Inferno
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Inferno

La Commedia del Potere

  1. 180 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Inferno

La Commedia del Potere

Informazioni su questo libro

Quando Dante, circa sette secoli fa, scriveva Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello!, certo non immaginava che un giorno, precisamente nel 1992, post Tangentopoli, la stessa serva Italia sarebbe entrata in una fase ben più cupa: la Seconda Repubblica. Vedendo arrivare da quella nuova era tanti peccatori, nefasti ma soprattutto incoerenti con il codice morale che eternamente regola l'Aldilà, Minosse si è sentito costretto a chiedere aiuto a colui che tutto move implorandolo di creare un Inferno ad hoc. Ed ecco che si è aperta, proprio sotto Montecitorio, una voragine in nove cerchi per i moderni dannati, ciascuno con il proprio contrappasso: dal nemico della Patria Bossi, dottor di secession, e non d'alloro, obbligato a risalire il Po ultraterreno, a Formigoni, infedele al proprio maestro (don Giussani), relegato su una torre solitaria poiché cedei a umane voglie io che fui fratello dei fratelli. E, insieme con loro, quasi tutti i potenti dell'Italia recente, in modalità bipartisan, dall'oppositore di natura Vendola a Grillo non più grillo ma gallo, con cresta alta e petto sempre infori a dir che li politici fan fallo, dal grande illuso Prodi al gran Caimano. In buona compagnia con dannati "pop", emblemi del loro tempo, quali Maradona e capitan Schettino. Come Dante con Virgilio, Tommaso Cerno si fa guidare da Andreotti in corpo di giaguaro a visitare bolge e gironi per interrogare gli spirti, e può raccontarci così – rigorosamente in terzine di endecasillabi – vizi e bassezze del nostro Paese. Ad arricchire straordinariamente il volume, le tavole del più degno erede di Gustavo Doré, quel sulfureo Makkox capace di raffigurare magistralmente il male e la meschinità d'oggi.

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Informazioni

Anno
2013
Print ISBN
9788817066020
eBook ISBN
9788858643501
INFERNO
La Commedia del Potere
S’ïo avessi le rime aspre e chiocce,
come si converrebbe al tristo buco
sovra ’l qual pontan tutte l’altre rocce,
io premerei di mio concetto il suco
più pienamente; ma perch’io non l’abbo,
non sanza tema a dicer mi conduco;
ché non è impresa da pigliare a gabbo
discriver fondo a tutto l’universo,
né da lingua che chiami mamma o babbo.
Dante, Inferno XXXII 1-9

AMMONIMENTO

Fino al 1992 l’Inferno aveva funzionato a meraviglia. Mai un guasto, uno sciopero, un’obiezione di coscienza né, tanto meno, loschi tentativi di spostamento ad altro tribunale più compiacente. Minosse, il giudice degli inferi, con ghigno orrendo, per secoli e senza sosta aveva diretto il traffico dei peccatori, spedendoli ciascuno nel proprio girone, “secondo ch’avvinghia” la coda. Bugiardi, bari, simoniaci, ladri, golosi, lussuriosi e via elencando erano stati eternamente smascherati, bollati e sbattuti al contrappasso.
Ma, dopo Tangentopoli, qualcosa cambiò. Venne un tempo chiamato Seconda Repubblica, e complicò le cose tanto sulla Terra quanto nell’aldilà.
I nuovi potenti d’Italia non erano facili da catalogare. Erano fieri dei loro privilegi, rubavano a propria insaputa, odiavano la patria, mercificavano le illusioni della povera gente. Tanto arraffarono, mentre il popolo s’affamava, da venir ribattezzati “la Casta” e contestati dagli stessi che per anni avevano votato per loro. Fu a questo punto che Minosse chiese un intervento dall’alto: “Io non riesco proprio a capirli questi signori, sono casi mai visti, non possiamo certo mescolarli ai vecchi, sani peccatori d’una volta! Anche se non porta voti, bisognerà fare un bel piano di edilizia penitenziaria!”.
Fu così che venne creato il Nuovo Inferno, proprio sotto Montecitorio, per adeguare i contrappassi ai peccati di oggi e per tagliare un po’ le spese di trasferta dall’aldiquà all’aldilà, cresciute a dismisura, come gli sprechi della politica, proprio a causa degli spiriti della Seconda Repubblica, alcuni ancora biologicamente in vita, anche se defunti al vaglio della pubblica opinione. Vi trovarono posto nostalgici del fascismo, golosi di beni pubblici, arringatori di folle, lussuriosi a caccia di fama, televisione e potere. E tanti altri con loro.
Nessuno era mai sceso là sotto, finora. Colpa di Virgilio che, da buon sommo vate antico, preferì astenersi da queste moderne cure.
E così si è dovuto attendere un degno sostituto, trovandolo solo oggi in Giulio Andreotti, insuperato poeta della trattativa politica, unica vera Guida nei recessi di quei palazzi che più di chiunque altro ha conosciuto.
Può quindi ora cominciare questo strano viaggio lungo i gironi del Nuovo Inferno, fra le pene di chi dall’Italia ottenne fama e potere, ma restituì solo guai, debiti e miseria.
Il Nuovo Inferno

CANTO PRIMO

Nella stagione più corrotta della politica italiana, il Poeta si trova all’improvviso all’ingresso di un Nuovo Inferno creato proprio sotto Montecitorio per punire le anime della Seconda Repubblica travolta dagli scandali. Prima di varcare il portone che conduce nei vari cerchi, come accadde a Dante all’inizio del suo viaggio, il Poeta incontra tre fiere: sono Andreotti (giaguaro), Fanfani (mastino) e Forlani (felino). Andreotti, che sarà la Guida del Poeta nel suo cammino, svela la ragione di questo nuovo regno e narra alcuni dei fatti più inquietanti della Prima Repubblica, da Ustica al rapimento Moro fino a Gladio e a Tangentopoli. Quando i due stanno per entrare nel primo cerchio, le parole di Andreotti evocano gli spiriti di Cossiga e di Scalfaro, gli ultimi presidenti della Repubblica appartenenti alla Democrazia Cristiana.
… e li occhi scrutaron quella fiera,
che testa d’uom e corpo avea giaguaro.
«Giulio fu’ io, della Italia vera…
Canto I, vv. 29-31
Nel tempo che ammonisce Cicerone,
che le more del Palazzo eran violate,
3intrai senza più speme in un portone.
Di un tal viaggio, rime già fùor date
da quel sommo allor che fu il Poeta,
6che miserie di Fiorenza l’ha narrate.
Ma dell’andare mio sarà la meta
un moderno Inferno, ove si purga
9chi Italia sua ha tradito per moneta.
Non vi era selva che fuggir ci urga,
pur vidi un colle simil a quell’erta,
12ch’a Dante aprì ’l cammin per dove surga.
Sul nome suo ferita s’era inferta
da’ stessi che sul Monte di Citorio
15vennero per tener la tasca aperta.
Non era il Ciel, non era il Purgatorio,
ché quelle genti ch’invocava onore
18avean venduto il cuore per avorio.
Ahi, che mi prese presto un tal timore
a veder le bestie che ora vidi
21venir per me con ciglio di rancore.
Temei che quei volti così infidi
mi rispedisser nello umano mondo,
24da dove venni lasciando i miei nidi.
Ma poi che fu da me più alto il tondo
e li raggi del pianeta fé chiaro
27sul volto uman, che venìa dal fondo,
la voce mia assunse un tono raro
e li occhi scrutaron quella fiera,
30che testa d’uom e corpo avea giaguaro.
«Giulio fu’ io, della Italia vera,
quando su li scranni eran edotti
33quei che stavan là da mane a sera.
Timori non aver, son Andreotti,
primate sopra quella dei potenti
36res publica che detta fu dei dotti.
Nulla ha da spartir con le tangenti,
che sento nominar per queste lande
39da quei che a rubar non son sapienti:
arraffan quel tesoro che s’espande,
e non per far gigante lor partito,
42ma per spartirlo come fosser bande!
Sette volte dal Colle fui insignito
del campanel che tace li ministri,
45nel Palazzo che al premier fu adibito.
E fui il Divo, che nei più sinistri
labirinti della Prima e sola Era,
48tenni testa a tutti i terroristi,
dopo che quel Moro più non c’era,
rapito e poi condotto in buia tana,
51da che tornar a casa già non spera.
Oh politica mia, che sei sì nana!
E noi grandi e potenti, noi signori,
54non trovammo a chi dar la filigrana
per riaver Aldo nostro e i suoi valori,
che fecer grande la storia di noi tutti
57nell’era democratica e cristiana.
Furon anni di fasti e poi di lutti,
ma senza aver favella sì volgare
60come quei d’or che parlan con i rutti!
Ustica fu, che non poté volare,
e tutti si chiedea che reo segreto
63custodisse il governo e il malaffare.
Ma oggi dico a te, che sei sì lieto
di venire nel ventre del Palazzo,
66che mai più tornerà com’era cheto,
che solo Iddio, o l’uomo s’è ragazzo,
posson capir un sì peggior destino
69degli innocenti contro chi era pazzo.»
E mentre sì dicea, un gran mastino,
con sembianza di uman e con le mani,
72venne a me, e dietro a lui il felino.
E il Duca disse: «Quei è dei Fanfani,
mentre l’altra fiera col cipiglio
75l’amico che chiamai sempre Forlani.
Custodi siam, padri di quel figlio,
che mandò sua nave sullo scoglio,
78come fece Schettìn in quel del Giglio.
Ma io solo ti scorto al sommo soglio,
ove volea sedere il Cavaliere,
81che s’inventò tutto questo imbroglio,
e poi che ricacciovvi in acque nere,
venne tal Monti a muover l’alleanze,
84che fece l’Alemagna risedere.
Peste moderna dello spread le danze!
Non per musica in quel ciel si muove,
87ma della Borsa a le segrete stanze.
Vedrai Bossi, Fini e quel signore
che chiamano anti, ma ch’è quel Grillo,
90che ridea di Craxi con livore.
Vedrai de la Casta il suo bacillo,
e tutto lo esercito dei rei
93che de lo parlamento dipartillo.
Fiorito, Penati e più di sei
che presero per sé tutti quegl’ori,
96ch’a Bettino gli tolsero i trofei.
Tanto più ebbero brama d’allori
che scese Stella col suo Rizzo,
99della nostra miseria gran cantori.
Fu così che il popol fu rubizzo
ne le piazze e in strada a protestare,
102con chi più che signor parea scugnizzo.
Oh anima che vedi cose amare!
Chi venne a cacciar li vostri padri
105ora è quel Di Pietro senza altare.
Illusa Italia d’esser senza ladri!
Di quel dolor passasti a peggior male,
108che oggi pagan figli e loro madri.
Poi salirai fin anche al Quirinale,
e vedrai lo potere di quel Cristo
111che mai cedé se non a un cardinale.
Ma Roma che saprai leon è tristo,
senza Iulio, che vollero cacciare,
114e che da quest’inferno ora t’assisto.
Due volte fui costretto ad abdicare,
la prima contro quei che chiami Arnaldo
117e vedi dietro a noi qui seguitare.
Volevamo salire al Colle alto,
dove siede colui che su controlla
120che un poter all’altro non dia assalto.
Ma la nazion di noi era satolla,
e il Palazzo che tutto stabilisce
123scelse Oscar dopo lungo tiramolla.
Non sola è delusion che mi ferisce,
poi che a vita divenni senatore
126Silvio mi lanciò primo fra le bisce.
Venne pure un Francesco tiratore,
che sulla scheda errò a scriver Marini
129e sperai di tornar un mattatore.
Ma poi capii che solo eran giochini
ch’inventai io per li miei nemici
132e che li vendicaron quei mastini».
Fu allor che udii un chieder: «Che dici?».
E vidi un’omb...

Indice dei contenuti

  1. Cover
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  3. Inferno. La Commedia del Potere
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