Un gioco da ragazze
eBook - ePub

Un gioco da ragazze

Come le donne rifaranno l'Italia

  1. 400 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Un gioco da ragazze

Come le donne rifaranno l'Italia

Informazioni su questo libro

Troppi uomini. È stato questo eccesso maschile a metterci nei guai. Questa la malattia da cui il nostro Paese chiede di guarire: troppi uomini deboli, narcisisti e attaccati al potere nelle stanze in cui si decide — e spesso non si decide — sulla vita di tutti. La crisi che stiamo attraversando è la prova che la narrazione del patriarcato non funziona più. Che le cose non possono più andare in questo modo. Che l'economia, la politica, il lavoro, la vita non possono più essere quelli che conosciamo. È pensabile che a portarci in salvo siano quegli stessi troppi uomini, vecchi, stanchi e prepotenti, e quelle stesse logiche, quell'idea di potere, quella lontananza dalla vita reale che sono all'origine del problema? È logico che invece i temi posti dalle donne, la loro responsabilità, la loro concretezza, la loro capacità di cura, il loro senso immediato di ciò che è primario, la loro vicinanza alla vita, la loro idea di economia, di crescita e di sviluppo, la forza intatta dei loro desideri continuino a non fare agenda politica? No. Ma perchè le cose cambino, per il bene di tutti, bisogna mandare via un bel po' di quegli uomini che non vogliono mollare. E il modo più semplice per farlo è che un numero corrispondente di donne vada al loro posto. Fuori dalla Camera, che dobbiamo fare ordine! In questo libro fresco e battagliero, giocoso e intenso, Marina Terragni ragiona di potere, rappresentanza, economia e sviluppo, di bellezza e desiderio, e anche di uomini, facendo giustizia di molti luoghi comuni. Invita le donne a non accontentarsi più dell'estraneità e a portare al governo la loro consapevolezza e la loro energia. Senza alcuna paura: per dirla con l'espressione di una delle donne costituenti, le donne hanno tutto il "fiuto politico" che occorre per farcela.

Domande frequenti

Sì, puoi annullare l'abbonamento in qualsiasi momento dalla sezione Abbonamento nelle impostazioni del tuo account sul sito web di Perlego. L'abbonamento rimarrà attivo fino alla fine del periodo di fatturazione in corso. Scopri come annullare l'abbonamento.
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Perlego offre due piani: Base e Completo
  • Base è ideale per studenti e professionisti che amano esplorare un’ampia varietà di argomenti. Accedi alla Biblioteca Base con oltre 800.000 titoli affidabili e best-seller in business, crescita personale e discipline umanistiche. Include tempo di lettura illimitato e voce Read Aloud standard.
  • Completo: Perfetto per studenti avanzati e ricercatori che necessitano di accesso completo e senza restrizioni. Sblocca oltre 1,4 milioni di libri in centinaia di argomenti, inclusi titoli accademici e specializzati. Il piano Completo include anche funzionalità avanzate come Premium Read Aloud e Research Assistant.
Entrambi i piani sono disponibili con cicli di fatturazione mensili, ogni 4 mesi o annuali.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì! Puoi usare l’app Perlego sia su dispositivi iOS che Android per leggere in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo — anche offline. Perfetta per i tragitti o quando sei in movimento.
Nota che non possiamo supportare dispositivi con iOS 13 o Android 7 o versioni precedenti. Scopri di più sull’utilizzo dell’app.
Sì, puoi accedere a Un gioco da ragazze di Marina Terragni in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Social Sciences e Sociology. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2012
Print ISBN
9788817056113
eBook ISBN
9788858624487
Categoria
Sociology

Parte prima
La politica, il potere

In quella sedia ci si poteva sedere solo lui.
Mercè Rodoreda, La piazza del Diamante

Lasciatemi sognare

Qui non posso metterla: andatevela a cercare su Google immagini, la foto ufficiale della giunta di centrosinistra a Barletta.
Tutti maschi nella giunta uscente, solo maschi in quella entrante. La vecchia cara politica italiana.
Il sindaco Nicola Maffei si era trovato proprio bene, e si è rifatto pari pari il suo football club. La piazza immensa delle donne il 13 febbraio 2011 non gli ha fatto neanche il solletico.
Fate caso a come sorridono felici nella loro grottesca omosessualità politica. Tra parentesi, ma nemmeno troppo, Maffei è quello che dopo la strage delle ragazze che lavoravano in nero in un sottoscala di Barletta ha dichiarato di non gradire ispezioni a tappeto: «Non mi sento di criminalizzare chi viola la legge assicurando lavoro».
Poi, se vi va di fare un piccolo tour, andatevi a cercare la foto dell’Innovation Advisory Board di Expo 2015. Tutti maschi. E quella della giunta Formigoni, una a quindici (ora la questione è all’attenzione del Consiglio di Stato). E tantissime altre, ad libitum. Non c’è che l’imbarazzo della scelta.
Secondo voi esiste qualche altro Paese al mondo in cui il Presidente della Repubblica, con i guai in cui ci troviamo, debba perdere tempo ad azzerare per decreto giunte monosex? Come quella di Asola, centro dell’Alto Mantovano, non lontano da Milano e da Bologna con i loro 50/50 nuovi di zecca.
Dal 1995 lo statuto comunale prevede un esecutivo bisessuato. Ma a quanto pare il sindaco di centrodestra Giordano Busi non ha trovato una sola donna che funzionasse per la sua squadra.
A un certo punto ho capito che la questione andava posta in un altro modo.
Siamo animali simbolici. Le parole fanno realtà, fanno mondo. Bisogna stare attente a come le scegliamo, e anche in che sequenza le mettiamo. A volte basta invertirne semplicemente l’ordine e c’è un immediato guadagno di realtà.
Dire «poche donne» non fa fare passi avanti. La formula ha esaurito il suo potenziale.
È un po’ come quando si insiste novecentescamente sulla «questione femminile», mentre se una «questione» c’è, è senz’altro quella maschile: abbarbicamento al potere, sentirsi il centro e l’Assoluto, incapacità di fuoriuscire da logiche di dominio. Una malattia che non vuole guarire.
È qui la questione. È qui il fatto da interrogare, il problema, il blocco, il disturbo.
Come quando si parla di violenza sessuale: sono state le donne a rompere il silenzio, a dare parole a questo orrore silenzioso e privato, a farne questione politica, e infine a farne legge. Tutto quello che avevamo da dire l’abbiamo detto. Ora tocca agli uomini interrogarsi sulla loro sessualità. Il lavoro spetta a loro.
Dire «poche donne» suona come un’ammissione di colpa, di fragilità, di una minorità civile e sociale che chiede tutela e supporti pariopportunitari.
Ma se siamo messe così non è certo colpa nostra.
Nel suo primo discorso da premier, il 4 dicembre 2011, Mario Monti parla delle donne e dei giovani come «fasce deboli». L’intento è buono, è ottimo. Ma a mio parere la cosa è male impostata, e solo se la imposti bene ti avvicini a una soluzione.
Deboli semmai sono quei vecchi maschi egoisti, prepotenti, avidi di potere e di soldi, che senza queste protesi non stanno in piedi, e non mollano, e infliggono il loro handicap al mondo.
Certo, non mi aspetterei che il presidente del Consiglio lo dicesse in modo così poco presidenziale. Anche se mi piacerebbe, lo confesso.
Lasciatemi sognare.

Troppi uomini

Dare il giusto nome alle cose è indispensabile, se vuoi risolvere i problemi. Comincerei quindi con il dire che nella nostra politica ci sono «troppi uomini»: è questa prepotenza a richiedere dei correttivi.
Dire «poche donne» o «troppi uomini» non è la stessa cosa. Cambi l’ordine dei fattori, e cambia anche il risultato. C’è un salto simbolico, un guadagno di realtà, perché diventa chiaro che la gran parte dei problemi con cui ci ritroviamo a fare i conti – inefficacia, ingiustizie, sprechi, soprusi, fatiche – va ricondotta a quell’eccesso maschile.
Alessandra Bocchetti, fondatrice dello storico centro culturale «Virginia Woolf» di Roma, fa un esempio molto illuminante: quando per la strada ci capita di imbatterci in un gruppo di persone, il fatto che tra loro ci siano delle donne ci rassicura.
«Quella delle donne è una presenza civilizzatrice. Questo sentimento di timore di fronte al fatto che ci sono solo uomini dovremmo provarlo anche nella vita pubblica.» Dovremmo provarlo tutti, femmine e maschi. Per questo oggi si deve mirare «al contenimento degli uomini, del loro attaccamento al potere, del loro desiderio di apparire, della loro volontà di dominio».
Un ordine maschile ha prevalso su quello femminile, e questo non ha fatto bene al mondo e alle nostre vite. Nemmeno a quelle degli uomini. L’eccesso maschile parassita il pianeta, lo consuma, lo isterilisce.
Virginia Woolf liquida la faccenda con gran classe: «Se due sessi non bastano, considerando la vastità e la varietà del mondo, come ci potremmo arrangiare con uno solo?».*
Privata dello sguardo femminile, la politica è stata invasa da quello maschile. È proprio questo a renderla scadente e inefficace.
C’è un’unica soluzione per ridurre il danno: mandare via di lì un bel po’ di uomini. C’è solo un modo per farlo: mandare lì un bel po’ di donne.
Scordatevi passi indietro spontanei. Non c’è alcuna ragione di sperare che le cose si sistemino da sole. Almeno di qui ai prossimi cinquant’anni.
Il Paese non può permettersi di aspettare tanto. O meglio, sono le nostre vite a non poterselo permettere.
* Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé, Einaudi, Torino 2006.

Continuiamo così?

Vero: non è stata solo la misoginia dei partiti. C’è stato anche il tenersi fuori delle donne.
È il solito uovo-o-gallina: siamo ragazze pratiche, perché perdere tempo con desideri irrealizzabili? Perché lottare per portare a casa solo frustrazioni?
Abbiamo visto grandi manifestazioni sull’aborto. E la straordinaria mobilitazione del 13 febbraio 2011: quel moto di dignidad, sentimento che ha fulmineamente attraversato l’Europa, onda lunga delle rivolte che hanno scosso il sud del Mediterraneo e che è arrivata a lambire le coste nord, nel nostro Paese si è espresso anzitutto in quelle piazze di donne esacerbate dal machismo della politica italiana in generale, e da quello dell’ex premier in particolare. L’enorme piazza, più di un milione di donne – e anche uomini – che si sono mobilitate «per reagire al modello degradante ostentato da una delle massime cariche dello Stato, lesivo della dignità delle donne e delle istituzioni». Quella grande piazza diffusa è stato il primo momento di consapevolezza, l’inizio della fine di un lungo ciclo politico. Una mossa storica di cui le donne sono state il soggetto.
Ma in effetti mobilitazioni per un’equa rappresentanza non se ne sono viste mai: qualcosa vorrà pure dire.
Forse che quella politica è troppo lontana dalla vita – e noi teniamo a una buona vita? Forse è sfiducia nella sua efficacia? O diffidenza verso il «potere»?
Il «troppi uomini», del resto, non ha certo impedito alle donne di fare politica. La loro politica. La politica, a guardarla bene, forse è femminile tout court.
Intervenendo alla due giorni indetta nel luglio 2011 a Siena da «Se non ora quando» (Snoq), Linda Laura Sabbadini, direttora centrale dell’Istat, ha ricordato che le donne «hanno rivoluzionato il mondo della scuola e dell’università, e dallo svantaggio in pochi decenni si è passate al sorpasso… C’è anche stata una crescita dell’occupazione e in tutti i settori», eccetera.
Guardatevi intorno: la libertà e i desideri delle donne hanno scaravoltato il Paese, e senza dover ricorrere a deleghe.
Rebecca Solnit, bionda femminista e pacifista americana, dice che «la maggior parte dei cambiamenti viaggia dalla periferia verso il centro».* Significa che quasi sempre la politica della rappresentanza – politica seconda, come la chiamano alcune – si limita a registrare e ratificare, generalmente in ritardo, quello che è già avvenuto da un pezzo nella vita delle persone, nella politica prima.
Politica prima che all’osso si potrebbe definire gioia di vivere insieme agli altri, minimizzando il male. O anche, come sostiene la filosofa Luisa Muraro: «Le relazioni senza secondi fini [che] generano un sapere e un potere di qualità superiore a quello che si ottiene con i dispositivi del potere politico».*
Senso che risuona nel modo in cui la filosofa Wanda Tommasi parla del femminismo: «A differenza di altre rivoluzioni che, protese verso il futuro, hanno lasciato indietro la vita quotidiana […] la rivoluzione femminista l’ha profondamente coinvolta e trasformata».*
Che cosa sia questa politica prima lo racconta perfettamente la storia delle mamme e delle maestre di via Rubattino, Milano.
Da quelle parti c’è un campo rom che la giunta Moratti tenta ripetutamente di sgomberare. Tanti bambini rom vanno a scuola in via Rubattino. Alcune mamme e maestre della scuola decidono «semplicemente» di opporsi a quello che sta capitando. Danno una mano a questa gente, tengono insieme il tessuto di relazioni brutalizzato dagli interventi delle forze dell’ordine.
A Cristina Mecenero raccontano per la rivista «Via Dogana» l’esperienza che ha profondamente segnato le loro vite.
Flaviana: «La gente capiva che gli sgomberi erano una cosa “male” e ciò che facevamo noi era buono. C’è una stanchezza verso il male… abbiamo dato l’idea che si può prendere in mano la realtà e spostare, agire… posso fare, posso esserci, non delego più niente, faccio, agisco… Per noi il metodo non è stato innamorarci di un principio, ma conoscere delle persone… non erano più zingari, erano persone».
Le mamme-maestre si chiedono anche se quello che hanno fatto, quella politica di relazioni reali, c’entra con la svolta a Palazzo Marino. C’entra sì, «perché ha dato agli altri, ai cittadini, un modo di dire “prendiamoci in mano”».
In città ci sono state molte altre esperienze di questo segno, che hanno dato forma a quella nuova idea di cittadinanza e di politica in cui la svolta civica ha gettato le sue radici.
La politica prima è riuscita a segnare di sé la politica seconda.
E allora, non si potrebbe continuare così?
A me pare che se poi non si fosse lottato per quella svolta, il lavoro sarebbe stato lasciato a metà. Insomma, io quella lotta per la rappresentanza ho deciso di farla.
A un certo punto l’estraneità non mi è bastata più.
* Rebecca Solnit, La speranza nel buio, Fandango, Roma 2005.
* Luisa Muraro, Non è da tutti. L’indicibile fortuna di nascere donna, Carocci, Roma 2011.
* Wanda Tommasi, Oggi è un altro giorno. Filosofia della vita quotidiana, Liguori, Napoli 2011.

Facciamo due conti

La rappresentanza certo non risolverà tutti i problemi, ma ormai dovrebbe essere chiaro che se lì non ci sei, dei tuoi problemi – e forse, più in generale, dei problemi della vita di tutti – non interesserà un bel niente a nessuno.
Non arriverai mai a cambiare le agende della politica. Tantomeno cambierai la politica, che resterà lontana dalla vita e abbarbicata al potere.
La cosa buona, però – c’è sempre qualcosa di buono, basta avere la pazienza di scovarlo – è che stare tanto a lungo fuori ci ha permesso di restare nella nostra differenza. Differenza che oggi potremo portare lì, per farne un vero fattore di cambiamento.
Si tratta di «trasformare in politica la nostra esperienza» ha detto Alessandra Bocchetti nel suo discorso alla manifestazione del 13 febbraio. «Se partissimo dalle nostre necessità, faremmo un magnifico programma di governo.»
Come fai in casa, la mattina, quando ti alzi e programmi le tue funamboliche giornate: c’è da fare questo, manca quello, serve quest’altro. Non è così diverso. Non possiamo più permetterci che sia tanto diverso. Il bene comune va gestito come una casa.
Per convincerci facciamo due conti su quanto ci costa non esserci.
Non sto parlando in generale di ruberie e di spreco di soldi pubblici, di risorse, di umanità, di vita (noi donne soffriamo moltissimo per gli sprechi, la nostra storia ci ha insegnato a non buttare via niente, a fare magnifiche torte con il pane secco). Sto parlando di quanto ognuna di noi paga e pagherà, cash, il fatto che a decidere siano solo uomini.
Secondo alcuni calcoli la manovra dell’agosto 2011 costerà a ogni lavoratrice 40-50 mila euro. È la somma che regaleremo allo Stato ritardando il pensionamento, tra maggiori contributi versati e minori quote di pensione erogate. Un tesoretto che il Governo si era impegnato a destinare ai servizi per la famiglia.
Me lo disse personalmente e solennemente l’allora ministro Renato Brunetta, in una rovente giornata a Ravello dove lui ha la sua casa di vacanza: «Io mi impegno, io garantisco, ci metto la faccia…». Bella faccia. La promessa è stata puntualmente disattesa di fronte alla necessità di fare cassa. Deludendo le molte che ci avevano creduto, il governo Monti conferma in pieno questa impostazione.
Le donne non sono al centro della politica di sviluppo, non vengono protette dai tagli, non sono protagoniste nei settori strategici. Nei fatti, nessuna misura di valorizzazione e nessun investimento nei servizi: che, intendiamoci, non sono un regalo alle donne, ma qualcosa che serve alla vita di tutti.
A quei 40-50 mila euro che dicevamo va perciò sommato il compenso che non percepiamo e non percepiremo in cambio del nostro enorme lavoro di welfare vivente, carico sempre più gravoso causa tagli a servizi storicamente insufficienti (il welfare non è mai stata una nostra specialità): tanto per dirne una, l’asilo nido esiste solo nel 16 per cento dei comuni, e soltanto 14 nidi su 100 sono al Sud.
Dunque continueremo a non essere retribuite per quel lavoro di cura «che si vede solo quando manca», come dice la sociologa Chiara Saraceno. E in particolare per le seguenti prestazioni: amministrazione del bilancio domestico e risparmio a tutela della famiglia a fronte di entrate sensibilmente ridotte e uscite mostruosamente aumentate (triplo salto mortale!); tenere la casa, fare ...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Introduzione
  4. Parte prima - La politica, il potere
  5. Parte seconda - Il mercato, il desiderio
  6. Parte terza - Adesso