visionaria, che fa esplodere i contrasti e in cui ogni cosa, perfino la più semplice, vibra di un antico mistero.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2013
Print ISBN
9788817064361
eBook ISBN
9788858644928

PARTE PRIMA

Non fidatevi dei tecnici che vi assicurano
la “neutralità” di questo cervello.
William T. Vollmann, Europe Central

La pena del mio cuore

Io sono solo, sconfitto, imprigionato e ingannato tutti i giorni di questa estate rovente.
Non vuole finire.
La finestra spalancata cerca l’aria ma nella stanza entra solo il frastuono della strada. Gente che grida coprendo il basso continuo dei tubi di scappamento, dei motorini eccitati, delle utilitarie bloccate nel traffico. Ci sono uomini che scaricano merce, altri che suonano il clacson come fosse un’arma. Sono tutti qui sotto casa mia, è rumore che copre altro rumore, è un caldo istigatore.
Me la pagheranno.
Ma questo pomeriggio non sono i soliti schiamazzi da ragazzini mischiati al monotono trambusto dei lavoratori: la via è attraversata da violenza, ne respiro il fiato.
In strada è in corso un conflitto, sento un peruviano urlare nella sua lingua da indio parole sconnesse che nessuno capisce. Mi alzo dal divano e raggiungo barcollante la finestra. È così caldo che l’aria sembra fatta di cotone. Devo sapere cosa succede nel mio quartiere, sono l’ultimo cavaliere ramingo, mio è l’orgoglio dell’acciaio e solo mia è la responsabilità del giudizio. Adesso sono pronto e vigile, fermo nella mia abituale posizione di controllo. Vedo il padroncino davanti al suo furgone, anche lui conosco, è un farabutto di poco conto. Sbraita contro un arabo mai visto prima che lo osserva con le braccia conserte, silenziosissimo. L’arabo è alto, magro, ieratico, sembra un profeta mendicante, capitato in questo luogo di malaffare per espiare le colpe del suo villaggio. Distante pochi metri, sta ritto in piedi il macellaio egiziano, il molestatore delle mie giornate di attesa, l’uomo che cuoce le bestie dalla mattina alla sera. Osserva la discussione come se fosse una faccenda di sua competenza, si crede il capo della via. Invece è un uomo privo di coraggio, e questa sua mancanza, in qualsiasi mondo che conservi tracce di orgoglio, dovrebbe contare ancora qualcosa. Suda, il macellaio, suda come un ciccione nervoso ma non si muove, rimane fermo a guardare. Intanto il peruviano continua la sua sceneggiata. È molto ubriaco, insulta i magrebini sputacchiando pezzi di noccioline. Guardarlo fa ribrezzo, si agita come una specie di gnomo malvagio, fuggito da qualche catapecchia andina. Ne ha le fattezze e i modi: le gambe corte, la faccia tonda priva di peli, il ghigno arrogante, grossolano come il berretto sportivo con la visiera portato all’incontrario.
La questione è fin troppo semplice: il peruviano tiene sempre il furgone in doppia fila e questa volta glielo hanno aperto e svuotato. Tutto il carico è stato buttato per aria.
Povera anima volgare.
Che ne sarà del nostro mondo alla fine di questi anni di bassezza, quando anche gli ultimi cavalieri argentati abbandoneranno le terre piane? Dall’alto della mia finestra al terzo piano vedo casse di cibo sparse sull’asfalto, pezzi di vetro esploso e pozze di birra irrancidite al sole, scatoloni di cartone e vestiti accatastati nell’angolo del marciapiede a guastarsi nell’antico odore di piscio di questa strada. Il caldo istigatore rende pazzi e farà giustizia della nostra miseria. Adesso comincia la battaglia, oggi si affrontano i servi.
Il nano ha la maglietta bianca sbavata di vomito, già di primo pomeriggio. Le auto in fila continuano a strombazzare, io sono solo nella stanza dell’inferno. Per favore, abbandonatemi qui o me la pagherete, cadrete insieme a me in fondo al pozzo della vergogna. Per favore, disfatevi della mia memoria.
Il macellaio che cuoce le bestie rimane in piedi davanti alla sua bottega, non partecipa alla lotta, si crede il guardiano e come tale non arretra di un passo. Il peruviano è troppo ubriaco, più del solito, è impossibile combattere in queste condizioni, la lotta deve essere degna. Beve fino dal mattino presto, senza mai fermarsi, beve al bar, a casa, seduto sul marciapiede e sdraiato sulle panchine del parco. Beve perfino mentre guida il furgone, perché lo gnomo fa le consegne e trasporta qualsiasi cosa possa essere pagata. Lui è un padroncino, può decidere di testa sua, non c’è nessuno che lo comanda, nessuno che lo punisca, nessuno che gli insegni il rispetto.
Concluso il lavoro si diverte a bighellonare per il quartiere insieme ai suoi compari, la banda dei trogloditi coi pantaloni larghi sotto al culo. Si credono una gang, mostrano i colori dell’appartenenza armata, grossolano retaggio etnico da esportazione, deludente e innocuo come tutte le cose nate da un riflesso. Lo vedo spesso con quel suo fare da bullo, è solo un coglione come tanti ne incontri per strada. Lui non lo sa che io sono il re della foresta, non sa che conservo il segreto delle antiche parole dei poeti.
In realtà il nano è un vigliacco, sono certo che questa sera picchierà la giovane moglie e domani la picchierà ancora. Rosita, si chiama, ha poco più di vent’anni ma è già invecchiata, uno straccio di ragazza, sempre stanca, tumefatta, carica di borse e di tristezza. Creatura indifesa, anche lei fa parte di questo mondo sbriciolato; la vedo, osservo le sue abitudini, mi incuriosisce, provo pena per lei. Abita nel palazzo dietro al mio, condividiamo il cortile e la sera dopo cena si sentono le sue grida, quando non c’è troppo chiasso sudamericano. Imprecazioni in spagnolo primordiale a cadenzare il rumore degli oggetti che si infrangono a terra. «Rosita puta, puta de mierda!» grida il nano, e io ogni volta cerco di immaginarlo in mutande che la colpisce, le sue mani nodose, gli schiaffi, i pugni sulla faccia, le pedate in pancia. Dopo, quando torna il silenzio, c’è solo lei che si accartoccia sul pavimento come una bestiolina impaurita. Ma non riesco a capire davvero cosa succeda, tutto è confuso dalla musica che esce forte dalle finestre, la salsa industriale dei nanerottoli, quella che ascolta il popolo di tutto il mondo, perché tutto il mondo è diventato una gigantesca pattumiera.
Senza sapere nulla della sofferenza, privo di una vera partecipazione che mi renda migliore, ascolto irritato l’ordinaria violenza del massacro e alla fine non rimane traccia di compassione, solo il fastidio. Mi irritano le grida di quella disgraziata con la testa grossa e le gambe corte. Disturbano la mia quiete farmacologica, la mia tregua armata, sottolineano il mio mal di testa, la mia disperazione. Alla fine io voglio solo che smetta, che mi lasci solo in mezzo alle ombre.
Dovrebbe ammazzarlo mentre dorme, il padroncino. Tagliargli la gola.
Eccomi di nuovo allo spettacolo, in prima fila. Dal vicino negozio che vende generi alimentari asiatici e carabattole varie, escono tre uomini. Sono meravigliosi loro, manco in un film li vedi così perfetti. Hanno un’età indefinibile, il corpo esile, la faccia ossuta, anonima, determinata a esistere. Portano le ciabatte infradito e le canottiere stinte attillate, appiccicate alla pelle sudata.
Da qua non riesco a capire di che razza siano. Forse cinesi.
I cinesi sono un mistero, mi affascinano. Sono ovunque e nessuno li conosce, nessuno li osserva con scientifica attenzione, come se fossero veramente delle persone come noi, come se avessero sentimenti, gioie e aspirazioni. Sappiamo che ci sono ma esistono come qualcosa di separato e parallelo che non ci riguarderà mai. Loro invece sono predatori molto pazienti, sta per arrivare il momento e non hanno alcuna fretta. Ci studiano, ci pesano, sentono l’odore della nostra fine. Per i cinesi il tempo ha il giusto significato, quello che noi abbiamo smarrito.
Mille anni fa intorno a queste case era tutto coperto da una fitta foresta, gli alberi sapevano raccontare storie, scorrevano fiumi limpidi pieni di pesci, gli uomini cacciavano le bestie selvagge, temevano il fulmine e i demoni della natura.
Mille anni fa era lo stupore.
Controllo tutto dall’alto, loro non possono vedermi, sono concentrati sulla lite, la distrazione di questo torrido mattino. Siamo tutti spettatori. Nessuno che lavora, neanche Manuel, il travestito brasiliano mio vicino di casa, bello come un adolescente cattivo. Si è appena svegliato, esce sbadigliando sul balcone di fianco alla mia finestra. Gli intravedo il cazzo attraverso la sottoveste che si allarga un poco sulle cosce. Senza trucco è ancora più intrigante: occhi da cerbiatto, cerbiatto indolente.
La pena del mio cuore.
Dio mio che dolore.
Manuel vive nell’appartamento di fianco al mio, dalla sua stanza proviene una musica bruttissima, nauseante, sintetica e percussiva, un ritmo minimale per ritardati, inquinato da gridolini di femmina: sento un tale che ripete «El gusanito, tomalo el gusanito». Questa disgrazia estetica arriva insieme a un profumo da quattro soldi, dolciastro come la mia anima miserabile. Guardo l’ora. Sono le tre del pomeriggio del I8 di luglio 2003, nell’angolo profondo della via Crespi, il ventre caldo e puzzolente di Milano. Questo è il luogo che non dovrebbe esistere, rimasto sospeso nel mezzo di una storia appartenente ad altri: non è piazzale Loreto, non è viale Monza, non è via Padova, è dietro a tutto e di fronte a nulla.
Questo è il mio quartiere, il mio inferno.
Mai una pioggia, mai un filo d’aria, il caldo non concede tregua, nessuno porta rispetto, nessuno crede nell’onore. Siamo tutti in lotta.
Siamo tutti sconfitti.
Me la pagheranno.
Con un sorriso civettuolo, Manuel mi indica di guardare in strada, di non lasciarmi distrarre dal suo culetto sodo, di non credere alle sue promesse, di cedere, infine, alla sua perfidia.
Siamo amici, Manuel e io.
La pena del mio cuore.
In cambio di qualche saltuaria carezza, gli do lezioni di italiano. Voglio la sua compagnia, sono un uomo molto solo.
In strada, intanto, lo spettacolo continua.
Il peruviano grida sempre più forte. Sbraita che sta lavorando: «Trabajo» dice, «trabajo de mierda». Crede di avere delle buone ragioni, non può cercare parcheggio ogni volta che deve scaricare la merce. «Questo è un barrio de mierda» urla, e dalla sua bocca continuano a brillare pezzi di arachidi come se si fosse ingozzato prima di lasciare il bancone del bar, «le vie sono strette e todo el dia c’è troppo cassino, cassino per culpa dei coches, delle macchine degli italiani cavrones, italiani cavrones de mierda.» Ma gli italiani questa volta non c’entrano, la colpa è solo sua. Dopo mezz’ora che in quartiere tutti lo cercavano, l’hanno beccato che beveva al bar dei cinesi da solo come un coglione, mentre il suo furgone bloccava il passo carraio e gli abitanti arabi del palazzo non potevano uscire. Come una settimana fa, come ieri, come tutti i giorni. La gente si ricorda di queste cose e la gente non porta pazienza. Cosa può sapere il nano del lavoro, cosa può sapere dell’orgoglio, dell’onore, della vendetta? Lui è solo un padroncino che guida ubriaco, lui va in giro con quelli della gang dalle gambe corte, lui picchia la moglie che non può difendersi.
Adesso però ha di fronte un uomo adulto.
L’arabo resta immobile, io tengo per l’arabo.
Tengo quasi sempre per gli arabi, ci faccio affari con loro.
Il peruviano continua a sbiascicare minacce, sembra offeso dal silenzio del suo nemico, dal suo rigore, da questa assurda quanto insolente mancanza di alcol nelle vene.
È inevitabile, il combattimento deve cominciare.
Il peruviano scatta, goffamente tenta di colpire il profeta al volto, che schiva senza troppo sforzo. Era un pugno mediocre, da ubriaco. Nanerottolo incapace, che ne sa lui della lotta uomo contro uomo, dell’eroismo, del sacrificio, della falange, dei cavalieri catafratti, delle alabarde d’acciaio serrate a difesa dell’istrice? Lui non sa niente ma adesso arriva la punizione. Da dietro la schiena dell’arabo compare un grosso coltello da cucina. Il volto del peruviano mostra un’espressione di sorpresa che subito si trasforma in terrore. Poi è tutto molto veloce, con un singolo movimento la lama entra nella pancia; è semplice, non c’è altro che violenza, sangue e violenza. La lama è lunga e lacera la carne.
Il peruviano cade a terra come un sacco di stracci. Grida e si contorce, sembra un cane bastonato. Il suo è un lamento straziante, infinito. Il dolore si propaga ovunque, ogni metro del quartiere viene riempito da quel verso acuto di animale morente. La gente in strada si spaventa e si allontana in fretta, mentre nel vuoto del marciapiede avviene spudorata la tragedia. Il peruviano si tiene la pancia con entrambe le mani, urla sempre più forte, è terrorizzato, privo di dignità, il sangue sta coprendo il marciapiede. Quell’uomo sta morendo. Nessuno lo aiuta, nessuno lo piangerà. Osservo la sua sofferenza e non provo alcuna emozione, anzi mi concentro su questioni tecniche. Ci vorrebbe il colpo di grazia, penso, è squallido vederlo rantolare in quel modo. Ma per me è solo una questione di ordine, di rigore estetico, di fare un lavoro come si deve.
Ci sono altre urgenze, e io non provo più nulla.
Il macellaio spinge via l’arabo accoltellatore che si volatilizza senza farsi troppo pregare. Raccolto il coltello insanguinato, lo nasconde al sicuro dentro alla sua bottega. Magari lo userà ancora per le sue bestie da cuocere, per la mia cena, per il mio tormento, per l’infinita pena del mio cuore. Intanto i cinesi sono spariti e le automobili hanno smesso di suonare. Ora i cittadini in transito lungo la via stanno chiusi dentro alle loro utilitarie a sudare. Succede sempre allo stesso modo, quando si scatena la violenza, quella autentica, senza mediazioni. Rimane solo un corpo, abbandonato su un marciapiede, e quel corpo ora ha smesso anche di muoversi. Gli abitanti del quartiere invece restano fermi in fondo alla strada. Loro sono abituati, non prestano soccorso ma neppure scappano spaventati. Sono simili a me, sanno riconoscere la ferocia: abbiamo gli stessi occhi, annusiamo gli stessi odori, sentiamo lo stesso chiasso e condividiamo la ...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. PARTE PRIMA
  5. PARTE SECONDA
  6. Indice