IV
Il rapimento di Aldo Moro
Colta di sorpresa dal rapimento di Aldo Moro, Washington lo interpreta come la dimostrazione di un salto di qualità operativo delle Brigate rosse e un evento destinato, da un punto di vista politico, a favorire il Pci. Il motivo è la rapidità e l’efficacia con cui Enrico Berlinguer guida la linea della fermezza contro le Br, che l’amministrazione Carter condivide. La Dc, frastornata e divisa, appare sempre un passo indietro rispetto al Pci: segue di fatto la scelta di Berlinguer mentre nelle piazze le sue bandiere bianche confluiscono nei cortei del Pci contro le Br. Le incertezze della Dc nelle diverse fasi del rapimento avvalorano il timore degli americani che la morte di Moro possa portare il Pci non solo al governo ma a guidarlo.
Niente descrive meglio la debolezza della Dc dell’episodio del falso memoriale consegnato da Zaccagnini all’ambasciata americana a Roma nel tentativo di delegittimare il Pci. Così quando Craxi apre alla trattativa con le Br Washington teme che trascini la Dc verso la scelta peggiore, ma Signorile e Manca spiegano agli americani che è vero l’esatto opposto: il Psi vuole sfruttare la crisi per insinuarsi fra il Pci e la base dell’elettorato di sinistra. È una strategia che pagherà nelle urne, trasformando Craxi nel più stretto alleato di Washington.
La strage di via Fani con armi russe
La mattina del 16 marzo un commando delle Brigate rosse rapisce il presidente della Dc in via Fani a Roma, uccidendo i cinque uomini della scorta. Da Washington arriva in via Veneto una lunga richiesta di informazioni e l’indomani, 17 marzo, alle 15 ora di Roma, Gardner risponde con un cablogramma indirizzato al segretario di Stato, con richiesta di consegna «immediata» e intitolato Kidnapping of Aldo Moro, il rapimento di Aldo Moro.
«Ancora non abbiamo contattato le autorità di polizia su questa vicenda» esordisce il testo «perché il momento è inopportuno in quanto tutte le forze di sicurezza sono impegnate in una massiccia ricerca e nell’opera investigativa.» Gardner non spiega quali sono le fonti su cui si basa ma precisa che «qui riassumiamo tutto quanto si sa fino a questo momento», promettendo che «un rapporto più dettagliato verrà in seguito».
Ecco dunque la lettura degli avvenimenti di via Fani che arriva al Dipartimento di Stato. Si parte dalla minuziosa descrizione dell’agguato. «I terroristi hanno adoperato una Fiat 128 station wagon che ha frenato all’improvviso davanti all’auto principale che le ha quindi urtato contro, subendo da dietro l’impatto della macchina della polizia che seguiva e intrappolando così l’auto principale fra le altre due, senza adoperare altre barriere. Una grande auto americana sarebbe stata in grado di spostare la 128 così come avrebbe potuto fare la Fiat 130 – l’auto principale – ma il problema è stato che la scorta della polizia non ha avuto tempo di reagire, essendo stata sterminata tutta nel giro di pochi secondi». L’altro punto debole si è rivelato il fatto che la «Fiat 130» di Moro «non era blindata» e così «i due agenti che viaggiavano davanti, uno dei quali era l’autista, sono stati uccisi». Poiché siamo in una stagione europea segnata da atti di terrorismo in più Paesi, soffermarsi su tali aspetti suggerisce l’interesse di Washington per la dinamica degli eventi, di cui si temono probabilmente imitazioni. Riguardo a Moro, «va a prendere la comunione ogni mattina nella stessa chiesa» e dunque i suoi spostamenti erano prevedibili. Il rapimento, peraltro, è avvenuto in un giorno non comune, «perché era in programma la presentazione del governo alla Camera dei Deputati» che avrebbe portato «all’inizio del dibattito» sul nuovo esecutivo sostenuto dal Pci.
È quando si affronta il tema delle armi adoperate dal commando che il cablo suggerisce la pista sovietica: «Si ritiene che i terroristi abbiano usato una pistola automatica russa Tula Tokarev TT, risalente al 1930, che normalmente spara proiettili calibro 7,62 ma può adoperare anche munizioni Mauser più grandi. Al momento è adoperata dall’esercito russo e viene anche prodotta, sotto altro nome, in Bulgaria e Cina. Fra i settantasette bossoli trovati sulla scena dell’agguato ne sono stati identificati alcuni sparati da una pistola Nagant, un’altra arma russa che risale al periodo dell’esercito dello zar. Si tratta di un’arma già in passato usata per gli omicidi delle Brigate rosse. Hanno trovato anche proiettili di una pistola automatica Mab 38, di un tipo al momento in uso alle forze armate italiane». Una ricostruzione che, introdotta dalla formula cautelativa «si ritiene», si rivelerà di fatto del tutto falsa.1
Per il resto l’agguato «è avvenuto in una zona residenziale, dove da un lato della strada c’è un bar abbandonato, alla destra delle abitazioni e all’incrocio un segno di stop, sono stati almeno dodici i brigatisti coinvolti, inclusa una donna, e a fare fuoco sono stati quattro di loro che avevano indosso le divise da piloti dell’Alitalia. Quattro erano gli austisti di altrettante vetture e quattro, inclusa la donna, erano in copertura per proteggere la fuga. Le loro identità non sono note». È il modo per far capire a chi legge che è stato svolto un sopralluogo in via Fani. Le ultime parole danno l’atmosfera di quanto sta avvenendo a Roma: «C’è ancora grande confusione su quanto esattamente è successo ma i fatti di massima sono noti».
Il rapimento di Moro favorisce i comunisti
Per analizzare l’impatto politico del rapimento di Aldo Moro l’ambasciata Usa di via Veneto il 23 marzo sceglie di riportare al Dipartimento di Stato la chiave di lettura del deputato della destra Dc Massimo De Carolis, che durante la crisi di governo è stato l’avversario interno più duro nei confronti di Andreotti. «In una lucida analisi De Carolis ha detto che il rapimento di Moro ha cambiato radicalmente il quadro politico italiano a favore del Partito comunista» perché «a differenza di gruppi terroristi in altri Paesi, come la banda Baader Meinhof in Germania, le Brigate rosse sono riuscite a causare un preciso effetto politico, ancora maggiore di quanto fecero i fascisti con il delitto Matteotti negli anni Venti.» Il rapimento dunque «non è stato un errore» per De Carolis ma ha avuto un «impatto immediato in Parlamento» dove prima dell’agguato di via Fani «vi erano opposizioni alle concessioni che la Dc era pronta a fare al Pci», a cominciare dalle nomine dei ministri. «Ma appena è arrivata la notizia della strage Berlinguer ha chiesto una riunione dei capigruppo alla Camera per chiedere che il governo venisse approvato senza ulteriori rinvii, evitando il tradizionale dibattito in aula per consentire al governo di occuparsi di salvare Aldo Moro.» La dinamica a Montecitorio descritta da De Carolis vede dunque un Berlinguer abile nello sfruttare subito a proprio favore il rapimento, per arginare i tentativi di chi voleva limitare l’impatto politico dell’intesa Dc-Pci.
L’analisi di De Carolis appare tuttavia discutibile. È proprio il rapimento di Moro, infatti, a spingere il gruppo dirigente comunista ad accantonare dubbi, riserve e critiche nei confronti della nuova compagine governativa varata da Andreotti, nella quale sono ben pochi gli elementi di discontinuità rispetto ai governi precedenti, tanto che la Direzione comunista non aveva ancora stabilito come avrebbe votato il gruppo parlamentare, e attendeva di ascoltare il discorso di Andreotti. Moro stesso, la sera prima del rapimento, aveva fatto giungere a Luciano Barca un messaggio per Berlinguer, invitandolo a non dare eccessivo peso ai nomi dei componenti il governo e di confermare la sua fiducia nell’operazione politica in corso.2 «Nello spazio di poche ore il Parlamento è finito in secondo piano, i lavori sono stati aggiornati al 6 aprile e i partiti hanno iniziato a occuparsi del rapimento di Moro», dice ancora De Carolis, aggiungendo che parallelamente a tale dinamica parlamentare «nelle piazze a dominare la reazione al rapimento è stato il Pci e non il partito di Moro» grazie alla massiccia mobilitazione «dei comunisti e dei sindacati», capaci di portare rapidamente in strada centinaia di migliaia di cittadini creando una situazione paradossale che ha portato la Dc «a non avere spesso altra alternativa che aderire alle iniziative di altri».
De Carolis paventa una situazione che «fra un anno» quando si potrebbe andare a votare, potrebbe aver creato nuovi equilibri nel Paese, schiudendo le porte della guida del governo a Enrico Berlinguer. «Ancora non tutto è perduto ma tocca ai partiti democratici dimostrare di essere capaci di riprendere l’iniziativa» conclude De Carolis, secondo cui il «gruppo dei Cento» è ridotto a venticinque-trenta unità «e al momento non va da nessuna parte», ma in futuro «potrebbe essere il nucleo di una nuova offensiva».
Il console generale Usa nel resoconto fa trapelare vivo interesse, se non condivisione, con De Carolis e, a conferma del rapporto di fiducia che sembra unirli, gli chiede anche una previsione di cosa avverrà dopo il rapimento di Moro. Ecco cosa risponde «privatamente» De Carolis: «Le Brigate rosse forse rilasceranno Moro vivo per dimostrare il potere che possiedono ma se non dovesse tornare vivo» nella Dc si aprirebbe una corsa alla successione, «con Andreotti che preferirà il governo alla Dc e visto che Fanfani non ha possibilità di emergere» la sfida sarà ridotta a un duello «fra Forlani e Zaccagnini» con quest’ultimo destinato a prevalere. Ma anche questa è una previsione sbagliata.
Le Br sono in grado di operare liberamente
A una settimana dal rapimento Moro le Br tornano a farsi sentire. Il 25 marzo diffondono un secondo documento. Si tratta di due pagine dattiloscritte fatte trovare simultaneamente a Roma, Milano, Torino e Genova, nelle quali si afferma che l’interrogatorio del presidente della Dc continua, dal che si deduce che il prigioniero è ancora in vita. Il 27 marzo l’ambasciata Usa trasmette a Washington – e per conoscenza alle missioni americane presso il comando centrale della Nato – una valutazione del nuovo passo dei brigatisti. «Il contenuto ideologico del secondo documento è simile a quello del primo e gli esperti ritengono che sia stato redatto con la stessa macchina da scrivere», e a parte la constatazione che il leader Dc è ancora vivo, «contiene alcuni punti di interesse».
Anzitutto «afferma che le Br hanno agito da sole, contraddicendo le numerose speculazioni sul coinvolgimento di stranieri» e sottolineando «il principio maoista che bisogna contare solo sulle proprie forze». In secondo luogo «contiene un violento attacco al partito di Berlinguer e ai sindacati collaborazionisti» e l’accusa ai «servizi segreti stranieri di Gran Bretagna, Germania, Israele» di «cooperare in Italia», dando vita al fenomeno «del terrorismo internazionale». «Gli Stati Uniti non hanno bisogno di partecipare a questa invasione» secondo il documento «perché sono presenti in Italia dal 1945.»
Ma ciò che più colpisce l’estensore del cablo è che, mentre «le autorità italiane non hanno ancora registrato alcuno sviluppo nelle indagini sul rapimento», sul fronte opposto «la diffusione del secondo comunicato indica che le Br sono ancora in grado di operare con grande libertà», come dimostra anche il fatto che «una copia del testo è stata lasciata a settanta metri di distanza dall’entrata del “Messaggero”, che aveva già ricevuto il primo comunicato».
Zaccagnini tenta di ingannare gli americani
Nel bel mezzo della crisi del rapimento Moro, a chiedere un appuntamento con l’ambasciatore Gardner è un alto funzionario della Dc inviato da Zaccagnini. Come una dettagliata relazione dell’ambasciata Usa ricostruisce all’attenzione di Washington in data 29 marzo, l’incontro avviene «su richiesta del segretario della Dc». L’alto esponente è Mario Ferrari Aggradi e consegna nelle mani di Gardner un documento strategico del Pci affermando che a scriverlo è stato «un membro del Comitato centrale comunista» senza però specificarne il nome. Ciò che Ferrari Aggradi spiega è che «si tratta di un parlamentare amico e collega di lunga data di Flaminio Piccoli» che ha scelto di mettere nero su bianco ciò che sta avvenendo dentro il Pci e «Zaccagnini ha deciso di far avere questo documento alla Dc».
Ciò che segue è la descrizione del testo, che gli analisti americani definiscono Documento sulla strategia del Pci sul rapimento Moro. Inizia con l’illustrazione di una duplice preoccupazione: «A livello internazionale tutto porta a far credere che ogni possibilità di controllo da parte di stranieri, cecoslovacchi e sovietici, sia passato fra le dita del Pci ma a livello politico come anche di terrorismo si può anche pensare che i leader del Pci non desiderano gli eventi che stanno avvenendo, anche se stanno portando alcuni vantaggi». Seguono le descrizioni di diversi eventi. «Segre e Incenito, della sezione Esteri, sono andati all’ambasciata cecoslovacca al fine di evitare ogni tipo di implicazioni da parte dei comunisti che risiedono nell’area Praga-Karlovy Vary e Mariánské Láznˇe con quanto sta avvenendo ora.» «Pajetta, Cossutta e Cervetti d’altra parte sono andati all’ambasciata dell’Urss per protestare contro la diagnosi superficiale e scorretta fatta dai comunisti sovietici, secondo cui l’attuale situazione è frutto di una strategia di tensione fomentata per trent’anni dalla Dc.» Inoltre durante tale conversazione è emerso che «per l’Urss sarebbe un grave errore vincere tanto in Francia che in Italia perché in tal caso le conseguenze internazionali sarebbero complicate»; dunque i sovietici puntano su una svolta solo in Italia «per cambiare l’equilibrio in Europa».
Il documento continua soffermandosi sul ruolo del Kgb nelle guerre in atto in Africa, sulle «responsabilità del Pci nell’infiltrare i propri giornalisti ovunque» e sullo scenario che la morte di Moro possa portare alla «formazione di un governo di unità nazionale sul quale Ugo La Malfa apparentemente è già d’accordo». Riguardo ai rapporti fra Pci e Br, il documento descrive l’inizio di un’operazione dei comunisti dentro Enel, Sip, Ferrovie, gli enti che forniscono luce, gas e acqua, per «opporsi ai simpatizzanti di Autonomia, Br e Nap», dilungandosi poi sui comportamenti di singoli funzionari del Pci.
Tuttavia il commento finale, firmato «Gardner», demolisce tali pagine come un volgare falso: «Dopo aver guardato attentamente al documento abbiamo seri dubbi sulla sua autenticità, a giudicare dai contenuti e anche dallo stile grammaticale ci chiediamo se sia stato davvero scritto da un membro del Comitato centrale del Pci come ci è stato detto»; per questo «esiste la possibilità che il documento sia il frutto del tentativo di un conservatore di imitare un comunista». Da qui i «dubbi sui motivi che può avere avuto Zaccagnini a farci avere un documento che è essenzialmente analitico, privo di fatti concreti, e un’ipotesi può essere che la leadership della Dc, in assenza del presidente Moro, stia diventando molto allarmata sulla prospettiva di una mobilitazione nazionale del Pci anche se tale prospettiva solo pochi giorni fa ci è stata smentita da un alto funzionario del Pci» stesso. Insomma, Zaccagnini ha tentato di ingannare gli americani fornendo loro un documento falso al fine di infondere negli statunitensi uno stato di allarme verso mosse che il Pci non ha alcuna intenzione di compiere.
Moro, un necrologio affrettato
Il 18 aprile, trentesimo anniversario della vittoria elettorale della Dc sulle sinistre, le Brigate rosse diffondono il comunicato nel quale si afferma che Aldo Moro è stato giustiziato «mediante suicidio» e che la salma può essere trovata sui fondali del Lago della Duchessa, fra le montagne a est di Roma. Il comunicato (che poi si scoprirà essere opera del falsario Tony Chicchiarelli, diffuso per sondare le reazioni politiche e preparare l’opinione pubblica alla morte di Moro) afferma inoltre che «questo è solo l’inizio di una lunga serie di suicidi che non possono essere solo una prerogativa della banda Baader Meinhof», i cui cinque leader sono stati trovati senza vita in un carcere nei pressi di Stoccarda e della cui morte è stata accusata la polizia federale della Germania Ovest.
Gardner informa in proposito il segretario di Stato Cyrus Vance con un telegramma che parte alle 12.24 e la valutazione di Washington su quanto sta avvenendo deve essere molto seria perché l’indomani 19 aprile l’ufficio del segretario di Stato confeziona il «messaggio di condoglianze» firmato dallo stesso Vance. Le ricerche al Lago della Duchessa sono ancora in pieno svolgimento, il corpo di Moro non si trova – e non si troverà – ma la beffa delle Br riesce a ingannare Washington al punto che il testo «da consegnare al ministro degli Esteri Forlani in caso di conferma dell’assassinio» è pronto. Eccolo: «La prego di accettare le mie profonde condoglianze per la tragica morte di Aldo Moro. Condivido profondamente con Lei lo shock e l’amarezza che tutti gli italiani provano per la sua scomparsa. Aldo Moro ha contribuito molto allo spirito di amicizia e comunanza di intenti che esiste fra le nostre nazioni e nella Comunità Europea. I suoi risultati garantiranno degli standard di continuità grazie ai quali tutti potranno misurare gli statisti che verranno dopo di lui. In questo momento difficile per la democrazia italiana, desidero assicurarLe il costante sostegno del mio governo e di tutti gli americani per i vostri sforzi nella difesa dei valori e degli ideali cari a tutti noi e alle nazioni democratiche. Cyrus Vance». L’intesa fra Washington e l’ambasciata di Roma è che il testo sarà diffuso «nel briefing di mezzogiorno del Dipartimento di Stato a seguito della conferma dell’assassinio».
Tale conferma non arriverà mai, ma per tentare di comprendere la fretta con cui l’amministrazione Carter era pronta a chiudere la vicenda del rapimento giova la lettura di un telegramma precedente, datato 11 aprile, e trasmesso al Dipartimento di Stato a seguito della diffusione da parte delle Brigate rosse del quinto comunicato, ovvero otto pagine di confessione scritte di proprio pugno da Aldo Moro e fatte rinvenire il 10 aprile. In questo testo ciò che colpisce gli analisti americani è da un lato l’appello di Moro per uno scambio con «prigionieri politici», ovvero Br detenuti dallo Stato, e le accuse nei confronti dell’ex ministro degli Interni e della Difesa Paolo Emilio Taviani non solo di «frequenti oscillazioni fra la destra e la sinistra» ma di «aver avuto contatti diretti e confidenziali con l’America», facendo convergere «forse contro di me una certa influenza americana e tedesca». È una lettera con la quale Moro inizia a entrare in conflitto con gli interessi di Washington, fermamente contraria a ogni tipo di negoziato con i terroristi, in disaccordo nella definizione dei Br arrestati come dei «prigionieri politici» e sorpresa dalle rivelazioni su Taviani.
Berlinguer paladino della fermezza contro le Br
Il 23 aprile Enrico Berlinguer arriva a Firenze per partecipare al XXI Congresso nazionale della Federazione giovanile comunista italiana (Fgci) guidata da Massimo D’Alema. È un funzionario del consolato Usa di Firenze, che si firma «Wright», a seguire i lavori e a inviare il 24 aprile un cablo a Washington nel quale mette in risalto come Berlinguer continui a essere il portavoce della fermezza contro il ricatto dei rapitori di Moro. «Il segretario nazionale del Pci si è rivolto al Congresso della Fgci riunito nel Palazzo dei Congressi di Firenze» e «nel suo discorso ha affermato che la democrazia è in pericolo in Italia e i giovani italiani devono mobilitarsi per contribuire a salvarla in quanto la democrazia è un bene supremo e perdendola si perde tutto». Per questa ragione «Berlinguer ha detto che il governo non deve in alcun caso scendere a patti con le Br» perché «accondiscendere alla richiesta di liberare alcuni loro membri detenuti» in cambio della liberazione di Moro «porterebbe a una completa sfiducia nella certezza della giustizia e, probabilmente, alla guerra civile».
Il testo del cablo è di appena due pagine ma l’estensore presenta Berlinguer con chiarezza come l’artefice del «no alle Br», lasciando intendere che c’è un accordo fra lui e D’Alema proprio per mobilitare le giovani generazioni. «È stato D’Alema che ha dato inizio ai lavori del Congresso il 20 aprile lanciando la proposta a tutti i partiti democratici di formare un movimento unificato dei giovani per salvare e rinnovare il sistema scolastico, conquistare nuovi posti di lavoro e trasformare le nuove generazioni nei protagonisti della democrazia italiana.» Ma tale proposta «è stata quasi immediatamente respinta dai rappresentanti giovani...