Principia
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La caduta delle certezze

  1. 672 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La caduta delle certezze

Informazioni su questo libro

L'uomo… Attaccato sul vuotoAl suo filo di ragno… Giuseppe Ungaretti «È tempo di incominciare un viaggio dentroi princìpi, che significa dentro l'uomo: di ieri, di oggi...per rendere possibile un futuro, l'uomo di domani.» Vittorino Andreoli I princìpi che da secoli erano un punto di riferimento indiscusso non sembrano più guidare il nostro agire, mentre le scienze positive pongono più interrogativi che certezze. E in questo clima di disgregazione si è imposto uno stile di vita che mira soltanto ad arraffare, «qui e subito» e senza alcuno scrupolo, gli idoli di oggi: ricchezza, potere, sesso... Tutto è entrato in crisi: la politica, l'etica, i rapporti umani, il rispetto della vita e della morte, centrifugati in un teatro dell'assurdo dove si vive soltanto nell'«attimo presente» senza curarsi minimamente del futuro.In questo libro Vittorino Andreoli, da sempre attento ai problemi dell'uomo, ci guida in un viaggio, affascinante e doloroso, alla scoperta di quei princìpi che per secoli hanno guidato il nostro comportamento e delle cause della loro caduta. Un viaggio nel quale si racconta il declino di una civiltà che riuscirà a sopravvivere solo se troverà il coraggio di scoprire nuove basi su cui rifondare la propria identità.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
Print ISBN
9788817014915
eBook ISBN
9788858627006

INTRODUZIONE

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Busto di Marco Tulio Cicerone
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Tempio di Selinunte (500 a.C.)
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H. Rembrandt, Matteo evangelista (1661)
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A. Rodin, Il pensatore (1880)
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Discarica abusiva di rifiuti
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Desertificazione, effetto crosta
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La malattia dei Principia

Se fosse possibile guardare una società con una visione d’insieme o con un coup d’oeil, come si fa di fronte a un paesaggio o a un’opera d’arte, indubbiamente verrebbe da dire che quella in cui viviamo è una società in cui mancano i princìpi. E forse, passando alla semantica, potremmo affermare che termini come leggi, categorie, concetti, concezioni e così via appaiono stonati di fronte ad altri, come flessibilità, adattamento, creatività, novità, successo, avventure, che invece sembrano à la page e dunque espressione del nostro tempo.
Un florilegio, quest’ultimo, che rimanda al tempo presente, alla capacità di cogliere la palla al balzo, di mostrare abilità nel cambiare maschera a seconda del personaggio che si interpreta in quel preciso istante sul palcoscenico di una esistenza che si improvvisa e si inventa momento per momento.
Persino il lavoro, che dovrebbe essere legato a un mestiere appreso teoricamente e poi imparato con l’esperienza, si è trasformato nella capacità di fare di tutto e di farlo solo per poco.
Questa impressione generale non può che far riferimento a un tempo in cui non era così, dove dominavano inviti alla coerenza, alla identità di ciascuno per far sì che non si diventasse una marionetta tirata da fili senza conoscere che cosa il burattinaio gli avrebbe fatto fare; oppure per non essere uno di quegli attori che ora rappresentano un personaggio tragico, ma subito dopo uno allegro e sciocco. Fa riferimento a una cultura in cui la letteratura era quella di Pirandello, che in Uno, nessuno e centomila rappresentava nel personaggio di Vitangelo Moscarda il disagio di chi non riesce più a riconoscersi e, guardandosi allo specchio, ha l’impressione di essere un altro, con quella serie di sensazioni per cui il gioco è di essere diverso da come ti vedono gli altri ma anche diverso da come ti vedi tu, per cui alla fine sei un indistinto che vaga in un mondo in cui non ti riconosce nessuno e d’un tratto diventi estraneo a te stesso e a tutti quelli che ti sono vicini.
Insomma, un tempo in cui il termine schizofrenia – che indica una scissione dell’Io che dunque diventa un doppio fino a frammentarsi – era impiegato dagli psichiatri per indicare una situazione patologica assai grave, mentre ora suona come una caratteristica non negativa, semmai come un segno di ricchezza dove invece del solito Io si possono giocare diverse identità. E si giunge ancora a un dato del tempo presente in cui persino l’identità di genere, che permetteva di distinguere il maschio dalla femmina e si poteva dire: «Questo è veramente maschio e quest’altra è un esempio pieno di femminilità», ora è venuta meno e ognuno, guardando la propria biologia e scoprendosi con segni evidenti dell’uno o dell’altro sesso, subito si interroga con ansia per trovare i segni dell’altro genere che vuole dentro il proprio insieme. E allora quel ragazzotto muscoloso scopre di avere il 25 per cento di femminilità che vede manifestarsi nella dolcezza del desiderio o nel darsi da fare ai fornelli o nell’accudire al pupo, giungendo persino a fare sogni ricorrenti in cui si vede gravido.
Il riferimento ideale del tempo presente è l’anfotero,1 termine usato nella chimica ma che indica anche colui che è maschio e femmina, un efebo se è un giovanotto. E ormai nella nuova storia di Giulietta e Romeo si racconta come lui sul balcone sciolga le trecce affinché lei, con la zazzera all’umbertina, possa salire per il fatidico bacio.
Insomma, la mia impressione, pur a questo livello, appare fondata e sembra che si possa confrontare con un passato in cui la società era completamente differente.
Ma proprio a questo punto bisogna riflettere, poiché il tutto potrebbe riferirsi a una società diversa e questo non può essere un difetto, almeno come concetto generale, e la mancanza rilevata potrebbe ancorarsi a un’insana voglia di passato e quindi a una nostalgia che mostra semplicemente un amore per ciò che è già stato e una fobia per il nuovo. Insomma, la sensazione che non ci sono più princìpi potrebbe concludersi con la precisazione che non ci sono più i vecchi princìpi ma ciò di per sé potrebbe essere un segnale di un cambiamento che è anche progresso. Inoltre potrebbe voler dire che noi consideriamo princìpi e diamo questo nome a ciò che per noi riveste un significato, mentre ciò che non presenta questa caratteristica viene da noi definito perdita di princìpi perché non siamo pronti o disposti ad attribuirgli un nuovo significato e quindi a cambiare.
Se il tutto si concludesse come un cambio di princìpi, della tavola di valori – come si diceva un tempo –, non ci sarebbe da meravigliarsi più di tanto, semplicemente si dovrebbe considerare che nell’uomo c’è una difficoltà al cambiamento e dunque una resistenza a seguire la nuova strada sulla quale in qualche modo si è andati avanti.
A me sembra però che non si tratti di una rotazione di princìpi, ma proprio di una distruzione del termine stesso, per cui non si vogliono princìpi. Si pensa che ogni legge tenderebbe a ingessare il comportamento e a limitarlo, che i concetti siano steccati che escludono molte altre cose, infinite altre, e dunque non ha nemmeno senso identificarli con un termine.
L’impressione è che non si sia distrutto un principio, ma la stessa struttura, la categoria dei princìpi, perché non servono, anzi rendono la vita difficile, come se il corpo sociale fosse completamente ingessato a causa di fratture multiple e in questa situazione uno sopravvive, ma certo non si muove e rimane immobilizzato in un letto di ospedale di un reparto di ortopedia.
Per usare la vecchia metafora della forma e del contenuto, o del vaso e di ciò che contiene, qui non è stato cambiato il contenuto, l’olio o gli aromi, ma è stato rotto il vaso e quindi non c’è un luogo, la metafora della categoria, per contenere i princìpi.
E volendo giocare con le parole sembrerebbe che l’unico principio inconsapevolmente assunto sia appunto quello di non avere princìpi. O, facendo un esempio che si riferisca alle varie forme di governo, si tratterrebbe di una anarchia che non vuole sostituire il liberalismo con lo statalismo o la democrazia con la dittatura, ma che proprio rifiuta in toto ogni forma di governo. E anche qui il gioco di parole è che l’unica forma di governo accettabile è quella di non averne nessuna, negando in qualche modo il problema stesso del governare e affermando invece il puro e semplice laissez vivre.
Queste sono le prime e immediate considerazioni di quell’occhiata data alla nostra società, che rimanda a una distruzione dei princìpi, di ogni principio, a vantaggio di non importa chi, perché ci si limita semplicemente e unicamente ad agire: importante è farlo, e non guidati da uno scopo o da un fine, e quindi da un progetto, ma solo per rispondere a degli stimoli; tutto quindi si riduce a rispondere rapidamente a quello stimolo e non è necessario nemmeno pensarci, ma valutare rapidamente il vantaggio, il risultato di quell’evento.
Se poi si passa alle regole di comportamento, si coglie che domina il «tutto è possibile»: che dipende dal quando e dal come, ma certamente non dal proibito o dall’indegno, che diventano termini altrettanto obsoleti, ormai da cancellare da ogni dizionario della lingua viva in quanto appartenenti a una archeologica.

Questa analisi è certo sostenuta da un mondo che sta modificandosi con una accelerazione che spaventa, tanto è rapida. Ci si accorge che la tecnologia sta cambiando comportamenti radicati nella storia dell’uomo. Basti pensare ai sistemi di comunicazione, che hanno di fatto eliminato ogni distanza tra i Paesi più lontani, per cui si può raggiungere un amico in Australia con la stessa velocità con la quale una e-mail passa dal salotto alla cucina. La comunicazione in tempo reale non esprime solo una variabile di velocità, ma un modo nuovo di relazionarsi, poiché ricevuta una e-mail subito si risponde con un’altra e-mail e qualora si dovesse aspettare più di dieci secondi per la risposta si trasmetterebbe un segnale indiretto di inefficienza, di non-organizzazione in un’epoca, appunto, in cui tutto deve svolgersi in tempo reale, dando prova di una latenza che ti butta fuori mercato, e allora non c’è tempo per pensare, per meditare (altro termine desueto e ormai da buttare). Una notizia diventa anche in questo caso stimolo che attiva una risposta, come se non potesse sostare dentro la testa ma subito produrre una reazione, che è di fatto un nuovo stimolo a cui si deve rispondere, e così ad infinitum. E allora la mente non serve, contano di più le dita; e la vita non dipende più dal pensiero, ma dalla velocità dei polpastrelli che battono su una tastiera di computer, anche se per poco, poiché per attivare la macchina fra non molto basterà pronunciare alcune parole o fissarla con uno sguardo che attiva l’on e poi l’off.
Non si tratta di un mutamento di quantità, ma di qualità della relazione. Noi ormai siamo in contatto con persone che non si toccano, che forse nemmeno esistono, ma che comunque attivano il mondo. Assistiamo sempre più all’affermarsi dell’uomo sensitivo,2 non dell’uomo mentale, che reagisce allo stesso modo di uno che mette la mano sul fuoco e la ritrae immediatamente prima che il segnale giunga al cervello, perché, se riflettesse, questo richiederebbe un tempuscolo che, per quanto piccolo, causerebbe l’ustione dell’arto. Ecco, è come se il pensiero rallentasse le operazioni; se ci met-tessimo a pensare, finiremmo per andare fuori mercato, bruciati. Mentre sono necessari la fretta e la risposta istantanea.
Ma senza cervello – cioè senza il pensiero – non si possono creare progetti, pretendere di avere ancora princìpi, leggi, categorie di pensiero, concetti. Questi richiedono tempo, sono noiosi, rallentano la vita che invece è un’istantanea, come si capisce bene dal telefonino che permette sì di parlare con una persona lontana e subito, ma anche di vederla, di scattare una foto, di collegarsi con internet per una notizia e poi sulle news che riguardano il momento preciso in cui schiacci il pulsante.
Se si osserva la società, si scopre che la sua principale richiesta è una digital life, non importa se sia umana o no. La human life è vissuta come una forma di degenerazione, di gente ormai fuori mercato che non sa cosa sia il successo, il quale arriva proprio nell’attimo presente e che fra un istante non ci sarà più.
La velocità del comportamento sociale sembra aver espulso dal mercato tutto ciò che necessita di tempo e, di conseguenza, lo dissipa. Che senso ha definire princìpi, chiedersi a quale concezione del mondo sia improntata la nostra vita? E poi quale vita? Quella del sabato e della domenica sera? La vita del lunedì mattina? Che senso ha parlare di vita quando si presenta come una serie di frammenti che si susseguono, regolati non secondo princìpi ma soltanto sulla base di occasioni, e la vita cambia a seconda che le si colgano al volo o le si lascino cadere?
Il principio del consumo della sessualità: ma non siamo ridicoli! Se ci concediamo per una “sveltina” sull’ascensore a un capo struttura di una rete televisiva che ci offre in cambio la possibilità di “centrare in video”, in una trasmissione dallo share altissimo, che senso ha considerare il mio corpo come parte integrante di una persona che si relaziona coerentemente con la società? Cose da pazzi!
Per non parlare della follia. Che cos’è? Basta con le definizioni e con i distinguo. Vivere è l’unica regola, correre, appagare il proprio istinto; esistere non è rispettare, ma avere successo. E chi mai ha stabilito le regole con le quali ottenerlo? La fortuna, la tempestività, l’intuizione: tutte cose che non hanno nulla a che fare con il pensiero. Se ci pensi troppo, trovano un’altra persona, e tu magari hai perso l’occasione della vita e brancoli correndo nel buio senza mai incontrare nessuno.

Ora però, in questo incipit fatto più di impressioni e di generalizzazioni, devo introdurre una mia valutazione personale. Io amo il tempo presente, lo ritengo straordinariamente ricco di novità e di persone eccezionali. Credo, in particolare, nel mondo dei giovani, nonostante alcune evidenze che ne fanno dei massacratori di ogni principio e del rispetto, legati a un iperconcreto che non si spinge più in là del prossimo weekend. Io credo semplicemente che esistano moltissime risorse, impensabili solo qualche anno fa. Insomma, non sono tra coloro che sognano una pulizia generale, una sorta di apocalisse necessaria per rimettere in piedi un passato che, anche se forse miglior...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Principia