Dedica
A mio padre
NOVECENTO ITALIANO
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I
Il cimitero di Novaglie è un frammento di terra dentro la valle che dai Lessini giunge fino in città , a Porta Vescovo, nella parte orientale.
È posto a sessanta metri di altitudine, sufficienti per poter vedere, laggiù in fondo, i campanili che svettano a ricordare che Verona è una città di Dio.
Il cimitero raccoglie i morti di quel piccolo borgo con origini addirittura preistoriche, come è attestato da un insediamento neolitico scoperto poco lontano, con tanto di cadaveri di quei tempi.
Un borgo oggi racchiuso in poche case attorno alla chiesa parrocchiale poggiata in alto, come le antiche pievi, per poter far sentire il suono delle campane e chiamare i fedeli dispersi nella campagna alla celebrazione della messa.
È raggiunto da sentieri e ora anche da una strada asfaltata e piena di curve che sale da Mizzole, a sua volta collegata con paesi dai nomi privi di significato come Nesente, Vendri, Poiano.
La gente oggi preferisce vivere in città e lavorare in fabbrica invece che coltivare una terra scoscesa e faticosa, anche se capace di offrire un buon vino, un olio vergine e broccoli tanto straordinari da aver dedicata una sagra paesana le cui origini si perdono nel tempo.
Anche il cimitero si è impoverito di cadaveri, superato dalla concorrenza del Monumentale: un luogo talmente pieno di morti da doversi prenotare anni prima di arrivare, a meno di non voler essere accolti in un deposito, accatastati con altre bare, in attesa che chi occupa un loculo si faccia polvere.
Si raggiunge il cimitero salendo oltre le case, tra una vegetazione boschiva che contribuisce al senso di smarrimento. Guidati solo dalla morte.
Non contiene cappelle gentilizie. Qui sono morti soltanto contadini, noti per avere condotto vita magra, risparmiando per quella eterna.
Prima di inerpicarsi sulla via di Novaglie, si incontra Villa Balladoro dei conti Malfatti, da anni disabitata, con una chiesetta che, oltre alle reliquie di qualche santo comperate al mercato, accoglie anche le ossa della dinastia, poco santa ma molto ricca.
Sulla Marseghina, il colle più alto, si situa un antico monastero medievale con annesso un minuscolo cimitero dove trovano requie le suore della Misericordia, che così rimangono di clausura anche nella polvere.
Al cimitero di Novaglie, oggi, vanno in pochi: la vanità , che accompagna l’uomo anche da morto, rischia di far sparire questo frammento di terra ricco d’ossa e d’anime.
Angelo Spini vi si recava spesso e non trovava mai nessuno, nemmeno nel giorno di Ognissanti. Non che gli dispiacesse, anzi, ne riceveva una sensazione speciale, come si trattasse del suo cimitero privato. Apprezzava soprattutto il privilegio di poter parlare con suo padre, lì sepolto, a voce alta, come se fossero dentro la stessa bara.
Vi andava così di frequente che qualcuno in paese aveva cominciato a chiedersi il motivo di tanta insistenza. Un morto è morto e non ha granché da dirti, tanto meno novità fresche di giornata.
dp n="13" folio="13" ? Cosa va a fare? A salutare il padre defunto e dedicargli un po’ di attenzione: un requiem, un cero, qualche fiore. Per tenerselo buono, certo, ma se esageri quello si può anche seccare. Se gli chiedi un favore e non te lo fa, è segno che non può. Insistere è controproducente. Lascia perdere e va’ da un santo, da uno di quelli proclamati dalla Chiesa. Il tuo defunto potrebbe non essere in paradiso: e allora è inutile chiedere miracoli. Speriamo sia in purgatorio, ma allora meglio far celebrare tridui e novene in modo da accelerare il passaggio al paradiso, da dove soltanto ti può accontentare. Tieni presente che il periodo di purgatorio si misura con eterno, non con gli anni della terra. È difficile gli abbiano dato trent’anni: sarebbero niente e glieli avrebbero condonati. Se ha preso di più, lascia perdere, aumenti il suo senso di dispiacere e di impotenza: non può fare robe da santi. Va’ in una chiesa. Cosa fai in cimitero? Anche d’inverno, col freddo. Ti prendi qualche accidente e crepi.
A meno non si tratti di perversione: c’è gente che defeca in cimitero, persino chi tira fuori il pene, proprio lì, robe da matti.
Angelo Spini non solo si recava sovente tra quelle lapidi ma ci rimaneva a lungo. Non sapeva il perché di quella sua abitudine, forse un particolare legame col padre, morto piuttosto giovane e lui, il figlio, lasciato ad affrontare la vita da solo.
Non aveva nulla, poi, da chiedergli. Stava là a guardare la tomba, una lastra di marmo bianco con su scritto «Luigi Spini: 1911-1973». Nient’altro. Camminava sovente davanti a quella pietra, talvolta vi girava attorno, con cautela per non calpestare le altre. Tra il margine di una pietra e l’altra, infatti, non c’erano più di dieci centimetri e bisognava stare bene attenti a muoversi.
Ci andava volentieri, anzi, gli era diventato impossibile non andarci, come se sentisse venirgli meno una sicurezza o tradisse un dovere. Per fortuna, in quel cimitero non c’erano custodi e orario di chiusura come al Monumentale.
dp n="14" folio="14" ? Ci andava talora anche di notte. Usava una lampada dapprincipio, ma poi aveva preferito le candele: gli piaceva quel tremulo muoversi della fiammella, sempre vicina a spegnersi. Angelo Spini faceva di tutto per tenerla in vita, prodigandosi in salvataggi miracolosi. In qualche momento lo stoppino si ergeva nudo come uno scheletro, ma subito la chiusura a schermo della mano e la contorsione del corpo per ripararla dal vento rianimava la fiamma.
Provava gioia entrando e raggiungendo quella tomba. Qualche volta sorrideva sulla scia di un ricordo buffo, come quando lui e il padre avevano caricato sulla Topolino una gallina da cortile che era riuscita a scappare dal finestrino obbligando entrambi a rincorrerla in strada. Talvolta piangeva, disperato, incapace di spiegarsi perché mai se ne fosse andato tanto presto, senza dargli il tempo di stare di più insieme e magari rimediare a una parola dura uscita per stanchezza, in una di quelle situazioni in cui sei tanto frustrato da buttare fuori la rabbia con chi non c’entra nulla.
Angelo Spini era un uomo occupato, e se era fuori città o preso da impegni all’estero, a quel cimitero andava con la fantasia, con quella straordinaria capacità della mente umana di essere in un luogo ma di immaginare di trovarsi in un altro. Il tuo corpo è su un taxi ma tu sei al cimitero e vedi la lapide in maniera precisa e ogni tanto ti piace alzare lo sguardo e ammirare la valle con i suoi campi che sembrano disegnati da un bravo pittore, uno che sa mettere in risalto gli ulivi e il loro volto antico, i grossi tronchi tormentati ma ben fissati su radici eterne.
Gli ulivi, dal momento della loro collocazione nel terreno, rimangono per sempre, perché su quelle radici continuano a prendere vita nuovi ramoscelli in un intrico di rami che somiglia alla testa di un pazzo con i capelli al vento. Li trovava adatti alle meditazioni su un padre morto, radice dei figli e a sua volta impiantato su quella stessa radice che attinge all’eterno. Una radice da sempre e per sempre.
dp n="15" folio="15" ? Non poteva fregiarsi di una genealogia insigne, una di quelle che si disegnano nelle grandi mappe di famiglia, impreziosite magari da uno stemma e da un epigramma in latino.
Luigi Spini non era stato nessuno, poteva vantare una radice secondaria, gregaria. Aveva conosciuto il potere soltanto perché lo aveva servito.
Angelo era attaccato a quella tomba, anche perché era lì che desiderava fosse deposto il suo corpo, vicino a quello del padre.
Non si poteva certo aprire la cassa e riposare insieme. Si potevano però accostare le due bare, ma per questo doveva morire presto, perché se tardava un po’ avrebbero dissotterrato il padre e buttato i resti nella fossa comune. E ogni sogno di stare vicini sarebbe finito miseramente. Un morto ha diritto di sepoltura per quarant’anni e, dunque, nel 2013 il padre sarebbe stato sfrattato.
Chiedere una gentilizia sarebbe stato uno scandalo, come se un operaio delle Ferrovie dello Stato acquistasse una villa sulle Torricelle, località stupenda della città da cui si vedono i tetti rossi e l’Adige che si snoda come un pitone addormentato e fascinoso.
Come fa ad acquistare un terreno in quel minuscolo cimitero e innalzare una cappella? Ma chi crede di essere? Una violenza sui morti, che si devono stringere per lasciare spazio a una villa della morte.
Il padre sarebbe stato il primo a opporsi.
Luigi Spini, in una situazione del genere, sarebbe arrossito, con la voglia di scappare e di tornare in vita, al suo lavoro di muratore. Non che non fosse animato dal desiderio di migliorare la propria situazione economica e sociale: la carriera entro la povertà , purtroppo, è difficile e quasi sempre lenta. Lui comunque un po’ di strada l’aveva fatta, perché era partito da manovale, che semplicemente prende i materiali da un luogo e li porta in un altro, ed era diventato uno che alza muri combinando e ordinando i materiali che gli portano i manovali. Se gli fosse stata concessa altra vita, sarebbe forse diventato un capomastro e poi un piccolo impresario, ma la vita purtroppo è falcidiata dalla morte, che arriva sempre troppo presto.
Passi notevoli, i suoi, se misurati sulla storia precedente della famiglia, ma non tali da giustificare la pretesa di una gentilizia.
Molti si ricordavano ancora di Luigi Spini e sapevano bene chi era e come avesse passato l’infanzia. Una vita di fatica e di rispetto, simile alla loro, e a nessuno era venuta in mente una tomba da ricchi, che invece di nasconderti dentro la terra ti innalza visibilmente al cielo. Un nessuno da vivo non può credersi un padreterno da morto.
Bieto Capusso ricordava perfettamente. Era, anno più anno meno, il 1920. Il padre di Luigi, Angelo (i nomi Luigi e Angelo passavano da sempre e alternativamente ai primogeniti), tornando a casa in bicicletta da Verona, dove lavorava come manovale, si sentì male e lo trovarono morto sulla strada. Il medico sostenne, dopo averne constatato il decesso, che fosse ubriaco. Idiozie da medici, che vogliono vedere anche l’impossibile. Un morto non può sembrare ubriaco nemmeno se lo è, perché sta fermo, è pallido, non dice una parola e non presenta nessuna di quelle espressioni di cui l’ubriaco si decora nella sua recita.
Fu un dramma, non solo perché non sarebbe più tornato a casa il capofamiglia, ma soprattutto perché non sarebbe più entrato uno stipendio alla fine della settimana. Ed erano molti a doversi sfamare.
Il parroco organizzò subito una lotteria e mise in palio la bicicletta del morto. I fedeli comprarono i biglietti sperando di possedere il numero estratto durante la messa grande della domenica successiva. Naturalmente, la vendita portò a un introito di beneficenza salutare per la famiglia, che poté così tirare avanti per un po’.
dp n="17" folio="17" ? Una storia tanto triste non può avere un capitolo dedicato alla gentilizia Spini nel cimitero di Novaglie. Sarebbe come se una meretrice d’un tratto si atteggiasse a vergine e volesse far credere di meritare la beatificazione. Tutti hanno nella memoria cosa quella tenesse sotto le gonne, sempre alzate e senza segreto alcuno.
Se non ci si monta la testa, allora storie poco entusiasmanti da raccontare, non ti vengono neppure alla mente. Bieto poteva abbondantemente ricordare il numero di bestemmie che tiravano fuori gli Spini e avrebbe senz’altro mandato a dire ad Angelo di frequentare meno il cimitero e magari di farsi vedere più spesso in paese, parlare con la gente che, invece, lui sembrava evitare con una certa puzza sotto il naso.
In verità ad Angelo Spini della gentilizia non importava nulla, anzi, era convinto che la superbia, da morto, fosse ancora peggiore di quella che anima i vivi. Era una persona modesta sulla terra e desiderava, per la morte, una pietra come quella del padre, diversa solo per le date. Sperava comunque che nel suo caso si applicasse la regola del recupero e dunque, poiché il padre era morto troppo precocemente, a lui spettasse un’onorata vecchiaia.
E non aveva alcuna puzza sotto il naso: era defilato, è vero, ma non per questioni di naso, bensì di riservatezza e di tempo limitato, che anziché all’osteria del paese giocando a briscola o a tressette, preferiva spendere parlando un po’ con il padre, che amava e a cui aveva dedicato poco tempo quando era in vita. Una strategia dell’esistenza che non aveva nulla di denigratorio nei confronti dei pochi abitanti di Novaglie.
Angelo Spini non era un uomo di fede.
Non credeva affatto che, dopo la morte, si andasse da qualche parte, occupati a fare qualcosa. Era dell’avviso, invece, che ci fosse il Nulla ad attenderlo, e dunque che tutto diventasse polvere. L’eterno, sogno di onnipotenza dell’uomo, serviva semmai a misurare la sua finitezza e pochezza. Si esiste, da morti, in un loculo della memoria di qualcuno che ti ha voluto bene e ti ricorda. Andare al cimitero era per Angelo un’operazione del desiderio, della nostalgia, non finalizzata a incontrare un morto vivo. Il pensiero dei resti del padre, semmai, stimolava la sua mente e il ricordo e così era come se quel padre fosse vivo e si potesse rimediare al tempo perduto, quando lui esisteva realmente, ma Angelo era occupato in altre questioni, non ultima una metamorfosi di famiglia che chiudesse per sempre la fase dei muratori.
Innalzare una gentilizia al Nulla era un’impresa folle, ma non gli sembrava lo fosse voler riposare vicino al padre, come non gli sembrava tanto assurda l’idea di trascorrere qualche notte al cimitero, magari dormendo al riparo di una tenda, una canadese.
Angelo Spini era un razionalista, riconosceva alla ragione il potere di convincere e di convincere in maniera duratura, ma non pretendeva che spiegasse sempre tutto e che dettasse ordini appropriati in ogni occasione. Di fronte alla morte, doveva riconoscere che la ragione non serviva a molto.
Era un razionalista che andava al cimitero a parlare con un padre ridotto a quattro ossa, consapevole di essere lui a tenerlo vivo nella sua testa, nel ricordo, e che l’andare al cimitero non servisse ad avvicinarlo al suo sorriso, alla sua saggezza, a quel suo calpestare la terra leggero per non disturbare.
La ragione è una buona guida, purché non si pretenda di farla funzionare sempre e dappertutto. Di fronte alla morte, inevitabilmente perde di forza e deve lasciare spazio all’irrazionale, nel comportamento e nel pensiero.
E certo irrazionale era l’ansia con cui Angelo Spini, tornato da un viaggio, depositava in fretta i bagagli a casa e correva subito dal padre.
Sulla sua tomba si sentiva diverso, come si svuotasse del quotidiano. Di fronte a quelle parole scolpite sul marmo si percepiva differente. Con la testa impregnata di morte e non più di esistenza concitata e assurda, di un agitarsi che pareva agonia. Di fronte a una tomba, a che vale il successo? A cosa il denaro?
Ma non si perdeva in pensieri filosofici. Si riempiva di quel cespuglio che a settembre si punteggiava di nocciole, che lui raccoglieva gustandosi quel sapore di morte che le rendeva uniche. C’era anche un ulivo, dentro il cimitero, e faceva frutto. Ma nessuno lo raccoglieva, perché nessuno si sognava di condire l’insalata o i broccoli con l’olio dei morti. Così quelle si staccavano, crepavano a terra e si seppellivano.
Se alzava lo sguardo, poi, Spini abbracciava con gli occhi la valle e si lasciava scorrere in un viaggio infinito, soffermandosi ad ascoltare la storia delle viti che, secche come la morte d’inverno, si rivestono di verde a primavera per addobbarsi di ninnoli a settembre, come una vergine in festa fremente della voglia di ubriacarsi di vita e d’amore.
Una storia che pochi ascoltano, pensando che quella dell’ uomo sia la sola interessante e ignorando quanto splendore ci sia in un grappolo d’uva bianca e quanto sapore in un acino.
Certo non è necessario andare in un cimitero per ammirare un fiore o una vite in autunno. Ci si può fermare lungo la strada o entrare in un campo. Ma Angelo Spini si accorgeva di questa vitale bellezza solo là , vicino alla morte, e solo là poteva condividerla con il padre, con la persona che più amava. Talvolta, quando avvertiva la stanchezza, si sedeva sulla tomba e sembrava una di quelle statue funebri che vegliano sul defunto per sempre. Una statua con tanto di giacca e cravatta, di scarpe lucide.
Se, in un angolo, ci fosse stato un chiosco con vendita di bibite e di gelati, durante la stagione calda Spini avrebbe offerto un bicchiere, invitato qualche morto mai visto prima a prendere insieme un aperitivo. Non poteva certo farlo con un vivo: al solo pensiero della morte, la gente mette in scena interi repertori scaramantici. Si dimentica che la morte è attaccata alla vita, che ognuno se la porta addosso. Che si vive con la morte e di morte.
Ma è ben per questo che i cimiteri devono essere nascosti, come quello di Novaglie: per raggiungerlo bisogna girare a sinistra salendo oltre il paese e immettersi in un piccolo sentiero c...