Un eroe del nostro tempo
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Un eroe del nostro tempo

  1. 242 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Un eroe del nostro tempo

Informazioni su questo libro

È il 1945. Tre nuclei familiari coabitano in un appartamento: i giovani sposi comunisti Faliero e Bruna, la vedova di un ex repubblichino, Virginia, e Lucia, madre vedova del sedicenne Sandrino. Il ragazzo, bello, irruento e cresciuto nel culto della figura autoritaria e squadrista del padre perduto, seduce Virginia e inizia con lei una relazione intessuta di soprusi e vessazioni. Le tensioni travolgono la casa e i suoi abitanti, inclusi Bruna e Faliero che tenteranno di "salvare" Sandrino, ma invano. In lui infatti la violenza fascista è un male incurabile, che tracimerà in un acme di tragica brutalità. Scritto nel 1947, il romanzo riflette il clima da guerra civile che agitava l'Italia del dopoguerra e segna un'evoluzione marcata nello stile dell'autore. Pratolini è trascinato al realismo dall'urgenza storica e personale di testimoniare le profonde fratture sociali che abitavano come demoni le ombre della difficilissima ricostruzione - non solo materiale - del Paese.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
Print ISBN
9788817063203
eBook ISBN
9788858642238
UN EROE DEL NOSTRO TEMPO
Taluni lettori vorranno forse conoscere la mia opinione sul carattere di Piciórin… La mia risposta è il titolo di questo libro.
LERMONTOV, L’eroe del nostro tempo

Parte prima

I

Nella terrazza le donne avevano steso delle corde per appendere la biancheria. Accosto al muricciolo v’era il pollaio di Virginia, col tetto di lamiera e il graticcio di rete; sul parapetto la cassetta di terra ove Faliero coltivava i pomodori. La cucina era grande abbastanza perché le donne potessero avere ciascuna il suo fornello, e un tavolo sul quale appoggiare gli utensili, la spesa. Era gente a cui la guerra aveva tolto la propria casa, o che una casa propria non aveva mai avuto. Tre famiglie in uno stesso appartamento, a un ultimo piano che il vicinato gli invidiava, per la terrazza soprattutto, e perché vi stavano agiati, due a due com’erano. Con in più questo: che la terza famiglia, composta di una sola persona, nemmeno si poteva chiamar tale. Di essa i vicini dicevano:
«La signora del pollame».
«La repubblichina».
Non sapevano altro di Virginia, se non che era vedova e che il marito glielo avevano fucilato i partigiani. Ella viveva sola, appartata: il suo ostentato cordoglio eccitava le immaginazioni. Era alta, bionda, col seno pieno e gli occhi chiari: bella per gli uomini, e superba per le donne.
Veniva da un paese della campagna, da una famiglia di piccoli proprietari. Quindici anni prima, adesso ne aveva trentatré, costruivano un ponte nuovo sul fiume, dirimpetto alla sua casa. Dirigeva i lavori un ingegnere di quarant’anni, alto, dalle tempie tutte bianche e il fare spigliato. Egli le pose gli occhi addosso e si sposarono. Le dette una casa in città, con l’orto, il bagno. Ella viveva del suo affetto, della sua soggezione e della casa, in attesa del bambino. Invece del figlio era venuta la guerra. Ezio, lui era già anziano, non andò soldato. Virginia era contenta. Lo fu fino al giorno in cui i nemici bombardarono il suo paese, proprio il ponte sul fiume, e i suoi genitori rimasero uccisi. Quel giorno si vestì di nero: un lutto destinato a durare dentro il suo cuore come nel colore dell’abito. Quando finì il fascismo, per rinascere subito dopo, suo marito cambiò da così a così: ella non sapeva ancora spiegarsi. Tutto in lui diventò diverso, anche la voce. Stava giornate intere fuori casa, vestito da fascista. («Dunque non era più al Genio Civile?» Nei dieci anni di matrimonio, Virginia non si era mai permessa di interrogarlo.) Una notte egli non rientrò; l’indomani si combatteva per le strade. Lo rivide su una tavola mortuaria, dentro degli abiti che non erano suoi, la testa sfracellata. Poi ella dovette lasciare la sua casa. Coloro che vi subentrarono le avevano trovato quella camera in subaffitto, all’altro capo della città, un mondo nuovo.
Erano passati sei mesi e ad essa sembrava ancora di vivere «sollevata da terra», l’aveva detto al confessore. Non riusciva a raccogliersi col pensiero. Aveva tentazioni assurde, e più forte d’ogni altra, quella di recarsi al cinematografo. Della sua casa era riuscita a salvare la mobilia della camera da letto e, chissà come scampata alla razzia, una parte del suo pollaio. Ci fu una risata ed un applauso allorché arrivò nel nuovo quartiere, con in braccio le due galline.
Una donna disse: «Rispettate il lutto».
«Ha gli occhi ancora gonfi di pianto» disse un’altra.
E un’altra: «Lacrime di coccodrillo».
Ecco, ovunque ella andasse, anche in un mondo per lei ignoto fino ad allora, la gente le sarebbe stata ostile. Ella ne era sempre più stupita ed offesa. Trovò un’istintiva difesa accettando la propria solitudine. Nei giorni che seguirono, in chiesa, per le scale, nei negozi, alcune donne le si erano avvicinate, con un’espressione consolatoria sotto la quale ella credette intravedere cattiveria e ironia. La sua naturale timidezza si era trasformata in sospetto, in terrore.
Anche con gli inquilini dell’appartamento, i suoi rapporti si limitavano al saluto. Di ciascuno, origliando, ella aveva imparato le abitudini. Sbrigava le proprie faccende quando essi dormivano. Del resto, la più parte della giornata ella restava sola in casa, con la cucina intera, e la terrazza, a sua disposizione.
Nella camera accanto alla sua abitavano una madre e un figlio giovanetto. Virginia seguiva i loro colloqui attraverso la parete. Sapeva ormai tutto di essi: della loro povertà e dell’irrequietezza del figlio che la madre chiamava Sandrino. Il ragazzo era commesso in un negozio di tessuti. Virginia non lo aveva mai visto. La madre, invece, la conosceva: era una donna dimessa, con la voce querula e lo sguardo rassegnato.
«Mi scopro anch’io così sola, a volte» le aveva detto costei offrendole la propria compagnia, che Virginia aveva rifiutato. «Vado a servizio e torno che è già buio. La mattina esco appena fa giorno, mi sente passare per il corridoio?»
Certo che la sentiva. Il suo sonno era lieve. Bastava il suono di una campana, lontanissima tuttavia, a destarla.
«Non mi chiami signora» le aveva detto la madre di Sandrino. «Mi chiami Lucia. E non si privi di chiedermi qualcosa, se le serve.»
Poi le aveva detto: «Il mio ragazzo fa rumore quando si alza? La disturba?».
Se faceva rumore, il ragazzo! Ma era il rumore di un ragazzo, l’unico che non la costringesse a sussultare. Egli cantava, appena alzato. Attraverso la parete Virginia lo seguiva ogni mattina, dal momento in cui si destava al suono della sveglia che la madre gli caricava uscendo: lo udiva lavarsi e cantare, frugare nei cassetti, spostare le sedie, percorrere il corridoio, e poi sbattere la porta sulle scale. Allora, andatosene Sandrino, ella restava sola in casa fino al pomeriggio inoltrato.
Gli altri due inquilini erano già fuori da qualche ora. Erano una coppia di sposi ed occupavano la camera con le finestre sulla strada. Un meccanico ed un’impiegata, conosciuti pochi giorni dopo il suo arrivo, di sera tardi. Bussarono alla sua porta e Virginia si finse addormentata. Tremava. Insistevano, e dové farsi viva.
«È soltanto per le presentazioni» disse il giovane.
Si capiva che si stava divertendo. La sposa lo rimproverava a bassa voce, anch’essa frenando l’ilarità. Disse: «Non si impressioni, signora. Ci sono anch’io, e sono donna».
Virginia si vestì, prima di introdurli. Tirò su le coperte e ravviò la camera. Il giovane, dal corridoio, disse: «Faccia pure il suo comodo. Noi ci siamo seduti».
Ma appena le furono dinanzi, erano diventati seri ed impacciati. Si tenevano per mano. Le parvero incredibilmente giovani, la ragazza in specie. Lui era sbarbato e pettinato lustro; era in maglietta e pantaloni corti – corti in modo assurdo, con le cosce bionde e pelose. Le ripeté: «Volevamo fare la sua conoscenza. È dei nostri da una settimana e se ne sta sempre chiusa in camera».
Chiese il permesso di accendere la sigaretta. La sposa gli lasciò la mano per infilarla attraverso il suo braccio.
Virginia cercava di sfuggire i loro sguardi. Non sapeva cosa rispondere e temeva per ogni parola che potesse uscirle di bocca e comprometterla, in qualche modo.
Il giovane disse: «Io sono Faliero. Questa è mia moglie».
«Bruna» disse la ragazza.
E lui: «Di cognome Susini, ma non ha importanza».
Quindi, accendendo la sigaretta, aggiunse: «Già, è questo che volevamo dirle. Lei non deve credere di trovarsi tra dei nemici. Forse qualcuno può averle riferito quali sono le nostre idee, ragion per cui lei è portata a immaginare… Invece, no».
La ragazza lo interruppe. Si staccò dal suo braccio, si fece avanti di un passo, disse: «Sappiamo soltanto che lei è sola. Se dobbiamo vivere nella stessa casa, bisogna diventare amici. Perché la sera non mangia al tavolo con noi, in cucina?».
Virginia si era seduta: aveva il petto oppresso. Non udiva la ragazza, bensì le parole di Faliero l’avevano colpita, «come una martellata», dove c’è il cuore. Ora era certa che nella stanza dirimpetto alla sua abitavano dei nemici, forse proprio uno di coloro che avevano ucciso suo marito. Teneva la testa bassa e le mani in grembo: vedeva attraverso una nebbia quelle cosce bruciate dal sole, con la peluria bionda, fitta. Poi si era accorta che la ragazza le porgeva un bicchiere d’acqua. Il giovane era uscito.
«Ci dispiace di averle procurato un’emozione» le disse Bruna. «Volevamo tutt’altro.»
Virginia l’aveva guardata in viso. I suoi capelli erano castani, lunghi, retti da un nastro legato sotto la nuca, gli orecchi scoperti, gli occhi grandi, scuri, addolorati, e le braccia nude ed esili, il seno sciolto sotto la camicetta. Per un istante aveva provato il desiderio di abbandonarsi al pianto tra quelle braccia, quel viso, che le ispiravano consolazione. Ma immediatamente aveva ricordato che la ragazza era la moglie di colui che aveva detto di chiamarsi Faliero, «un partigiano». Di nuovo l’aveva assalita il terrore, l’ansia di difendersi da un pericolo. Si era alzata, rigida nella persona, incapace di parlare: andava con lo sguardo dalla ragazza alla porta ch’era rimasta socchiusa.
La ragazza aveva posato il bicchiere: «Io vado, signora. Non la importuneremo più. Si convincerà da sé che siamo brava gente».
Così erano passati sei mesi, un’estate torrida, un autunno piovoso. L’inverno si annunziava gelido, con la prima neve. Ed era accaduto qualcosa di terribile e di dolce insieme che aveva sconvolto l’animo di Virginia recandole una gioia inattesa, sconosciuta finora, e che nello stesso tempo aveva trasformato il suo terrore in un’angoscia d’altra specie, più profonda. Ossessiva.
In apparenza ella conduceva la sua solita vita solitaria, chiusa nel suo cordoglio come nel suo abito di vedova. Tuttavia i rapporti con gli altri inquilini, pur limitandosi ancora, nei rari incontri, alle frasi di convenienza, si erano distesi; non v’era più, nel suo atteggiamento e nel tono della sua voce, quella superbia che mascherava il timore. Adesso la sua persistente laconicità, la sua stessa misantropia, avevano acquistato un che di umile, di patetico, da suggerire la melanconia più che il disprezzo o il timore. Le sue attenzioni non erano più riservate unicamente al pollaio ed ai mobili della propria camera; lo stesso velo nero non le ricadeva più dal cappello sulle spalle; un tenue rosso le ravvivava le labbra. Ma ancora i suoi occhi erano spesso gonfi di pianto, le sue visite al cimitero erano ancora lunghe e frequenti, la sua solitudine ugualmente irreducibile. Usciva dalla sua camera allorché la casa si era fatta deserta e Bruna, ch’era la prima a rientrare, sulla sera, già ve la trovava rinchiusa: la salutava passando per il corridoio e ne riceveva le notizie che riguardavano lei e Faliero, se ve ne erano: la posta, l’ambasciata di un amico. Anche con Faliero si scambiavano il saluto, attraverso il corridoio. Avevano cominciato loro, ed a Virginia era sembrato dapprima pericoloso, poi soltanto scortese non ricambiarli. Coi giorni, coi mesi, la sua voce era diventata cordiale. Faliero si annunciava dal pianerottolo, col ronzio che faceva la moltiplica della bicicletta. Una volta, involontariamente, era stata Virginia a dargli per prima la buonasera. Faliero si era fermato nel corridoio, aveva detto: «Brava. Quando si deciderà ad onorarci?».
E lei, Virginia: «Prima o poi» gli aveva risposto.
Questo era accaduto in settembre. E siccome spesso, al mattino, Faliero non faceva in tempo a recarsi in terrazza, era Virginia che segretamente innaffiava la cassetta dov’egli coltivava i pomodori. Ora, seppure non credesse ancora ch’essi le volessero bene, come dicevano, sapeva tutto anche di loro. Sapeva come Faliero e Bruna si erano incontrati, e perché si erano incontrati; sapeva che i tedeschi avevano arrestato Faliero, l’avevano torturato e lui aveva subìto le torture zitto, finché i suoi compagni partigiani erano riusciti ad organizzargli l’evasione; sapeva che Bruna, con quei suoi occhi e quelle braccia, aveva traversato in lungo e largo la città, nascondendo gli esplosivi dentro la borsa della spesa.
Chiusa nella sua camera, i segreti della casa venivano a lei. Della sua vicina di stanza, Lucia, Virginia sapeva che un uomo l’aveva messa incinta e poi le aveva confessato di essere già sposato: aveva continuato a mantenerli, lei e il bambino, fino a quando era scoppiata la guerra in Abissinia, e c’era morto. Ora il ragazzo aveva compiuto sedici anni, si chiamava Alessandro come il padre, Sandrino tuttavia, e Virginia lo aveva conosciuto. Era suo amico.

II

Virginia conobbe Sandrino il giorno in cui essa compiva trentatré anni. I ricordi l’avevano sopraffatta, e più di ogni altro quello di un suo compleanno di bambina, di quando aveva nove o dieci anni: si era ammalata di difterite e sembrava dovesse morire. Il giorno del suo onomastico il padre era rientrato con un regalo: una bambola che le misero sotto le coperte e che l’indomani fecero sparire, siccome nel delirio la bambola le aveva fatto paura. Gliela restituirono durante la convalescenza, coricata dentro una culla celeste, col baldacchino. La conservò sempre, da giovanetta e poi da sposa; aveva preso l’abitudine di farle un vestitino nuovo e di cambiarle pettinatura ogni stagione. Con gli anni la culla aveva perduto il baldacchino. Suo marito le diceva: «Quando avremo un figlio, ne sarai gelosa». Ora non la possedeva più. Di ritorno dall’avere sepolto Ezio, trovò la casa saccheggiata. S’erano presi tutti gli oggetti di valore, ed anche la bambola. La culla era rovesciata in un angolo, azzoppata. Allora, durante la convalescenza, era stata ansiosa di far vedere la bambola alle sue amiche, soprattutto a Lisina, la figlia del fattore, ch’era la sua vera amica. Poi seppe che Lisina era morta per la grippe.
Quel ricordo in specie l’aveva tormentata tutta notte. Era come se si sentisse di nuovo strangolare, ardere dalla febbre e prossima a morire, sola, chiusa nella sua camera, tra nemici che non le avrebbero dato un bicchiere d’acqua per aiutarla. Un bicchiere d’acqua, sì, e poi si sarebbero congedati. Le avrebbero detto: «Me ne vado, signora». Si era appena assopita, la destò il suono della campana; attraverso la parete sentì che Lucia lasciava il letto. Quindi aveva udito Sandrino gridare contro la madre, con quella sua voce forte, di adolescente irritato e pieno di sonno: «Possibile tu mi debba svegliare tutte le mattine per dirmi addio? Hai caricato la sveglia, dunque, come posso fare tardi?». Anche Bruna e Faliero se ne erano poi andati.
Virginia stava pettinandosi alla specchiera; si scaldò il caffè sulla macchinetta a spirito, ravviò la camera. Passò un’ora e suonò la sveglia, al di là della parete. Ella tese l’orecchio. Le piaceva sentire Sandrino muoversi e cantarellare. Ma non lo voleva conoscere. Le piaceva seguirlo segretamente. Adesso anche lui le dava timore, e se i suoi rumori e la sua voce non la facevano sussultare, tuttavia le procuravano turbamento. Dopo l’episodio di una settimana prima, origliare dietro la parete, sapendolo solo nell’altra stanza, le era gradito e insieme le repugnava.
Una settimana prima, era suonata la sveglia e Virginia si aspettava di sentirlo alzarsi. Invece c’era stato un lungo silenzio. Lei si era avvicinata alla parete. Dal silenzio, al suo orecchio in allarme era pervenuto il cigolio del l...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Prefazione - di Goffredo Fofi
  5. Nota biografica
  6. Riferimenti bibliografici
  7. UN EROE DEL NOSTRO TEMPO
  8. Indice