Marzo 2000
«Ciao.»
«Keeley? Tesoro? È arrivato Gray. Lo faccio salire? Gli ho detto che stavi facendo i compiti.»
Keeley fece una smorfia e abbassò il volume della radio. Stava ascoltando la classifica della settimana e aveva appena perso l’inizio del nuovo singolo di Ian Brown, ora avrebbe dovuto aspettare altri sette giorni. Posò il libro che stava sfogliando e si passò un po’ di burro di cacao al cocco sulle labbra. Non c’era tempo per il deodorante. La porta si aprì.
«Ciao.»
«Ciao.»
Gray entrò e andò a sedersi al solito posto, nella nicchia sotto la finestra, con un ginocchio sollevato e il piede appoggiato contro il muro. Ormai doveva piegare la gamba per riuscire a entrarci, mentre una volta era costretto ad allungarsi per arrivare a toccare la parete. Fuori la luce cominciava a indebolirsi e Keeley vide che nella casa di fronte tiravano le tende. Gray tirò fuori un fumetto dalla tasca posteriore, lo aprì e cominciò a leggere.
Keeley girò sulla sedia e si mise a fissarlo, con il mento appoggiato sulle mani. Da quando era entrato non l’aveva ancora guardata, e lei era sorpresa dall’eccitazione che provava ad averlo lì, nella sua stanza. Si accorse che Gray portava la sua giacca preferita, il sopra di un completo da uomo, comprata usata in un mercatino.
«Che leggi? Hai già fatto geografia?»
Lui alzò lo sguardo. «“Promethea”. L’ultimo numero. E se parli dei compiti, la risposta è sì.»
Keeley rimase a fissarlo ancora un istante, esaminando la cicatrice sul sopracciglio destro che si era fatto quando erano caduti dalla casa sull’albero, il lieve broncio mentre leggeva, i riflessi ramati dei capelli scuri sotto la luce. Lui alzò gli occhi all’improvviso e Keeley sussultò; proprio in quel momento sua madre bussò alla porta e la aprì.
«Di nuovo salve, signora Jack.»
«Mio Dio, Gray, hai quindici anni. Chiamami Jeanie.»
«Ha ragione.»
«Più tardi vi va di bere un tè e mangiare un boccone?»
Keeley strinse gli occhi. «Cosa prepari?»
«Il piatto preferito di tuo padre. Pasticcio di pollo e funghi.»
Gray allungò il braccio, prese un cuscino di pelliccia sintetica dal letto e se lo sistemò dietro la schiena. «Ottimo. Mi fermo volentieri. Grazie, Jeanie.»
Keeley chinò la testa. «Mamma, lo sai che sono vegetariana. Non posso mangiare quella roba.»
«Avanti, Keeley, non ricominciare. Non riesco a starti dietro. È solo da poche settimane, e poi ti ho vista mangiare il salmone affumicato al matrimonio di Molly la settimana scorsa, perciò credevo che l’avessi piantata con questa storia.»
«Quello era pesce.» Keeley lanciò un’occhiata di disprezzo alla madre. «Ogni tanto mangio un po’ di pesce, per il ferro. Ma niente carne.»
Gray sorrise e posò a terra il fumetto per osservarle meglio.
Jeanie sospirò. «Be’, ma il pollo non conta, giusto?»
Keeley alzò gli occhi al cielo. «Senti, mamma, mi dispiace, ma non è poi così difficile da ricordare, non ti sembra? Non mangio niente che abbia…» fece una pausa, «non mangio niente con… le palpebre.»
Gray la guardò e sbatté le sue. Jeanie si mise a braccia conserte.
«Palpebre? Buon Dio, bambina, si può sapere cosa diavolo ti salta in mente? Non credo che i polli abbiano le palpebre. Non ti pare?» chiese esasperata. «Anzi, in effetti, immagino che debbano averle, con quegli orrendi occhi sporgenti che si ritrovano. Comunque, ti farò un pasticcio vegetariano, solo con i funghi. Sei una vera rottura.»
Chiuse la porta, e Gray scoppiò a ridere. Keeley si voltò verso di lui.
«Be’? Cosa c’è di così divertente?»
Gray aprì di nuovo il fumetto abbassando gli occhi. «Tu sei divertente. Sono le ciglia, scema. Non mangi niente che abbia le ciglia. Come le mucche o gli asini.» Alzò lo sguardo. «O la gente.» Ricominciò a ridere.
Keeley urlò e si allungò per picchiarlo, ma lo mancò e cadde dalla sedia. Gray rise ancora più forte e lei gli saltò addosso di nuovo. Lui si fece scudo con l’avambraccio e il fumetto arrotolato.
Quando le sembrò di averlo picchiato abbastanza Keeley appoggiò la schiena, con la testa sul braccio di lui, e Gray srotolò il fumetto, leccandosi la punta di un dito per girare pagina.
Keeley aveva il fiatone. «Non prendermi in giro» disse sorridendo. «Sai benissimo cosa intendevo.»
Gray annuì. «Sì, sì.» Fece una pausa e aggiunse: «Hitler era vegetariano». Keeley si voltò e mentre gli dava un’altra sberla si accorse che le piaceva il contatto con il braccio muscoloso di lui.
Appoggiò di nuovo la schiena e incrociò le mani sul petto. Quello era proprio un Gray molto diverso, si disse. Non il Gray che a quattro anni le aveva rubato il triciclo perché era più veloce, o che quando ne avevano sette aveva scavato insieme a lei per un’intera mattinata una buca nel terreno di suo padre per arrivare in Australia, o che quando ne avevano nove le aveva svelato come attraversare l’apertura segreta nella recinzione del parco. Il Gray che si trovava davanti era un’altra persona.
Doveva essere un’altra persona, perché Keeley non poteva prendersi una cotta per il suo migliore amico.
«Vuoi che te lo legga?»
«Un fumetto? Non fare lo scemo.» Ma chiuse gli occhi, intrecciando le mani per ascoltarlo. Sentiva gli uccellini che cantavano fuori dalla finestra.
1
Faceva più freddo del previsto. Sotto la trapunta stavo al caldo ma avevo il naso leggermente umido. Chiusi gli occhi, domandandomi se anche per gli esseri umani il naso umido fosse segno di buona salute, come per i cani. Decisi che forse non lo era. Contai piano fino a tre, e riaprii gli occhi quel tanto che bastava per vedere il mio fiato condensarsi sulla parete di truciolato della camera. Mi misi a sedere e cercai la vestaglia ai piedi del letto. Sentivo i passi di Jolith nel corridoio; a giudicare dal rumore doveva essersi già infilato gli scarponcini, segno che stava per uscire.
«Keeley? Sei sveglia?» Si avvicinò alla porta strascicando i piedi. «Ho acceso il riscaldamento. Il tizio delle previsioni meteo su Radio 4 ha detto che siamo sottozero, perciò ho pensato chi se ne frega. Però poi ricordati di spegnerlo, va bene? Io sto uscendo, ciao.»
Aprii la porta e lo trovai lievemente inchinato verso il buco della serratura, che mi parlava con in mano la sua tazza preferita. Sussultò e alzò lo sguardo. «Ah, ci sei! Ottimo.»
«Sì, ma Dio solo sa perché. Pensavo che qui al Sud facesse un po’ più caldo. Con un tempo del genere dovremmo andare a caccia di animali selvatici e coprirci con le loro pellicce.»
Jolith fece una smorfia. «Non esagerare, Keeley. Credo che queste tattiche di sopravvivenza siano necessarie soltanto nella tundra artica. Dai meno trentacinque in giù. Scommetto che a Edimburgo fa molto più freddo. A Londra la temperatura non cala mai più di tanto: ci sono troppi corpi.»
Sbatté le palpebre, e mi chiesi se davvero l’avevo visto rabbrividire quando aveva detto «corpi». «Comunque, ciao. In bocca al lupo per oggi. Sono sicuro che andrà benissimo.»
Riuscii a sorridergli e lo salutai. Mi accorsi che quel giorno aveva aggiunto un berretto di tweed antiquato alla sua tenuta abituale, ossia pantaloni marroni di velluto a coste e il vecchio Barbour del padre. Nessuno avrebbe immaginato che Jolith aveva solo ventisei anni, anche se forse si poteva intuire che era un avvocato. Mi infilai le pantofole imbottite, e quando finii di riempire il bollitore del tè lui stava già arrancando lungo la strada in sella alla bici. Cambiai stazione radio passando dal notiziario a una che trasmetteva musica.
Riempii la teiera e spostai lo sguardo verso il soggiorn...