Dedica
Questo testo è stato ampliato nella forma e nella parte illustrativa rispetto alla precedente pubblicazione: La psicologia in Casa Pascoli in Quaderni italiani di Psichiatria, vol. XIX, n. 4, Masson, 2000.
Personalità e creatività
La psicologia, che si occupa della mente e in particolare della mente dei singoli soggetti umani, si è avvicinata anche agli artisti e ha compilato cartelle cliniche là dove altri commentavano versi da accademia o oggetti da museo.
Si è sviluppata una psicologia della creatività, con un interesse volto a indagare i meccanismi che si attivano nel corso del comportamento creativo, per rispondere all’antico quesito sullo stato particolare di chi giunge alla invenzione propria dell’arte.
In un progetto più limitato, senza interesse per l’universale, si sono valutati singoli artisti analizzando quali circostanze, vissuti e stimoli abbiano potuto portare in concreto a quel prodotto estetico, a quel verso così significativo e unico, così originale.
Un progetto di comprensione generale da una parte, uno più empirico e limitato a un singolo caso, dall’altra, senza escludere ma anche senza pretendere di giungere a meccanismi comuni alla creatività.
I due filoni della ricerca non sono certo in contrapposizione, ma finiscono per incontrarsi e servire l’uno all’ altro.
L’importante, per la psicologia, qualsiasi sia l’orientamento, è procedere con una metodologia controllata e dunque con uno stile scientifico. Proprio il metodo distingue gli studi della psicologia da quelli di altre discipline che traggono dal sentire, dalla intuizione, dall’ineffabile e irripetibile la fonte che alimenta le affermazioni e il loro sapere specifico.
Così sembra accadere per la critica letteraria, o almeno per alcuni suoi filoni.
Di ognuna di queste due prospettive dentro la psicologia si potrebbe raccontare una storia, ma ciò esula dal proposito di questo libro, anche se è doveroso che io riferisca la mia posizione e in particolare il mio empirismo. Insomma, non sono un «teorico»; mi appare già enorme la dimensione del problema per un singolo autore, tanto da diventare, ai miei occhi, spaventosamente complesso, a meno di forti semplificazioni e riduzionismi, lo studio di chi voglia disegnare la mente creativa e la dinamica della invenzione estetica.
Più affascinante e più controllabile è appunto il tema limitato a un singolo artista:1 un campo ove sono più facili i controlli e le conferme sulla base di elementi che si ripetono o di ipotesi che si impongono come processi verificati e verificabili.
La fobia personale per i grandi sistemi in psicologia non permette però di sfuggire a un tema su cui mi soffermo, sia pure entro la dimensione che questa indagine rende possibile: il rapporto tra personalità e creazione.
Se si assumesse come «vero» (parola che mi terrorizza) che il poeta, seguendo Platone, non è altro che un inconsapevole ripetitore del dono d’una Musa che invia versi o guida un pennello, sarebbe del tutto inutile chiedersi chi mai siano in termini umani, e dunque fisici e psicologici, Fidia, Michelangelo o Pascoli. Ognuno di loro altro non sarebbe che un «oggetto» che si limita a scrivere o a muovere automaticamente una mano guidata da altri. Il problema semmai dovrebbe spostarsi sul rapporto tra quella Musa e i versi attribuiti a un umano.
La posizione non muterebbe nemmeno se si fosse convinti che la creatività, qualunque essa sia e sotto uno dei tanti generi possibili, è sempre il risultato di una sequenza di operazioni mentali che, sia pure umane, questa volta, ripeterebbero uno schema che va oltre il singolo per diventare appunto meccanica compositiva o poetica universale (altra parola che mi spaventa fino a essere scomparsa dal mio parco vocabolario). Inutile sarebbe indagare sulle vicende umane, sulle esperienze affettive di un poeta se tutto si riducesse alla presenza di una meccanica che sola è in grado di spiegare e di giustificare il risultato estetico e la produzione artistica.
Si creerebbe, anzi, una equivalenza biunivoca secondo cui essere poeta o artista significa essere in possesso di un meccanismo mentale, di una psicologia della creatività; e averla vuol dire essere poeti o artisti: basta soltanto mettersi nelle condizioni di esprimere una potenzialità certa, prendere in mano un taccuino o porre una tela su un cavalletto.
A questa idea fanno riferimento, in modo più o meno consapevole, tutte le affermazioni che parlano di artista nato o di predisposizione; tutti quegli studi che analizzano la presenza in un albero genealogico della capacità compositiva musicale (come nella famiglia Bach) o pittorica (come nei Bruegel o nei Della Robbia).
Studi certamente affascinanti, ma che mai hanno tentato di separare l’influenza di un certo ambiente familiare o a più ampia dimensione sociale, di stimoli a dedicarsi alla composizione o alla esecuzione da un innatismo artistico capace di emergere anche là dove le condizioni alla creatività fossero completamente assenti.
Un determinismo creativo mi pare lontano dall’essere dimostrato senza un ambiente preparatorio e stimolante, e nello stesso tempo manca una definitiva dimostrazione di una più alta creatività sulla base solo di un progetto di stimolo culturale educativo o applicativo, anche se esistono a questo proposito esempi eccellenti come il Rinascimento, che ha concentrato a Firenze una ridda di artisti e ha fatto di una città una vera bottega d’arte.
Si hanno sollecitazioni in entrambi i sensi, ma mancano studi che permettano una conclusione scientifica.
Insomma, non è possibile individuare con certezza una legge universale della creatività tale da escludere il ruolo delle vicende umane proprie del singolo artista, e nemmeno affermare che tutta la capacità poieutica stia ancorata alla storia e dunque alle vicende umane di un singolo autore: una fenomenologia che escluda un qualche processo ancorato alla biologia.
A me piace inserire la creatività del singolo dentro il comportamento e parlare di comportamento creativo, poetico o pittorico, ma anche scientifico, almeno per chi come me crede che persino la scienza abbia all’origine un forte avallo della creatività.
Ponendo l’arte come comportamento, si deve applicare un principio sostenuto oggi scientificamente e che porta a vederla come il risultato di tre fattori: uno biologico (genetico o legato al cervello), uno associato alle esperienze vissute (soprattutto quelle infantili) e un terzo legato al fattore ambientale, in grado di risentire delle condizioni proprie del momento in cui si compone e si realizza un’opera d’arte. Ambiente inteso sia in termini fisici ma soprattutto relazionali, dipendenti cioè dalle persone e dai gruppi e in particolare dalle affettività coinvolte.
Insomma, la storia non è insignificante per l’arte, ma nemmeno la costituzione organica di colui che crea. L’artista le attiva entrambe in una combinazione particolare e per certi aspetti unica. La unicità del soggetto che vive il mondo in un certo momento storico con il cervello che ha in dotazione.
Se si accetta questa posizione, la mia posizione, allora appare in tutta evidenza che l’analisi di una personalità, la sua storia, le esperienze vissute sono elementi utili per capire l’oggetto creato, il verso scritto o il dipinto compiuto. Forse ancor più utili per comprendere alcune costanti e stili che permettono di percepire un Pascoli diversamente da Leopardi e ancora distinto da Gabriele d’Annunzio.
Guai però a pensare di poter ridurre tutto a questa dimensione e quindi di voler riferire la critica e il giudizio estetico alla sola componente storico-psicologica. Si compirebbe un errore di riduzione. Ma anche guai a ritenerli inutili o ininfluenti: esercizi gratuiti e vani alla comprensione di un’opera.
La psicologia ha molto da dire alla critica e all’estetica purché mantenga un metodo e il controllo scientifico delle proprie affermazioni; insomma, se si preoccupa che ogni ipotesi e ogni affermazione corrispondano a verifiche continue e a controlli ripetuti.
I casi eccellenti
Nel 1910 Sigmund Freud pubblica Ricordo d’infanzià e fa un’analisi psicologica di Leonardo da Vinci partendo dal sogno (o meglio ricordo) del nibbio, che risale all’età di un anno e mezzo.
Applicando la tecnica psicoanalitica egli descrive alcuni aspetti della personalità di Leonardo, ricostruendo il suo rapporto con la madre e le sue esperienze infantili, sino a ipotizzarne la omosessualità e a interpretare come ricerca continua della madre e del suo volto molte delle sue opere, Gioconda inclusa.
Io stesso mi sono dedicato a questo sommo artista, e sulla base di molti elementi biografici di recente scoperti è stato possibile persino ipotizzare che il volto della Gioconda con il suo sorriso enigmatico non sia altro che un autoritratto di Leonardo in cui si vede con il volto della madre, di quella Caterina che finirà per accogliere in casa negli ultimi anni della vita di lei. Caterina, per la quale spenderà ben 40 soldi di candele di pura cera per il funerale, quando la prassi si limitava a 2 o 4. Un defunto di particolare significato.
Freud si dedicherà anche al Mosè di Michelangelo (1914), a Goethe (Ricordo d’infanzia tratto da Poesia e verità di Goethe del 1917), a Dostoevskij (1928), a Romain Rolland (1927), alla Gradiva di Jensen (1907).
Finirà anzi per creare un costume e per stabilire che la storia di una esistenza e l’analisi della sua personalità possono essere utili a chiarire aspetti della stessa produzione artistica: dei suoi stilemi e contenuti.
Dopo Freud gli psicoanalisti hanno continuato questa tradizione, sia nell’analisi di opere e di artisti, sia applicandosi alla creatività.
Non si può dimenticare che Sigmund Freud dedicò alla poesia uno studio generale che potremmo dire teorico: Il poeta e la fantasia (1908), senza per questo volere entrare nella definizione di arte, che rimane propria della critica e di una valutazione degli oggetti secondo caratteristiche e indici che sfuggono certo alle psicologie.
Un accenno a questo breve lavoro di Freud è utile proprio in tema pascoliano. Egli pone una connessione tra poesia, sogno e fantasia (sogno a occhi aperti) e pone vicino il poeta al bambino. Forse a quel bambino che ognuno si porta dentro anche da adulto (il fanciullino). Il ritorno all’infanzia è una fuga verso un periodo felice e quel mondo lo si rievoca per scappare da un concreto frustrante.
«Quanto al rilievo così dato in modo forse eccezionale ai ricordi d’infanzia nella vita dei poeti, non dimenticate che in ultima analisi esso è una conseguenza della proposizione iniziale per cui tanto l’attività poetica quanto la fantasticheria costituiscono una continuazione e un sostituto del primitivo giuoco di bimbi.»2
Non sfugge a Freud che per capire il significato estetico, l’attribuzione artistica a una composizione poetica, si deve analizzare la dinamica della fruizione, dunque l’effetto che i versi suscitano nel lettore. Un’idea che entra nella storicizzazione del senso estetico.
Il poeta «ci seduce con un profitto di piacere puramente formale, e cioè estetico, che egli ci offre nella presentazione delle sue fantasie. Il piacere così ottenuto, che ci viene offerto per rendere con esso possibile sprigionare, da fonti psichiche più profonde, un piacere maggiore, può esser detto premio di allettamento o piacere preliminare. Io sono convinto che ogni piacere estetico procuratoci dal poeta ha il carattere di un tale piacere preliminare, e che il vero godimento dell’opera poetica provenga dalla liberazione di tensioni nella nostra psiche».3
Insomma, il risultato estetico è la somma di un quid datoci dal poeta e da quanto in seguito ci mette ciascun fruitore.
I casi in cui sembrava che le psicologie avessero una più alta legittimazione a entrare sono stati quelli in cui il poeta o il pittore avevano sofferto di turbe psichiche di tale entità e natura da richiedere un trattamento psichiatrico e una degenza in manicomio.
Vincent Van Gogh, il pittore forse più quotato della modernità, è stato rinchiuso nel manicomio di Arles.
Un caso che ha portato alla ribalta un altro tema generale: la compatibilità della follia con la produzione artistica di grandi capolavori e con la loro grande realizzazione.
Un filone di riflessione che ha condotto da una parte a una negazione assoluta per la incompatibilità tra arte - l’ espressione somma delle capacità umane – e follia che è pur sempre una «rottura», una limitazione della mente e della ragione in particolare. Dall’altra, però, ha subito contrapposto un’ipotesi secondo cui la follia è uno stato di grazia per la creazione proprio perché il matto è lontano dalla ragione, dalle sue regole; è staccato da quel mondo che sovente, con le sue convenzioni e i suoi imperativi, finisce per togliere la disposizione a entrare nel mondo della creatività.
Lombroso sosteneva che i pazzi sono degli artisti e legò la follia alla genialità.
Ancora una volta due estremi che sulla base di princìpi che si vogliono universali impediscono di constatare, attraverso una analisi non preconcetta dei casi specifici, che alcuni matti sono diventati grandi artisti, ma che non è affatto necessario esserlo e che esistono casi di grandi artisti normali persino nel senso della ordinarietà: è il caso, ad esempio, di Honoré de Balzac. Ci si accorge allora che tra i matti i grandi artisti non sono affatto numerosi e non certo la schier...