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Chi era mio padre?
Mia nonna Fernanda parlava spesso di mio padre. Le sue narrazioni però erano quasi mitologiche: la sua figura era sospesa in una specie di empireo astratto, perfetto, irraggiungibile. «Tuo padre si è laureato con 110 e lode.» «Devi fargli onore!» «Quando rinunciò al nuoto per lo studio, il suo istruttore venne a implorarmi di fargli cambiare idea.»
Secondo mia nonna, anche gli autisti dei pullman su cui lavorava come guida turistica si stupivano di quanto fosse serio e con che determinazione si applicasse negli studi: «Quando accompagnava le turiste straniere in gita, rimaneva a studiare in pullman mentre loro andavano a ballare». Avevo il sospetto che questo non fosse vero: dai racconti di mia madre mi pareva di intuire che papà non perdesse occasione per corteggiare le ragazze che gli capitavano a tiro. Ma la sua dedizione allo studio e la sua tenacia, questo non lo dubitavo, erano proverbiali: non tralasciava mai un argomento senza averlo sviscerato, non abbandonava un libro senza averne tratto un insegnamento o uno spunto di riflessione. Era difficile per me confrontarmi con una figura così forte, cresciuta in un’epoca e in un clima culturale così diversi dai miei.
I Tarantelli erano di Pratola Peligna, un piccolo borgo dell’entroterra abruzzese vicino Sulmona, tra la Majella e Rocca di Mezzo. Le terre su cui vivevano, come tutti i terreni intorno al lago Fucino, erano di proprietà dei principi Torlonia; poco prima della fine dell’Ottocento il lago fu prosciugato e i campi bonificati, e pare che la mia famiglia ebbe una parte in questa grande opera. I Tarantelli erano «livellari» dei Torlonia, cioè avevano una concessione agraria che si sarebbe potuta trasformare in proprietà, se le terre di cui erano affidatari fossero risultate produttive entro alcuni anni. Questo permise loro di porre le basi di una certa agiatezza economica: con l’inizio del nuovo secolo il mio trisavolo Cesidio Tarantelli si trasferì a Roma, dove nacque l’ultima dei suoi otto figli, nel 1901. Pare che zia Irma, una delle figlie, si vantasse delle scuole private e dei collegi che frequentavano i maschi, delle lezioni di pianoforte e dizione delle femmine, nonché dei contatti dei genitori con l’alta borghesia e la piccola nobiltà legata nientemeno che ai Savoia: nonno Cesidio aveva la carrozza e una casa in via del Corso.
Di Cesidio in famiglia si racconta soprattutto che sul letto di morte pronunciò le seguenti parole: «A un anno preciso da questo giorno un moto sussultorio e ondulatorio distruggerà Sulmona». Tutto puntualmente si verificò proprio come lui aveva previsto, con il terremoto del 1915. Eppure di Cesidio ci sarebbe stato ben altro da raccontare. È rimasta un’operetta, da lui composta e registrata per Ricordi, la Bandiera Universale. Se la musica era un po’ infantile, il testo ci fa capire senza dubbio le sue simpatie socialiste. Eccone un passo:
ARNALDO: Oggi che il mondo è civile uniamoci tra noi. Attuato il socialismo, tutto il mondo sarebbe tranquillo. Non vi sarebbe più guerra! Non vi sarebbero più agitazioni operaie e politiche! Non vi sarebbero più scioperi! Non vi sarebbero più conflitti fra cittadini e soldati! I negozi potrebbero restare aperti anche di notte! Non ci sarebbe più duello! Non ci sarebbero più anarchici! Non ci sarebbero più disperazioni e dispiaceri amorosi che portano al suicidio! Cittadini! Io propongo a voi, apostoli della civiltà, di prendere questa iniziativa di una fratellanza universale.
Immagino che il nonno di mio padre avesse avuto sotto gli occhi la miseria dei contadini della sua terra: i «cafoni» di Ignazio Silone che, oltre a soffrire di malnutrizione, malaria e pellagra, erano oggetto della continua prepotenza dei latifondisti. Probabilmente da quest’esperienza aveva maturato l’aspirazione alla giustizia sociale e all’equa ripartizione delle risorse che animava il movimento socialista di fine Ottocento. Queste sue idee però dovevano risultare scomode in una famiglia altolocata e reazionaria com’erano i Tarantelli: le sue doti di preveggenza furono oggetto di ben più racconti che non le sue aspirazioni alla giustizia sociale.
Alla fine degli anni Trenta le rendite dell’attività agraria di famiglia permisero a due dei suoi figli maschi, mio nonno Amerigo e mio zio Ernesto, di fondare una banca. Ma la guerra mondiale fece crollare il potere d’acquisto della lira, che negli anni Quaranta si ridusse a un trentesimo del valore che aveva prima del conflitto. Anche la banca dei principi Torlonia chiuse, ma nel caso della mia famiglia fu l’inflazione a girare completamente la loro fortuna. Subito dopo la guerra la banca fallì, e la famiglia si trovò all’improvviso in grandi difficoltà economiche. Ezio aveva pochi anni, e aveva fatto appena in tempo ad assaporare gli agi di una vita da bambino benestante. Suo padre Amerigo aveva studiato al collegio gesuita Le Querce di Firenze, lo stesso che frequentavano i rampolli della famiglia reale: a suo figlio diede un’educazione rigidissima, abituandolo ad esempio a mangiare il pollo con coltello e forchetta sin da quando aveva due anni (proprio così, due anni!). In famiglia è rimasto il ricordo di alcuni aneddoti, come il fatto che gli altri bambini lo chiamassero «principino», o «Ezia» – in alcune foto di lui da piccolo era vestito come una signorina – o di quando, ad esempio, comprò delle scarpe bianche ma uscì dal negozio insoddisfatto e mormorando «non so se sono abbastanza distinte».
La famiglia viveva in viale Angelico; anche se la casa era in affitto, le vacanze si passavano nei migliori alberghi di Senigallia, con camerieri in livrea e guanti bianchi. Era una famiglia dell’alta borghesia, un po’ chiusa su se stessa e autoreferenziale: quando conobbe mia madre, mio padre le confessò che quando era molto piccolo ignorava i suoi vicini di casa fino al punto da chiamare «coso» gli altri bambini, quelli che non facevano parte della famiglia.
Dopo il fallimento della banca tutto cambiò. Nonno Amerigo e zio Ernesto sciolsero il loro sodalizio. Zio Ernesto emigrò in Brasile: pare che fosse così profondamente fascista da non voler continuare a vivere in un Paese che aveva tradito gli alleati tedeschi e instaurato una democrazia. Anche nonno Amerigo emigrò. Visse per otto anni a New York, e non tornò se non per una fugace apparizione durata un mese. I Tarantelli consideravano Amerigo una sorta di pecora nera: donnaiolo, avventuriero e anticonformista, aveva cantato come baritono in vari teatri del mondo, anche con il famoso tenore Beniamino Gigli; cantava e insegnava canto all’Eiar, l’ente italiano per le audizioni radiofoniche, che sarebbe poi diventato la Rai. Conobbe mia nonna Fernanda quando aveva quarantacinque anni: lei ne aveva venti meno di lui ed era sua alunna di canto. Si sposarono il 10 giugno del 1940, proprio il giorno dell’entrata in guerra dell’Italia. Non si sa se fu questa la ragione per cui nonno Amerigo tardò tanto ad arrivare alla celebrazione: nei racconti di famiglia si è sempre parlato della grande trepidazione in chiesa dovuta al fatto che mio nonno già aveva lasciato quattro donne sull’altare. Questa volta invece, anche se in ritardo, si presentò.
Oltre l’età, anche le origini familiari facevano una grande differenza tra mio nonno e mia nonna. Fernanda veniva da una famiglia romana di estrazione abbastanza popolare: sia il padre che i suoi fratelli erano operai specializzati al Poligrafico di Stato. Un episodio che spesso raccontava mia nonna per descrivere il carattere del nonno riguarda il giorno in cui si presentò a casa sua a chiederle la mano: fu sua madre – la mia bisnonna Ginevra – ad aprire la porta. Quando Amerigo la vide sulla soglia di casa, con addosso la sua vestaglia azzurra, fece un inchino teatrale e intonò con trasporto la romanza: «Celeste Aida, forma divina / mistico serto di luce e fior...». La mia bisnonna rispose in prosa: «Ma chi è ’sto rompicojoni?».
Durante gli otto anni che il nonno trascorse a New York, Ezio, che era poco più che un bambino, si trovò a vivere nella casa di viale Angelico senza suo padre, solo con la madre Fernanda, la nonna Ginevra, la sorella Cristina e la sorella della madre, zia Iolanda: quest’ultima fu per lui come una seconda madre, e il ricordo delle sue fettuccine al sugo rimane indelebile anche nella mia memoria.
Dopo solo tre anni dalla partenza di Amerigo la famiglia subì una nuova difficoltà, che per Ezio rappresentò un trauma ulteriore: nel 1951 i Tarantelli furono sfrattati, e si trasferirono per qualche anno a casa del cugino Giancarlo, in una villa di stile liberty in via Fasana, sempre nel quartiere Prati. Lo sfratto, e la necessaria coabitazione con i parenti, determinarono lo smembramento della famiglia: da allora il nucleo familiare di mio padre fu composto solo da lui, da sua madre Fernanda e dalla sorella Cristina.
Quasi tutti i figli di Cesidio Tarantelli vivevano nel loro stesso quartiere, e più precisamente nella zona delle Vittorie, la parte novecentesca. Intorno a loro, a quanto ho dedotto dalle interviste ai parenti, c’era tutta una pletora di vicini, personale di servizio, portieri, lavandaie: i rami collaterali della famiglia mantenevano quell’agiatezza che quello di mio padre non aveva più. Ciò rendeva ancora più difficile per loro sopportare le ristrettezze economiche in cui si erano trovati. Nonostante le differenze e le distanze, mio padre continuò a frequentare i suoi cugini e gli altri rami della sua famiglia, ma – come spiegò in seguito a mia madre – soffriva non tanto per la loro improvvisa povertà, quanto per lo sguardo di superiorità che i loro parenti di tanto in tanto facevano pesare su di loro.
Ezio studiava al Convitto Nazionale insieme a suo cugino, mio zio Giancarlo; all’uscita di scuola i due ragazzi facevano la strada insieme, dal lungotevere fino a viale Angelico, dove abitavano. Entrambi avevano il padre lontano. Un giorno Giancarlo chiese a mio padre di aiutarlo nello svolgimento di un tema che gli era stato assegnato, dal titolo Il tuo desiderio più grande. Ezio non ebbe difficoltà a mettersi nei panni del cugino, il cui padre era emigrato come il suo; scrisse un tema così intenso e vero, che la maestra di Giancarlo non trattenne le lacrime, lo abbracciò a lungo e lo premiò con un dieci. Zio Giancarlo si sentì un verme, ma i sentimenti che Ezio aveva espresso nel tema erano veri, perché erano quelli che lui stesso sentiva per la lontananza del padre. Il suo più grande desiderio, naturalmente, era quello di rivederlo presto; «Ne sarei tanto felice!» era la struggente e disarmante conclusione.
Alcuni dei parenti che formavano la famiglia allargata di papà furono determinanti per la formazione della sua personalità. Un’importanza particolare ebbero Rino, il marito di zia Iolanda, sorella di nonno Amerigo (quindi zio acquisito da parte di padre), e Neno, fratello di nonna Fernanda (zio da parte di madre). Per Ezio questi zii facevano le veci della figura paterna che a lui mancava. Rino era un borghese raffinato, capitano dell’Aeronautica, che però bilanciava il conformismo perbenista dei Tarantelli con un carattere sarcastico: era romano da sette generazioni e aveva un umorismo mordace che mio padre apprezzava molto. Ma era per zio Neno che Ezio aveva un’ammirazione particolare. I Panzironi, cioè la famiglia di nonna Fernanda, rappresentavano la parte più popolare e romana dei parenti di mio padre: secondo le parole di zio Giancarlo, erano gente «bonaria, tollerante e affettiva nei rapporti parentali e d’amicizia; caustica e orgogliosa, quando serve». Di zio Neno si racconta che da giovane avesse recitato all’Ambra Jovinelli con Totò; i «guitti», gli attori del teatro di varietà, allora facevano la fame e siccome Neno viveva in famiglia spesso portava a casa anche il povero Totò. Pare che sua madre, la bisnonna Ginevra, esclamasse ogni volta: «Mamma mia, nun lo posso vede pe’ quant’è brutto! Nun me lo porta’ più a casa!». Zio Neno morì all’improvviso, quando mio padre era alle medie; anche se all’epoca era considerato poco dignitoso che i ragazzi (maschi) dessero sfogo ai propri sentimenti in pubblico, Ezio pianse disperatamente la morte dello zio.
Secondo Giancarlo mio padre da bambino era educato e riservato, ma già da piccolo dimostrava quella caparbietà che lo accompagnò tutta la vita. Da dove abbia ereditato la pervicacia non saprei dire, a meno di invocare l’abruzzesità forte e gentile che un comico famoso negli anni Cinquanta, Virgilio Riento, che a lui piaceva da morire, così spiegava: «Gli Abbruzzesi so’ forti come lu peperuncine e gentili, perché te dicheno che te pozzeno accide!»
Ma se quest’aspetto del carattere era già definito da piccolo, altri erano latenti. Così mi ha detto zio Giancarlo: «Il futuro mago dell’econometria, a dodici anni non capiva nulla di matematica! Nel 1953 mio padre, zio Gino, tornò dal Brasile, e venne a vivere nella casa di via Fasana. Nonna Fernanda gli chiese di dare ripetizioni a tuo padre, perché aveva un buon profitto in tutte le materie tranne che in matematica. Mio padre, da bravo ingegnere, ci si mise con diligenza e pazienza, ma – ricordo – ogni tanto sbottava, perché Ezio s’impuntava con abruzzese caparbietà. Ma, caparbiamente, la sfangò».
Nel 1954 nonna Fernanda, zia Cristina e papà lasciarono il villino di via Fasana e presero un appartamento in via Tripolitania, spostandosi quindi dalla zona di Prati verso la Nomentana, nel quartiere africano. Anche zio Giancarlo e i suoi genitori lasciarono la casa, ma si trasferirono a Milano, dove Giancarlo vive ancora. Papà aveva tredici anni: nel nuovo appartamento si ricostituì in parte la famiglia allargata, perché con loro si trasferirono anche Neno, la bisnonna Ginevra e la zia Iolanda. L’appartamento era pulito e lucidato a cera, senza un filo di polvere sui mobili, ma non era molto grande e per un periodo i ragazzi dovettero condividere i letti con i più grandi. La sicurezza di un tetto, però, non fu sufficiente a garantire il benessere della famiglia, che viveva con lo stipendio di zia Iolanda, cassiera alla famosa farmacia Roberts in piazza San Lorenzo in Lucina, e con i soldi che nonno Amerigo mandava dall’America. Mio padre cominciò a sentire un gran peso sulle spalle: come se fosse lui il capofamiglia, ora che non era più un bambino. La rete di parenti in parte sopperiva alle ristrettezze della famiglia per cui spesso, per delicatezza, essi offrivano aiuto in modo indiretto. Ezio cominciò a sentire che doveva contribuire all’economia della casa.
Quando nonno Amerigo tornò da New York mio padre aveva quattordici anni. Durante quegli otto anni all’estero si era mantenuto insegnando canto e dipingendo, ma quando rimpatriò non aveva più un soldo. La sua famiglia per mantenere il tenore di vita aveva venduto anche l’ultima proprietà rimasta, una tenuta che i Tarantelli avevano alla Magliana. Ma questi soldi sarebbero finiti: Amerigo non aveva né pensione né risparmi, ed era anziano. Per alcuni anni cercò lavoro attivamente, ed Ezio ricordava la trepidazione con cui lo aspettavano la sera a casa, in attesa di una buona notizia: come spiegherà a mia madre all’inizio del loro rapporto, la disoccupazione del padre pesò, forse anche più dell’emigrazione, sulla formazione della sua personalità. Per qualche giorno, addirittura, in casa si mangiarono solo patate col sugo di pomodoro. In famiglia ancora si narrano alcuni degli espedienti che rivelano le ristrettezze di quel periodo – condizioni che per i Tarantelli erano umilianti, visto il loro passato benestante, che però erano comuni a tantissime famiglie italiane degli anni Cinquanta. Ad esempio, si raccontano i modi ingegnosi che aveva escogitato mio padre per recuperare le monetine da inserire nell’ascensore per metterlo in marcia: una moneta forata da tirare su con un filo, o una cartolina nella cassetta per far scivolare fuori la moneta.
Ma è il suo primo lavoro quello che più mi ha colpito, per l’ingegno e lo spirito di adattamento che dimostrava Ezio da giovane. Ebbe l’idea di decorare a mano le piastrelle smaltate, quelle che si usano per le pareti dei bagni e delle cucine, e di venderle alle cartolerie come articoli da regalo per bambini. Insegnò a tutta la famiglia a dipingere a olio sulla ceramica: sulle mattonelle riproducevano i personaggi della Walt Disney, Paperino, Topolino, Pluto eccetera. Ezio disegnava il contorno, poi gli altri membri della famiglia coloravano chi con il blu, chi con il rosso, chi le scarpe e i cappelli; alla fine lui ritoccava i dettagli e dava l’ultima mano di pittura. Poi andava di persona in tutte le cartolerie del quartiere per convincere i titolari a metterle in vendita, dopo aver contrattato la sua percentuale. Mio padre finì per crearsi una piccola rete di clienti, soprattutto grazie alla sua parlantina: anni dopo, però, confesserà a mia madre Carole anche le umiliazioni subite durante quel periodo, quando i negozianti lo cacciavano a male parole, come spesso succede con i venditori ambulanti. Allo stesso tempo, è possibile che questa p...