L'amante è finita
eBook - ePub

L'amante è finita

  1. 256 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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L'amante è finita

Informazioni su questo libro

A ventisei anni Irene è una donna indipendente e realizzata, ma la sua vita sentimentale è un vero disastro. Prima Antonio, che dopo tre anni di convivenza la lascia di punto in bianco per sposare un'altra. Poi l'impossibile amore con Tommaso, il marito abbandonato dalla sua sorellastra, fuggita in America con l'amante di turno. Ma l'uomo è molto diverso da come appariva, e più di un'ombra si addensa sulla sua storia con Irene. Finché una cara amica non le presenta un bravo pediatra dal nome profetico, Amleto. E tutto cambia di nuovo. "Irene è una timida, graziosissima sognatrice ed è bravissima, la Venturi, a far nascere dagli imprevisti nuove vicende. Un romanzo da divorare." Giovanni Pacchiano, "Il Sole 24 Ore"

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
Print ISBN
9788817048842
eBook ISBN
9788858627266

PARTE PRIMA

Quello che un amante non riesce
a decidere entro un anno, non lo
deciderà mai più.
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I

I diamanti sono davvero i migliori amici delle ragazze? Soltanto per quelle che amano i gioielli oppure si sentono rassicurate dal regalo sfarzoso, mi risposi mentre correvo nel vicino cucinotto accompagnata dal suono della radio. Alla vocina di Marilyn si era sovrapposto il perentorio sibilo del microonde: il pranzo è servito.
Estrassi la vaschetta monodose di lasagne scongelate e fumanti e richiusi lo sportello del fornetto: grazie, il mio gioiello sei tu. Durante i tre anni e mezzo trascorsi aspettando che Antonio si decidesse a dare uno sbocco al nostro rapporto, i miei "migliori amici" erano stati un servizio di bicchieri, una batteria di pentole in acciaio inox con doppio fondo in rame, un televisorino portatile e due tappetini scendiletto.
In ciascuno di questi suoi regali, tutti di genere esplicitamente domestico, avevo scorto un piccolo, emblematico passo verso l’illuminazione finale: Antonio era pronto per condividere la vita e una casa con me, e poco importava che fosse il suo attico o il mio monolocale. Invece, senza alcun segnale premonitore, mi lasciò tre giorni dopo avermi regalato un decoder, massimo emblema di intimità domestica.
Travasai il gelatinoso quadrato delle lasagne in un piatto e mi sedetti a tavola stupita di avere appetito. Erano passati sei mesi dalla rottura e appena quattro ore da quando, per telefono, Antonio mi aveva preannunciato le prossime nozze con una dottoressa della sua clinica. «Volevo che lo sapessi da me...»
Il temuto contraccolpo non era avvenuto. Dopo avergli fatto gli auguri, mi ero rimessa al computer per terminare una ricerca, avevo scelto col tappezziere le nuove fodere del divano ed ero passata al vicino supermercato per rifornirmi di surgelati. Era il mio giorno libero, e quelle erano le cose che mi ero proposta di fare.
Sto davvero bene, pensai incredula affondando la forchetta nelle lasagne. Antonio detestava i surgelati: forse per questo la prima cosa che acquistai quando uscì dalla mia vita fu un forno a microonde?
Il mal d’amore non esiste. Tra un boccone e l’altro mi venne in mente l’esperta sentenza di mia madre, che quando avevo sei anni lasciò mio padre per poi risposare un divorziato con due figli. Ogni volta che la pronunciava faceva seguire l’accalorata spiegazione: la verità inconfessabile è che si soffre per orgoglio, per rabbia, per interesse, per la paura di cambiare abitudini e amici! A volte soltanto perché non si ha più il partner fisso con cui andare a uno spettacolo o presentarsi a una festa... Ma mai per amore!
Questa sua sentenza aveva un sottile corollario: ci si disamora soltanto delle persone che hanno smesso di amarci! E poiché mia madre ha sempre avuto la tendenza a personalizzare, aggiungeva: non avrei mai lasciato il mio primo marito se non avesse smesso di dimostrarmi la tenerezza e la passione dei primi anni! E questo è successo perché neppure io provavo più niente per lui. Erano rimasti solo affetto e abitudini.
Che nel caso mio e di Antonio fosse accaduto proprio così? Misi il piatto ormai vuoto nel lavello e tornai nel soggiorno. Seduta sul divano cercai di ricostruire l’ormai lontana domenica dell’addio.
Stavamo guardando un film quando lui aveva distolto lo sguardo dal televisore per posarlo su di me. «Irene, è da molti giorni che sto cercando di dirtelo...»
«Dirmi che cosa?»
Si schiarì la voce. «Siamo insieme da tre anni e...»
«Tre e mezzo», puntualizzai per colmare la sua pausa.
«Appunto. Non è onesto che ti abbia tenuto legata tanto a lungo senza darti niente.»
«Ho ventisei anni e posso aspettare.»
Ricorderò sempre che gli sorrisi, quasi intenerita da quell’inatteso soprassalto di scrupolo.
Antonio scosse la testa. «No.» Un’altra breve pausa. «Sono già stato sposato, e temo che non sarò mai pronto per impegnarmi di nuovo.»
«Un matrimonio tra ragazzi finito dieci anni fa!» protestai. «Adesso sei un uomo e...»
Capii di essermi spinta troppo oltre e feci rapidamente marcia indietro. «È comprensibile che il matrimonio ti spaventi, Antonio. Per il momento potremmo provare a convivere.»
«Provare che cosa? Irene, in questi ultimi mesi ho capito anche che il nostro rapporto non può funzionare... Siamo troppo diversi...» annaspò.
Sbarrai gli occhi. «Stai dicendo che vuoi lasciarmi?»
Annuì con la testa. «È da parecchi giorni che cercavo di dirtelo.»
Riandando ai ricordi di sei mesi prima, rivissi le identiche sensazioni di allora. La prima reazione fu di sbalordimento totale. «E il decoder?» proruppi.
Mi fissò per qualche istante con una espressione sorpresa e sconcertata. «Il decoder?» ripeté. «Naturalmente puoi tenerlo...»
Mi venne da ridere. Sì, questa fu la seconda reazione alla notizia che la nostra storia era finita: un raptus di ilarità. E alla rabbia contro me stessa (avevo gettato tre anni e mezzo della mia vita, che cosa c’era da ridere?) immediatamente si aggiunse quella per la sua imbecillità.
Doppiamente furiosa, strillai: «Ma che cosa hai capito? Ripigliati pure il tuo decoder! Voglio soltanto sapere perché me l’hai regalato tre giorni fa, quando già avevi deciso di andartene!».
Ci si disamora soltanto delle persone che hanno smesso di amarci. La certezza di mia madre mi ricondusse al presente e mi costrinse per la prima volta dopo sei mesi a prendere atto della verità: l’abbandono di Antonio aveva ferito soprattutto il mio amor proprio. Sin dai primi tempi si era rivelato un uomo inadatto a me: avrei dovuto lasciarlo subito. E invece mi ero intestardita in una guerra personale contro la sua immaturità e la sua indecisione. Mi erano occorsi sette mesi per convincerlo a portare nella mia mansarda, nido d’amore da cui s’involava all’alba per andare nel suo attico a vestirsi, un ricambio di biancheria e un set da barba. E dovette trascorrere un altro anno prima che si decidesse a portarvi anche due abiti e un paio di scarpe.
Quello che mi mandava in paranoia era la disimpegnata vaghezza del nostro rapporto. «Dammi tempo, non mi sento ancora pronto», continuava a ripetere. Sì, a tenermi legata a lui era stata proprio la caparbietà. Non potevo dichiararmi sconfitta: e alla iniziale passione si era sostituito l’afrodisiaco corpo a corpo contro la sua incapacità di decidere qualcosa.
Il nostro era stato un colpo di fulmine. Ci eravamo incontrati nella clinica privata a cui l’ex marito della seconda moglie di mio padre mi aveva segnalata subito dopo la fine del corso paramedico di logoterapista. Va’ a fidarti delle prime impressioni! Antonio mi era apparso un uomo determinato e sicuro: ma soltanto perché aveva dieci anni più di me e dirigeva la clinica in cui speravo di essere assunta.
Gli bastarono dieci minuti di colloquio per darmi il posto, sei giorni per invitarmi a cena e un mese per salire a casa mia, infilarsi nel mio letto dichiarandosi pazzo di me. Come io di lui. Il graduale rallentamento di questi ritmi avrebbe dovuto farmi capire che anche io lo avevo in qualche modo impaurito o deluso.
Per tre anni e mezzo mi ero interrogata su tutto, fuorché sulla natura del sentimento che ci univa. Senza accorgermene, io esigevo decisioni e non amore. Lo davo per scontato, come un bene che si chiude in cassaforte. Sicuramente vi erano stati dei segnali premonitori del degrado, ma io non li avevo raccolti. A tre giorni dalla fine, ero addirittura certa che fossimo giunti all’inizio di una svolta.
Il dono del decoder mi aveva fatto sentire come Armstrong quando posò la bandierina sulla Luna: ce l’avevo fatta. Antonio si era mentalmente inserito nella realtà di una coppia e di una casa comune in cui trascorrere le serate davanti al televisore facendo un’abbuffata di film.
Sai che allegria, mi irrisi con un brivido. Come dare torto a mia madre? Non avevo proprio sofferto per la rottura. Due settimane dopo già mi chiedevo come fossi riuscita a sopravvivere alla noia di quei tre anni e mezzo. Mi ero votata alla lotta per l’espugnazione di Antonio con la concentrazione di un atleta determinato a battere un record, senza altri interessi e altri scopi all’infuori di quel traguardo. L’abbandono aveva avuto un effetto liberatorio.
La sera stessa del breve, ma esplicito discorso di commiato Antonio infilò le sue poche cose in una valigia e se ne andò. Cinque giorni dopo mi dimisi dalla sua clinica.
«Ma perché?» protestò. «Nel nostro rapporto professionale non è cambiato nulla.»
«Preferisco andarmene.»
«Proprio non capisco... Mi illudevo che ci fossimo lasciati da buoni amici, senza drammi.»
«Antonio, non insistere.»
Nel suo sguardo baluginò un lampo di aggressività. «Vuoi forse farmi sentire in colpa?»
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«Assolutamente no!» Avrei ferito la sua vanità spiegandogli che il solo vuoto lasciato erano un cassetto del comò e venti centimetri di armadio. Me ne ero resa conto riprendendo possesso delle mie serate, dell’altra metà del divano su cui allungare le gambe e delle vecchie amicizie.
«Perché dovresti sentirti in colpa?» mi affrettai ad aggiungere. «Hai preso una decisione giusta, anche per me.»
«E allora perché vuoi dimetterti?»
Rimanere nella sua clinica significava continuare a vederlo: meglio il taglio netto. Antonio rappresentava ormai un attentato alla mia autostima, ma anche questa verità lo avrebbe ferito.
Approfittò della mia esitazione. «Hai paura di chiacchiere o pettegolezzi? Siamo sempre riusciti a tenere distinti vita privata e lavoro, e non credo proprio che...»
«Ho paura di me», lo interruppi folgorata dall’ispirazione: avevo trovato l’argomento vincente. Prima che mi interrompesse, proseguii spudoratamente: «Le decisioni giuste spesso sono anche dolorose. Lasciare la tua clinica è il solo modo per poter dimenticare quello che c’è stato tra noi e non soffrire di nostalgia... non essere tentata di chiederti un’altra possibilità di riprovare, ricominciare...».
L’ipotesi parve atterrirlo quanto me. «Forse hai ragione», sospirò.
Fu la mia amica Simona a segnalarmi al Poliambulatorio Igea, un centro di analisi, terapie e visite specialistiche il cui direttore sanitario era un vecchio compagno di università di suo padre. Professionalmente si trattava di un passo indietro, perché soltanto il personale impiegatizio lavorava con un contratto a tempo indeterminato: come tutti i medici e i paramedici io ero una libera professionista che usufruiva delle strutture dell’Igea per svolgere un’attività privata e in cambio versava una percentuale sul fatturato. Il mio guadagno dipendeva dal numero di pazienti che sarei riuscita ad assicurarmi.
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Ma accettai senza un attimo di esitazione: sia perché avevo bisogno di lavorare, sia perché quel posto mi appariva come una nuova sfida, ben più stimolante della capitolazione di Antonio.
Il realistico commento di Simona era stato: «Male che vada, ti cercherai un altro posto».


Dopo sei mesi lavoravo ancora all’Igea. Avevo vinto una doppia sfida: non soltanto fatturavo quasi il triplo del vecchio stipendio, ma l’autostima era assurta a "picchi da delirio", per dirla come la mia amica del cuore. Il pensiero di Simona mi distolse dalle elucubrazioni sul passato.
Da settimane, ormai, non mi capitava di pensare ad Antonio neppure per caso, ed era stata soltanto la sua telefonata a risollevare quella inoffensiva ondata di ricordi. Guardai l’orologio: erano ormai trascorse cinque ore da quando mi aveva sensibilmente preannunciato le sue nozze, e ancora non ne avevo messo al corrente Simona. Se ne sarebbe offesa a morte!
Per lei amicizia significava condividere tutto, con fiducia e affetto incondizionati. «I fratelli te li danno i genitori, gli amici te li scegli», ripeteva. Io, che ero figlia unica, sin dagli anni delle elementari avevo trovato in Simona la sorella d’elezione. Eravamo identiche. Ci bastavano un’occhiata, un gesto, un brevissimo silenzio per capirci al volo: non ero mai riuscita a nasconderle nulla, né lei a me.
Forse per questo non l’avevo ancora chiamata? Per la paura che si incuneasse nel muro d’indifferenza dietro cui mi ero rifugiata dopo la telefonata di Antonio, costringendomi a buttare fuori ciò che non osavo confessare neppure a me stessa?
Accidenti, sì. Mi bruciava che un’altra donna fosse riuscita in pochi mesi a far crollare le paure e le resistenze contro cui io avevo inutilmente lottato per tre anni e mezzo. La gelosia non c’entrava affatto: ero ormai disamorata e lucida, e non avrei sposato Antonio neppure se me lo avesse chiesto in ginocchio. Ma la notizia delle sue nozze improvvise mi metteva di fronte a una verità destabilizzante: lui non era visceralmente negato per la vita di coppia, ma soltanto contrario a vivere con me.
Perché? In che cosa avevo sbagliato? Dove stava la mia inadeguatezza? A quel punto tanto valeva sfogarmi con Simona.
Rispose al terzo squillo. Senza preamboli sparai la notizia: «Antonio si sposa...».
Qualche attimo di silenzio. «Si sposa? E come lo sai?»
«Me l’ha detto lui. Poco fa, per telefono. Non voleva che venissi a saperlo da altri.»
«Ah.»
Quel monosillabo mi fece capire che era spiazzata quanto me. Al punto da risparmiarmi la solita richiesta di resoconto particolareggiato: poco fa quando? Con quali parole te l’ha detto? Che voce aveva? E tu che cosa hai risposto?
«Lei è una dottoressa della sua clinica» precisai per rintuzzare il rischio di un soprassalto di curiosità.
«Gli orizzonti di Antonio sono sempre stati piuttosto limitati.»
«Chi l’avrebbe detto?» buttai lì. «Ero certa che non si sarebbe mai sposato.»
«Sbagliavi!» la voce di Simona si animò.
«Sembrava negato per il matrimonio...»
«Ma tu l’hai lavorato a dovere. Per anni lo hai contraddetto, costretto a riflettere e a mettersi in discussione. Fino a quando non è stato pronto.»
«Per sposare un’altra?» protestai.
«È un classico: succede agli uomini che non si decidono mai a chiedere il divorzio, o a sposare l’eterna fidanzata, o a legalizzare una lunga convivenza... Sfiancati da rimostranze e aut aut, alla fine rompono il legame. Ma loro malgrado hanno imparato la lezione, e sono pronti a fame tesoro quando incontrano un’altra donna. In pratica, Irene cara, hai consegnato Antonio su un piatto d’argento alla sua dottoressa!»
«Mi brucia» ammisi tra i denti.
«Non ti sei persa niente. Antonio resta comunque un uomo mediocre.»
«In questi mesi ne ho conosciuti di migliori?»
«Di meno noiosi sicuramente.»
«Come Gigi Anelli?» ridacchiai.
Rise anche Simona. «Quello è stato un esilarante incidente di percorso.»
G...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. L'amante è finita