Se per un anno una lettrice
eBook - ePub

Se per un anno una lettrice

La vita. Un libro alla volta

  1. 280 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Se per un anno una lettrice

La vita. Un libro alla volta

Informazioni su questo libro

"Decisi di dare inizio al mio progetto di lettura quotidiana il giorno del mio quarantaseiesimo compleanno. Tutti i libri sarebbero stati quelli che avrei condiviso con Anne-Marie, se avessi potuto. Il mio anno di intensa lettura sarebbe stato il mio progetto personale di fuga dentro la vita." Per Nina Sankovitch è l'inizio di una folle impresa: concedersi – con quattro figli e un marito in giro per casa, tra liste della spesa, panni da lavare, merende da preparare e cene da cucinare – una pausa forzata dal mondo e dai suoi ritmi concitati. Ma soprattutto dal dolore della perdita, esploso dentro di lei con la violenza di un uragano alla morte di sua sorella Anne-Marie. Un dolore troppo profondo per limitarsi ad aggirarlo nella speranza di lasciarselo alle spalle. Dai libri Nina si aspetta di ricevere consigli e insegnamenti, distrazione ed entusiasmo, serenità e giusto distacco. Nei libri troverà molto di più. Questo è il racconto del viaggio che, iniziato tra pagine di carta, l'ha portata a ripercorrere le storie della sua famiglia e i ricordi di un'intera vita, alla ricerca della chiave capace di far scattare la serratura della felicità.

Domande frequenti

Sì, puoi annullare l'abbonamento in qualsiasi momento dalla sezione Abbonamento nelle impostazioni del tuo account sul sito web di Perlego. L'abbonamento rimarrà attivo fino alla fine del periodo di fatturazione in corso. Scopri come annullare l'abbonamento.
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Perlego offre due piani: Base e Completo
  • Base è ideale per studenti e professionisti che amano esplorare un’ampia varietà di argomenti. Accedi alla Biblioteca Base con oltre 800.000 titoli affidabili e best-seller in business, crescita personale e discipline umanistiche. Include tempo di lettura illimitato e voce Read Aloud standard.
  • Completo: Perfetto per studenti avanzati e ricercatori che necessitano di accesso completo e senza restrizioni. Sblocca oltre 1,4 milioni di libri in centinaia di argomenti, inclusi titoli accademici e specializzati. Il piano Completo include anche funzionalità avanzate come Premium Read Aloud e Research Assistant.
Entrambi i piani sono disponibili con cicli di fatturazione mensili, ogni 4 mesi o annuali.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì! Puoi usare l’app Perlego sia su dispositivi iOS che Android per leggere in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo — anche offline. Perfetta per i tragitti o quando sei in movimento.
Nota che non possiamo supportare dispositivi con iOS 13 o Android 7 o versioni precedenti. Scopri di più sull’utilizzo dell’app.
Sì, puoi accedere a Se per un anno una lettrice di Nina Sankovitch in formato PDF e/o ePub. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
Print ISBN
9788817050883
eBook ISBN
9788858628089

1.

Attraversando il ponte

È dalla consapevolezza di essere morto che vuole proteggere suo figlio. Fino a quando vivo – pensa – che sia io quello che sa! Qualunque sforzo di volontà richieda, lascia che sia io l’animale pensante che precipita nell’aria.
J.M. Coetzee, Il maestro di Pietroburgo


Mia sorella aveva quarantasei anni quando morì. Nei pochi mesi che trascorsero tra la diagnosi della malattia e la sua morte feci avanti e indietro dal Connecticut a New York per stare con lei. In genere ci andavo in treno. In treno potevo leggere. Leggevo per la stessa ragione per cui l’avevo sempre fatto: per piacere e per desiderio di fuga. Ma adesso leggevo anche per dimenticare, per una mezz’ora, la realtà che stava vivendo mia sorella. Le avevano diagnosticato un cancro al dotto biliare. Il cancro avanzava veloce e inesorabile, lasciando dietro di sé una scia di dolore, impotenza e paura.
In treno portavo sempre con me un paio di libri per Anne-Marie. Dopo aver scoperto che aveva il cancro avevo fatto una ricerca furiosa su internet – chiunque sia colpito da una diagnosi simile lo fa – e avevo scoperto che leggere libri divertenti può aiutare a combattere la malattia. I libri di evasione aiutano anche a eliminare le cellule cattive e gli articoli mi avvertivano di lasciare da parte le letture troppo impegnative. Quindi portai ad Anne-Marie Woody Allen e Steve Martin, ma anche molti libri che parlavano di omicidi misteriosi. Gli omicidi misteriosi hanno a che vedere con la morte, e nessuno di noi voleva pensarci, ma Anne-Marie aveva sempre letto gialli per staccare la spina e rilassarsi. Era una storica dell’arte e aveva passato anni a studiare testi molto densi e a esaminare dettagli architettonici, piante e fotografie. I gialli erano le sue caramelle, il suo vodka tonic, il suo bagno in una vasca piena di schiuma. Adorava i gialli con molti dettagli, dall’atmosfera cupa, con una trama inquietante. Non glieli avrei mai negati in quel momento.
Un giorno di metà aprile le portai un giallo che non avevo ancora letto. I libri di Carl Hiaasen sono torbidi e complicati. Ero sicura che sarebbe stato un ottimo antidoto contro il dolore e la paura. Sul treno lasciai da parte il mio libro e aprii Crocodile rock. Era molto divertente e pieno di atmosfera, una pazza atmosfera da sud della Florida. Presto però mi accorsi che il libro aveva troppi elementi in comune con noi. Il personaggio principale, Jack Tagger, sarebbe morto certamente a quarantasei anni. Mia sorella doveva farcela fino ai quarantasette – doveva – e non volevo che si insinuasse in lei nessun dubbio. Lessi il libro di nascosto e in fretta e non lo diedi mai ad Anne-Marie.
Se avessi saputo con certezza che mia sorella non sarebbe arrivata ai quarantasette anni mi sarei trasferita a New York per starle vicino, lasciando mio marito e i mie quattro figli in Connecticut a badare a se stessi? No, ne dubito. Anne-Marie voleva vedermi a piccole dosi. Ero la più giovane di tre sorelle: Anne-Marie era la prima e Natasha era quella di mezzo. Per tutta la vita Anne-Marie ci aveva comunicato quando aveva voglia di averci intorno o quando preferiva che non ci fossimo, e noi obbedivamo.
Siamo nate a Evanston, nell’Illinois, da genitori immigrati. Si erano trasferiti negli Stati Uniti alla ricerca di nuove opportunità, lasciandosi alle spalle le loro famiglie e ogni possibile aiuto. Avevamo creato la nostra famiglia di cinque elementi ed eravamo molto uniti. Avevamo moltissimi amici, ma io e le mie sorelle ci sentivamo quasi sempre delle estranee. In casa nostra c’erano più libri, più arte e più polvere che in qualunque altra. Non avevamo parenti che vivevano vicini, niente nonni da cui stare durante le vacanze, niente zie che potessero fare da baby sitter, nessun cuginetto con cui giocare. I nostri genitori avevano un forte – anzi, nel caso di mio padre, spaventoso – accento straniero. Nostra madre lavorava, prima come assistente e poi come professoressa a tempo pieno, da quando avevo cominciato l’asilo. Io e le mie sorelle eravamo le uniche bambine del circondario che pranzavano a scuola e le uniche di tutto il Midwest che nel cesto della merenda trovavano fette di peperoni verdi e pere rosse e dure, insieme ai più comuni sandwich di pane bianco e ai Twinkies.
I libri facevano parte della vita di famiglia, erano presenti in ogni stanza e venivano letti ogni sera da entrambi i miei genitori, sia per loro stessi che per noi. Mia madre leggeva le storie a noi bambine in salotto. Adoravo stendermi sul tappeto e, osservando il soffitto crepato, ascoltare le storie di Re Artù e dei cavalieri della tavola rotonda. Il mio personaggio preferito era Galvano, anche se più tardi questo mi causò dei complessi con i ragazzi: si lasciavano sedurre troppo facilmente, in confronto a lui. La bellissima Lady Bertilak tenta degli approcci ogni giorno, ma lui non si arrende mai ai suoi baci. Baciare i ragazzi con cui sono cresciuta non richiedeva nessunissimo sforzo, ma c’era in ballo la mia reputazione, non la loro. Poi vennero gli animali de Il vento tra i salici. Dopo Camelot, la vita nella campagna inglese mi appariva così insipida. Le cosiddette grandi avventure di Talpa e Ratto non erano altro che una serie di piccoli contrattempi e la battaglia finale mi fece sbadigliare. Non riuscivo a eccitarmi all’idea di un’invasione di donnole e viscidi rospi.
Trascorrevamo anche le domeniche pomeriggio a leggere, in casa nei mesi invernali e all’aperto, nel nostro piccolo giardino, in estate. Fu solo quando andai alle scuole superiori e conobbi il mio primo fidanzato americano che passammo la nostra prima domenica pomeriggio a guardare una partita di football. Era il Super Bowl. Un sorprendentemente galante-per-un-giorno Dan Cromer spiegò a me e ai miei genitori come funzionava il gioco. Ma quella fu l’ultima volta che mi parlò; da allora mi ignorò nei corridoi della scuola e non mi richiamò quando gli lasciai dei messaggi a casa. Non capivo niente di football, qual era il problema?
Il primo libro che ricordo di aver rivendicato come mio lo rubai dalla biblioteca della Lincolnwood Elementary School. Era My Mother Is the Most Beautiful Woman in the World di Becky Reyher. Conservo quel libro ancora oggi. Si trova su una mensola nella mia camera da letto, vicino agli altri libri prediletti della mia infanzia, e ha ancora il cartellino con la data in cui avrei dovuto riconsegnarlo: 6 dicembre 1971. Adoravo quel libro e semplicemente non me la sentii di restituirlo quando giunse il momento. Non ricordo se pagai la tassa per lo smarrimento.
Nel libro Varya, una bambina ucraina, viene separata da sua madre mentre lavorano nei campi. Le persone dei villaggi vicini che stanno mietendo il grano cercano di aiutare Varya a trovare sua madre, ma l’unica descrizione che la bambina è in grado di dare è che lei «è la donna più bella del mondo». I contadini inviano dei messaggeri in tutte le fattorie locali, chiedendo loro di mandare la donna più bella nella radura dove Varya aspetta in lacrime. Una dopo l’altra delle donne bellissime sfilano davanti agli occhi della bambina, ma lei scuote la testa davanti a ognuna di loro, singhiozzando sempre più forte. Ma poi arriva correndo una donna: «La sua faccia era grande e grossa e il corpo ancora più massiccio. I suoi occhi erano delle piccole e pallide fessure vicino a un nasone bitorzoluto. La bocca era quasi completamente sdentata». È lei la mamma di Varya, e finalmente madre e figlia si abbracciano: «Il sorriso di cui Varya aveva tanto sentito la mancanza brillava ancora una volta davanti a lei». Quella storia mi commuove ancora. Mi trasmetteva, a nove anni come oggi, l’amore innocente e luminoso tra genitori e figli.
Mia madre era davvero, e lo è tuttora, la donna più bella del mondo, e anche Anne-Marie lo era: le due donne più belle del mondo in un’unica famiglia. Il giorno in cui morì, mia sorella si sentiva abbastanza bene da sedersi sul letto e mettersi eye-liner, mascara e rossetto. Non aveva mai avuto bisogno dei trucchi per essere bella, ma le davano quel tocco in più, anche se era così malata. Quel giorno lasciò che le spazzolassi i capelli, dei bellissimi capelli biondo scuro. Era preoccupata che potessero caderle durante la cura, ma non arrivò mai a quello stadio. Avremmo dato tutti i nostri capelli solo per avere la possibilità di combattere la sua malattia. Ma il cancro al dotto biliare si muoveva troppo in fretta. Ci dissero che i trattamenti sarebbero stati una tortura, non una cura.
Non avevo programmato di andare a trovare Anne-Marie il giorno in cui morì. Le avevo fatto visita ogni giorno da quando era stata ricoverata in ospedale per la seconda volta all’inizio di maggio. Un bel mattino di primavera si era svegliata con la pancia spaventosamente gonfia. Il suo sistema si stava fermando e la bile e gli altri liquidi stavano facendo marcia indietro. Rimase a casa, sperando che le sue viscere ricominciassero a funzionare, ma la sera capì che doveva tornare in ospedale. Io ero fuori con Jack, stavamo festeggiando il nostro tredicesimo anniversario di matrimonio, quando ricevetti la chiamata. Stavamo camminando lungo la riva del fiume che si snoda dietro la strada principale della città. Riattaccai il telefono e mi allontanai da Jack, proseguendo sul molo che si inoltra nella zona paludosa vicino al fiume. C’era bassa marea e l’odore di sale, sporcizia e marciume si mescolava alla dolce, tiepida brezza primaverile. Chiusi gli occhi e piansi.
Il giorno seguente presi il treno che portava in città e poi camminai per i trenta isolati fino all’ospedale, il Cornell Presbyterian. E il giorno seguente presi di nuovo il treno, e anche quello dopo ancora.
Per l’ottantesimo compleanno di mio padre Anne-Marie se la sentì di assaggiare un tartufo al cioccolato e di bere un sorso di champagne. Andavo da lei ogni giorno e la sua salute continuava a migliorare, lei si sentiva più in forze e c’erano segnali di miglioramento. Negli ultimi tempi aveva mangiato un po’ di più, aveva parlato e riso senza difficoltà. Aveva cominciato a indossare due paia di occhiali da lettura, uno appoggiato all’altro sopra la testa, in caso di necessità. Sembrava pronta a tutto.
Presi in considerazione l’idea di stare a casa un giorno per occuparmi dei cumuli di biancheria da lavare e dei conti da pagare, ma Jack mi spinse ad andare a trovarla.
«Vai in macchina, al mattino. Sarai a casa in tempo per i ragazzi.» I ragazzi erano i miei figli più grandi, Peter, Michael e George. Il più piccolo dei quattro, Martin, andava all’asilo oppure stava con me durante il giorno. Mia madre sarebbe stata felice di vederlo. Avrebbe potuto portarlo al parco giochi vicino all’ospedale mentre io facevo una breve visita ad Anne-Marie.
dp n="19" folio="19" ?
I pantaloni che indossai per andare in città quel giorno mi stavano larghi. Nell’ultimo mese avevo smesso di mangiare regolarmente e avevo eliminato il vino di sera. Mi bastava un bicchiere per cominciare a piangere. Anche se i ragazzi erano a letto, non volevo che si svegliassero e mi sentissero singhiozzare. La gentilezza e la pazienza dimostrate nei miei confronti avevano già superato un limite che nessun bambino dovrebbe essere costretto a sperimentare. Una domenica Peter era venuto con me a trovare Anne-Marie. Quando eravamo usciti dalla sua stanza lui mi aveva gettato le braccia al collo e aveva detto: «Ti voglio bene, mamma». Undici anni, e mi stava consolando.
Solo pochi giorni prima avevo gridato a Michael che Martin era fortunato a essere troppo piccolo per capire che Anne-Marie stava morendo. Michael mi aveva risposto: «No, mamma, Martin non è fortunato. Non è fortunato perché non conoscerà mai Anne-Marie come noi». Michael ricordava i suoi sonnellini, le partite di Scarabeo e le lunghe ore trascorse con lei a giocare con il Lego. Anne-Marie faceva sempre la parte del cattivo, intento a distruggere il mondo Lego creato dai buoni. Ma alla fine il cattivo veniva sempre sconfitto.
Mi fermai in un negozio a comprare una cintura per i miei pantaloni cadenti. Volevo qualcosa che attirasse decisamente l’attenzione. Era quello il mio compito con Anne-Marie, da quando era in ospedale: catturare la sua attenzione, farla ridere o provocare un suo commento tagliente e acuto. Una prova che era ancora tra noi. Le raccontavo storie divertenti e curiose sui miei figli. Indossavo nuove e strane combinazioni di abiti, ogni giorno più folli di quello precedente. Anne-Marie sorrideva e si lasciava andare quando mi vedeva. Per un minuto dimenticava che stava morendo. Avrei fatto qualunque cosa perché potesse avere quel minuto.
Quindi scelsi una cintura orrenda, rosa e bianca a righe arancioni fluorescenti; la infilai nei miei vecchi jeans e andai a fare lo scambio con mia madre. Lei avrebbe preso Martin e io l’ascensore per l’ottavo piano.
Quel giorno fu meraviglioso. Vidi Anne-Marie allegra e interessata non appena entrai nella stanza. Lanciò alla mia cintura un insulto ben meritato. Chinandosi, prese il libro che le avevo portato, In fuga, una raccolta di racconti di Alice Munro. Si calò un paio di occhiali sul naso dalla sommità della testa, per leggere il racconto sui cui aveva aperto il libro. Più tardi lessi quelle pagine e mi soffermai sulla frase che diceva: «Spera, come la gente di buon senso può sperare in una felicità immeritata, un perdono spontaneo, roba così». Tutti speravamo in quel modo. Anne-Marie non aveva mai avuto il tempo di leggere tutti i libri che le portavo. Lesse solo una pagina del libro della Munro, poi lo chiuse e lo aggiunse alla pila.
Le scostai i capelli dal viso; era bellissima. I nostri genitori non avevano mai fatto paragoni tra noi, quando eravamo piccole. Per loro eravamo tutte e tre intelligenti e bellissime. Ma noi sapevamo la verità: Anne-Marie era la bella, Natasha la brava bambina e io la grassottella spiritosa.
Tre bambine una diversa dall’altra, ma tutte amavamo i libri. Quando avevamo cominciato a muovere i primi passi, li avevamo mossi verso i libri. Quando avevo appena tre anni, andavamo insieme al bibliobus della biblioteca. Si fermava a pochi isolati da casa nostra. In Fahrenheit 451, Ray Bradbury dice che i libri hanno l’odore «della noce moscata o di certe spezie d’origine esotica». Per me i libri hanno un profumo speziato, ma si tratta di spezie locali, rassicuranti e familiari. È l’odore del bibliobus, un misto di pagine ammuffite e corpi caldi. Ci accalcavamo lungo le mensole, cercando quello che volevamo sui ripiani inferiori; quelli superiori ospitavano i libri per gli adulti. I ripiani fissati nel centro del furgone erano dedicati alle nuove uscite, con una fessura laterale per consegnare i libri dovuti. I nostri genitori si aspettavano che trattassimo con cura i libri della biblioteca e li restituissimo in tempo. In genere io e Anne-Marie lo facevamo in ritardo; Natasha mai.
Cumuli di libri erano impilati lungo il davanzale della stanza di ospedale di Anne-Marie, regali di amici e familiari. Io ne prendevo in prestito tanti quanti ne portavo. Anne-Marie mi aveva appena presentato la scrittrice Deborah Crombie e i suoi detective, Duncan Kincaid e Gemma James. Lei rileggeva la serie mentre io la esploravo per la prima volta, e la adoravo. Ero nel bel mezzo di All Shall Be Well, andrà tutto bene. Il titolo era promettente, e quando avevo visto il libro lì sul davanzale dell’ospedale avevo chiesto di poterlo prendere in prestito. Anne-Marie aveva detto di sì, ma anche che avrei dovuto restituirglielo. Tutti noi pensavamo di avere più tempo per fare programmi.
Quel mattino mio padre era lì insieme a Marvin, il marito di mia sorella. Marvin dormiva nella stanza di Anne-Marie ogni notte, quindi era molto stanco durante il giorno. Non era facile dormire in un letto di ospedale abbracciato a una donna collegata a ogni genere di sacche e tubi. Cercai di farlo ridere, e feci lo stesso con mio padre. Era importante che recitassi la parte del buffone di corte. Quando ridevamo, dimenticavamo di essere in una stanza con una donna a cui ormai restavano poche speranze. L’ottimismo della dimenticanza ci avvolgeva, ci permetteva di fare dei progetti. Anne-Marie odiava il dessert alla gelatina di frutta e tutti immaginavamo che il giorno seguente le avrebbero dato qualcosa di più solido. Parlammo di andare a Bellport, la casa al mare di Anne-Marie, non appena fosse uscita dall’ospedale. Le promisi di iniziarla a una nova serie di gialli che avevo scoperto, scritti da M.C. Beaton e che hanno per protagonista Hamish Macbeth, un poliziotto delle Highlands scozzesi senza ambizioni ma ruvidamente adorabile. Le proposi di portarle un paio di suoi libri la prossima volta. Anne-Marie sembrava scettica – preferiva Londra alla campagna scozzese – ma le assicurai che i personaggi eccentrici della Beaton erano più che adatti a un’atmosfera rurale. Ridemmo tutti di nuovo.
Quando Anne-Marie cominciò a sentirsi stanca gli occhi le si socchiusero e le parole si spezzarono a metà. Era il segnale perché me ne andassi e la lasciassi riposare con i suoi libri e il giornale. La baciai e le dissi che le volevo bene e che ci saremmo viste l’indomani. «Parlami ancora delle scarpe nuove di Martin» mi chiese, gli occhi sgranati per un attimo. Le parlai ancora una volta delle scarpe nuove del mio piccolo di tre anni, le Merrell rosa. Adorava tutto ciò che era rosa. Lei annuì.
«Ci vediamo domani» disse.
Un’ora dopo, mia sorella morì. Aveva dato a mia madre una pagina ripiegata del «New York Times» e le aveva detto: «Leggi questo, è interessante». Poi aveva tentato di alzarsi dal letto. Il sangue le era gorgogliato in gola mentre ricadeva all’indietro. L’infermiera aveva allontanato mia madre e le aveva detto di andare a cercare Marvin, che era sceso nella hall. Ma era troppo tardi. Anne-Marie se n’era andata.
Io stavo attraversando l’Henry Hudson Bridge con Martin legato nel suo seggiolino, alle mie spalle, quando squillò il telefono. Lo tenevo incastrato tra le gambe, così potevo rispondere in fretta, e lo feci. Jack mi interruppe mentre gli raccontavo che la visita era andata benissimo.
dp n="23" folio="23" ?
«Nina, devi tornare indietro.»
«Perché? Perché dovrei tornare indietro?» Sentii una stretta allo stomaco. Jack non rispose.
«Dimmelo, perché dovrei tornare indietro? Che problema c’è?»
«Anne-Marie è morta.»
Urlai. E urlai di nuovo. Continuai a gridare mentre guidavo la macchina, fino a sentire il sapore del sangue nella mia gola dolorante. Martin stava seduto in silenzio dietro di me. Doveva essersi spaventato a morte. Quando smisi di urlare piansi. Feci inversione e mi diressi di nuovo verso New York, nella zona dell’ospedale.
Anne-Marie era stata distesa sul letto con le braccia incrociate sul seno. Le avevano avvolto un telo intorno alla testa per tenerle la bocca chiusa. Mia madre era in piedi accanto a lei e piangeva sommessamente, tenendo stretto il lenzuolo che le copriva il corpo. Marvin misurava a grandi passi la stanza. Jack parlava con un’infermiera, che ci stava invitando a uscire in modo da poter portare il corpo all’obitorio. Avevo lasciato Martin in sala d’attesa con un’altra infermiera, a disegnare. Natasha piangeva sul divanetto, seduta vicino a mio padre. Gli stringeva un braccio mentre le lacrime rotolavano sulle guance di mio padre, tremando insieme al suo corpo che dondolava avanti e indietro. «Tre in una notte» continuava a mormorare mio padre tra sé, ripetendolo in continuazione, «tre in una notte».
Cercai di allontanare mia madre dal letto. «Andiamo, mamma. Anne-Marie non c’è più.»
«Sì, c’è ancora» mi corresse mia madre. Si girò verso mia sorella, le accarezzò una guancia e le strinse una mano sotto il lenzuolo.
Ma quel corpo non era più di mia sorella. Anne-Marie se n’era andata. Potevamo tenerla ancora con noi con le parole, i ricordi e le foto. Era nostra perché potevamo ricordarla, parlarle, sognarla. Ma se n’era andata da se stessa, non avrebbe più saputo o sentito o parlato o sognato, mai più. Era il primo orrore della perdita di Anne-Marie: lei aveva perso se stessa. Aveva perso la vita e le sue meravigliose, innumerevoli possibilità. Mentre tutti noi avremmo continuato a vivere, lei no. Per lei era finita. Anche se pensavo che il suo spirito potesse persistere in un’altra dimensione o in un altro spazio – e come potevo esserne certa, o negarlo – il suo posto sulla terra come lei lo sentiva, lo assaporava, lo conosceva, non c’era più. Le luci si erano spente per sempre.
Per quanto fosse terribile il fatto che avesse perso la vita...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Dedica
  4. Epigrafe
  5. Prologo - Sulla scogliera
  6. 1. - Attraversando il ponte
  7. 2. - Ritorno al bibliobus
  8. 3. - Così tanta bellezza nel mondo
  9. 4. - Alla ricerca di libri e tempo
  10. 5. - Riorganizzare i ritmi
  11. 6. - L’unico balsamo per il dolore
  12. 7. - Cercare la stella
  13. 8. - Una nuova opportunità
  14. 9. - Accogliere l’intruso
  15. 10. - Le parole che non avevo sentito
  16. 11. - Dove ho trovato calore
  17. 12. - Un supplemento di esperienza
  18. 13. - Avvinghiati al mondo
  19. 14. - Il sesso secondo i libri
  20. 15. - L’uomo dei miei sogni
  21. 16. - Offrire una vista migliore
  22. 17. - Le lucciole danzavano sul prato
  23. 18. - Le risposte che trovi nei gialli
  24. 19. - Lo scopo della gentilezza
  25. 20. - Ripensando a Loulou
  26. 21. - Leggere Tolstoj nella mia poltrona viola
  27. Ringraziamenti
  28. Lista completa dei libri letti tra il 28 ottobre 2008 e il 28 ottobre 2009
  29. Crediti bibliografici