La mela è pronta e altri racconti
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La mela è pronta e altri racconti

  1. 320 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La mela è pronta e altri racconti

Informazioni su questo libro

Dal lettino di psichiatra all'invenzione letteraria. Da qua¬rant'anni Vittorino Andreoli analizza i fenomeni della diversi¬tà, della sofferenza psichica e della devianza non solo con le armi della ricerca e della scienza, ma da altrettanti, anche se segretamente, con lo strumento straordinario della narrativa.I casi da lui raccontati si trasformano così da fredde cartelle cli¬niche in una ricostruzione fantastica che ci mette davanti agli occhi situazioni violente, tragiche, bizzarre, mostrandoci come esse nascano e crescano all'interno dei suoi personaggi (non si sa fino a che punto inventati). Una serie di racconti che ci faranno capire quanto vicino a noi corra la sottile linea rossa che separa la normalità dalla follia.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
Print ISBN
9788817107600
eBook ISBN
9788858627471

INTRODUZIONE

Questo volume parla delle mie radici narrative e segue I giardini della miseria e altre storie del 2002. Parte di un piano editoriale che ha per me un grande significato e che seguo con particolare trepidazione.
Mi immagino talora nella veste di un archeologo di me stesso, alla ricerca di tutto quanto rischia di andare perduto e con la consapevolezza che è parte integrante di ciò che sono e anzi ne rappresenta l’origine e in parte almeno il significato.
Parlo delle mie radici di narratore entro quella distinzione: letteratura-saggistica che non mi pare fortemente fondata, ma che certo rappresenta una separazione netta sul piano editoriale e di consumo della lettura.
I miei saggi sono venuti subito alla luce, i miei scritti letterari sono rimasti sepolti per lungo tempo e solo ora emergono pieni di vita. Si tratta di scritti che fanno parte della mia esistenza di scrittore anche se non della mia fama. Scritti invisibili sia nella fase di manoscritto, a lungo chiusi in una cassaforte del segreto e del desiderio, sia in quella di libri realizzati, nella prima edizione, con strategie ed editori che non danno l’accesso a un pubblico di lettori reali ma soltanto immaginari.
Convenzionalmente considero la mia uscita letteraria, la mia visibilità, nel 1992 con Il Matto inventato, pubblicato con Rizzoli.
Un libro che in un primo tempo destò alcune perplessità nella casa editrice che finì per pubblicarlo come parte di un piano che contemplava i miei saggi che invece erano già richiesti e di successo.
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Ero giunto alla Rizzoli dalla Mondadori che avevo lasciato sia per il mutamento dei riferimenti che mi erano familiari, e ora erano spariti, sia per la voglia proprio di pubblicare il mio sottosuolo letterario che per la Casa di Segrate non esisteva, essendo io percepito come un saggista puro, uno scienziato capace di raccontare e diffondere, con linguaggio chiaro, i temi del comportamento umano.
Il Matto inventato ebbe quattro edizioni e per qualche settimana giunse nelle classifiche, ma ahimè in quelle della saggistica.
Anche il titolo conteneva la parola che mi delineava entro l’ambito della mia professione di psichiatra e dunque nacque questa raccolta di racconti nell’incertezza di un’identità. Un’ambiguità che si è prolungata, ma ora è del tutto chiarita la mia testa bifronte: da una parte la narrativa, dall’altra la saggistica.
Una distinzione che sento strana o quantomeno sottolineata con troppa enfasi: io in verità faccio una sola cosa, e mi pare che sia coerente con quanto penso e opero.
Sono un testimone di storie di sofferenza: le condivido e talora intervengo come terapeuta e da esse trae linfa la mia penna. Talvolta scrivo con la voglia di raccontare anche le emozioni, talvolta invece per cercare di capire, mediante confronti e in un procedimento scientifico, storie comuni, nel tentativo di fare un profilo dell’uomo del mio tempo. In quest’ultimo caso non posso lasciarmi andare ai sentimenti ma devo privilegiare il distacco, devo tenere conto di quanto altri hanno esposto, insomma faccio saggi.
Cambia dunque il linguaggio, ma nient’altro.
Non c’è un Jekill della letteratura e un mister Hide della saggistica, mentre continua a dominare l’interesse per le phénomene humain.
A guardare dalla diffusione dei miei libri, sono amato più per i saggi, anche se io amo infinitamente di più la narrazione e a essa dedico fatica e speranze.

Il primo manoscritto letterario nasce nel 1966, rimane in cassaforte fino al 1988 quando esce nei caratteri da stampa di un piccolo editore e finalmente nel 2002 viene edito dalla Bur, nel primo volume sulle mie radici: I giardini della miseria. È la narrazione di uno schizofrenico, lo stesso di cui avevo fatto un saggio pubblicato in Francia nel 1966 e poi in Italia nel 1974.
Insomma la mia veste letteraria origina insieme alla scrittura saggistica e sulle stesse esperienze, oserei dire sullo stesso materiale.
La differenza è che in un caso scrivevo e pubblicavo, nell’altro scrivevo e ponevo in cassaforte, fino a riempirla di manoscritti e di frustrazione mescolata ai sogni.
Nel 1988 ho dato alle stampe un po’ di letteratura, nella maniera tipica degli esclusi.
Una modalità per vuotare un luogo e riempirne un altro di volumi destinato alla cantina, luogo profondo di radici. Una via per credere di esistere mentre in realtà continuavo a non essere uno scrittore di narrativa.
Nel frattempo uscivano i miei saggi di successo, ma nessuno era disposto a puntare su un linguaggio ritenuto per me un «lusso» e persino un «capriccio».
Fino al 1992 sono stato un narratore totalmente sepolto, dal 2002 con la pubblicazione delle radici sono uno scrittore in superficie.
Ciò non significa che automaticamente sia accaduta una metamorfosi e dunque sia partita un’epoca nuova. Nient’affatto.
So di essere letto e ricevo attestati di stima e molte espressioni di meraviglia: «Non sapevo fosse uno scrittore» e persino esempi di apprezzamento specificamente letterario: «Mi piace più la sua narrazione».
Ma sono ancora un sepolto per la critica che non ha mai preso in considerazione un mio libro, nemmeno per buttare un po’ di bile e piegare uno stelo uscito tra zolle aride e su radici da sequoia.
Non ho goduto di nessuna recensione propriamente letteraria, quando un mio romanzo era recensito era per parlare del suo contenuto, della follia, della concezione sui giovani e magari dei giovani dei casi estremi.
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D’altra parte non conto amici nel mondo della letteratura e della critica e non amo i salotti da cui sono sempre fuggito.
Insomma per certi aspetti sono ancora nascosto e non esistente.
La mia dimensione letteraria è invece sempre maggiore e il mio impegno sempre più grande, fino ad aver scelto condizioni di impegno quasi esclusivo, proprio per non dare a questo bisogno una connotazione da dilettante.
E proprio perché ora vedo un tronco consistente e molti rami solidi e in crescita provo piacere e anche commozione nel «tirare fuori», nel portare alla luce queste radici obsolete e lo faccio rispettando la versione originale, senza la voglia di trasformare, convinto che in quelle radici e nella loro realtà sta anche il senso dei rami successivi.
Nessuna voglia dunque di imbellettare il passato, ma di rispettarlo e per questo lo presento in una nuova veste ma identico nella sua integrità.
Non temo l’ingenuità di certi passaggi, sento solo la fatica che ancora traspare di quell’impegno e la passione di raccontare l’uomo, quell’uomo che amo da sempre. Un uomo che ha i segni del dolore più che i segni della gioia e della felicità.
Sono sicuro che queste radici mostrano anche la mia fatica e talora la mia disperazione.
Sento ancora attorno a me la difficoltà di un’accoglienza, di accettare che uno psichiatra sia saggista, e dunque studioso del comportamento umano e folle, e allo stesso tempo un letterato.
Non rientra nelle convenzioni, anche se nella storia postuma tutti sono pronti a elogiare chi è stato l’uno e l’altro o magari poeta e poi pittore. Insomma coesiste lo scandalo per uno che esce dal suo orticello e il fascino di un Leonardo o di un Michelangelo che ha coperto interi poderi.
Una cosa è certa: tutto ciò non mi impedisce di fare ciò che sento per me essenziale e ciò che fortemente voglio. Un volere che richiede un impegno enorme e una grande fatica: lo faccio anzi lo devo fare, come si trattasse di un imperativo, talora di un’ossessione.
Del resto non ho mai accettato e subìto dei compromessi e non lo potrò fare ora che non sono in lotta, ma in pace.
Mi fa sorridere il bisogno di «maschera» delle mie prime proposte letterarie.
Il caso più emblematico è dato da Gli Adolescenti (Mondadori, 1985), della collana «La lettura: attualità». I tre racconti che lo compongono erano preceduti dal saggio di un pedagogista, i testi avevano molte note a piè di pagina e ciascun racconto era corredato da una scheda informativa che guidava la lettura e da alcuni quesiti a cui il lettore doveva rispondere.
Una «lettura per la scuola» con l’intento di fare di queste storie di adolescenti uno strumento didattico, educativo. Una modalità che io accettai come condizione sine qua non per comunque pubblicare dei racconti anche se, alla fine, in questa cornice pesante, apparivano altra cosa.
Gli Adolescenti sono ora qui riportati nella veste della narrazione, senza mascheramenti.
Questo volume ha assunto il titolo da un’altra storia del 1991 La fine del nulla. Si racconta di un personaggio che dal nulla ha riempito la sua esistenza di denaro e di riti di potere, fino alla vigilia di un Natale, quando quell’ impero sarà dichiarato fallito. L’ultima festa da potente, un ruolo che finisce.
Sono particolarmente legato a La mela è pronta, che apre questo volume, poiché nasce in un periodo importante per me, gli anni Settanta del Novecento, quando si stava rompendo la barriera tra razionale e non razionale o per lo meno il non razionale non veniva letto solo come uno scarto, un’anomalia rispetto al chiaro e distinto della ragione. Proprio per questo il linguaggio o meglio i linguaggi erano al centro dell’attenzione culturale e degli studiosi, sia delle scienze che della letteratura.
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In questo mio lungo racconto tutto gira attorno a una frase comune, anzi banale, che viene pronunciata dalla cameriera, Maria e si consuma nelle interpretazioni possibili che giungono a stravolgerne il senso o per lo meno a renderla possibile con ogni senso.
In quello stesso periodo ho scritto saggi sulla linguistica (ricordo Il linguaggio grafico della follia, Il mito della comunicazione in psichiatria) e ho diretto un laboratorio di comunicazioni non verbali.
Ancora una volta emerge una coerenza, un’unità di esperienze e di studi che poi hanno sortito saggi e storie da letteratura.
Oltre al senso che la letteratura possiede, in tutta autonomia rispetto a ogni altro dato o prodotto, per me e in me questo scritto acquista un’importanza essenziale nel descrivere la mia vita, la vita di un uomo. Perché, certo, sono uomo prima che saggista e letterato. Sono un uomo che racconta e si racconta con due modalità almeno in parte diverse.
Ci sono infine i Racconti minimi, storie che talora si riducono a poche righe.
Mi commuove il pensiero che il grande numero di racconti che fanno parte della mia collezione letteraria, delle radici soprattutto, e che io amo, sono da legare anche al poco tempo che i miei impegni di uomo del dolore in mezzo alla follia mi lasciavano. Un tempo che non poteva permettersi le concentrazioni lunghe e le soste necessarie per un romanzo.
In questo senso credo che il narratore sia un mestiere o almeno si coniughi con mestieri che permettono ampie finestre rispetto alla continuità di una professione e al compito istituzionale di un servizio che non ammette sovente nemmeno pause settimanali.
Ma di ogni apparente limite si può fare preziosa condizione di perfezionamento e credo di essermi trovato nella condizione che mi ha spinto, proprio per questo, a cercare la stringatezza e dunque a giocare con l’essenzialità delle parole e delle espressioni; ora faccio piani e programmo storie lunghe e persino interminabili. Un capitolo diverso di questo mio percorso strano dentro la letteratura.

Era necessario ricostruire la mia figura e spero che questo bisogno permetta al lettore di lasciarsi andare in qualche pagina di letteratura intensa.
Certo, la mia è una letteratura del dolore poiché conosco prevalentemente la fatica e la sofferenza.
Una letteratura che non aiuta certo l’evasione.

LA MELA È PRONTA*

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Maria andò con grande soddisfazione a bussare alla porta del bagno e scandì poche parole, che suonarono però, nel silenzio, d’apocalisse. «Signore, la mela è pronta, il signor Dimitri l’attende nello studio.»
Guglielmo con la vestaglia blu, che indossava solo il sabato, si stava specchiando.
Erano le nove e dieci. Non aspettava nessuno, ovviamente. Era sabato. Un giorno dedicato al silenzio. Lasciava trascorrere il tempo senza vedere nessuno, senza fare nulla, senza ricordare le parole di ieri e preparare i discorsi per domani. Nel silenzio, gli sembrava di ritrovare dimensioni proibite, piacevoli, indefinibili. Godeva del silenzio, si concentrava sul silenzio e non pronunciava parola.
Non conosceva alcun Dimitri. La regola era comunque di rispondere che il signore non era in casa. Un tema discusso a lungo e dettagliatamente, ipotizzando i casi più diversi. Non era in casa nemmeno se lo cercava la vecchia madre.
Anche Maria, la cameriera, doveva limitare le parole all’essenziale e dedicarsi alla casa senza rumore. Per imposizione non poteva tenere la radio accesa. Per imposizione non poteva telefonare e, dunque, parlare della propria salute, di quella della madre, di quella del signor Guglielmo.
Forse una disgrazia, e Dimitri veniva a riferirla. Maria già sapeva e quindi non poteva stare alla regola del silenzio.
In questo caso non avrebbe iniziato con «Signore, la mela è pronta», diventava del tutto secondario rispetto alla gravità della comunicazione. Avrebbe dovuto dire: «Signore, Dimitri l’attende nello studio; venga subito», e se proprio, alla fine, riferirsi alla mela. È pur vero che l’abitudine poteva aver neutralizzato una priorità di contenuti.
La bocca di Guglielmo aveva iniziato strani movimenti, come d’un motore che si riscalda prima di partire. Nello specchio vedeva paure sepolte, e altre mai immaginate.
Era bene andare da Dimitri. Forse non era opportuno raggiungerlo in vestaglia. Forse, invece, era la modalità più indicata per affrettare l’incontro e così eliminare una incredibile e disgustosa interferenza, il sabato mattina.
Pensò di chiamare Maria per conoscere meglio la situazione che lo attendeva. Non ebbe risposta. Era probabile stesse già parlando con l’ospite, nello studio. Un’occasione per lei irripetibile, di sabato.
Si guardò ancora nello specchio con l’abbigliamento che più amava: ora inadeguato.
Controllò la bocca. Lo strumento, essenziale, per rapportarsi agli altri, per parlare. Tremava.
Uscì dal bagno. Chiuse la porta con forza quasi per comunicare che stava arrivando. Lasciò il piccolo corridoio. Salì la scala e dal salone si portò nello studio che aprì deciso, anche se con pensieri di paura e di rabbia. Mentre guardava il viso di Dimitri, sentì la voce di Maria allontanarsi dalla stanza: «Buongiorno signore. La mela è pronta. Sul tavolo rotondo. In salone. Vicino al camino. Al solito posto».
Non ebbe il tempo di vederlo bene in volto. Fu abbracciato d’impeto.
Sentì una morsa, che lo immobilizzava, e una voce che all’orecchio destro parve d’inferno. Scartò l’ipotesi di una qualche disgrazia occorsa ai familiari e fu certo che invece stava capitando a lui qualcosa di atroce.
«Guglielmo, quale piacere. Che gran giorno questo. Dopo tanti anni. All’università, ricordi? Eri bravissimo. Io mi sono arenato ad anatomia. Ti guardavo con invidia. So che hai fatto una brillante carriera. Anch’io, nel commercio. Acquisto e vendo biancheria intima femminile. Calze, mutandine, reggiseni. Il seno è parte del mio lavoro. Ho assistito, qualche giorno fa, a un party lesbico. Una, per un tempo infinito, ha leccato e baciato una mammella secondo ritmi misterici e forse arcani. Il capezzolo si allungava vogliosamente come una spada in una delicata guaina che si contraeva instancabile; poi d’un tratto fuggiva, subito ricercato dalla bocca che si muoveva nell’aria per ritrovarlo e inumidirlo ancora di saliva, dipingendo nello spazio una ragnatela di passione.»
Allentò la morsa e facendo leva sulle spalle di Guglielmo allungò le braccia.
«Ma guarda chi rivedo. Eri schivo e solitario. Ti occupavi di filosofia, di etica e poi di botanica, di fiori di montagna. L’unico argomento tabù, erano le donne, il sesso. Per me, invece, il corpo femminile era tutto. Mi ricordo la sera, solo nella mia stanza di collegio. Sognavo d’aver un corpo femminile. Piangevo nel constatarne la mancanza. Soffrivo come un assetato nel deserto.»
Lo spostò per incontrare una luce che ne focalizzasse bene il viso.
«Eppure potresti avere molta fortuna con le donne. Devi smuovere di più il viso. È troppo professionale. Suggerisce timore, inadeguatezza. Ricorda Boccioni, il professore d’anatomia. Che esame! Avevi preso trenta e lode. Io avrei dovuto sostenerlo dopo di te. Per la quarta volta. Non ne ebbi il coraggio. Ti guardai, come una chimera. Me ne andai. E lasciai l’università. Incominciai subito a occuparmi di calze e poi anche di mutande, di reggiseni, di camicie da notte e ora di assorbenti. Sto studiando assorbenti a forma di pene. La mestruazione non deve più rappresentare una limitazione per la donna, una piaga da coprire, da nascondere. Oggi deve infilarsi un assorbente delle stesse dimensioni e del colore, roseo, di un pene. Ne sto creando di varie misure, non tanto in rapporto al diametro d’apertura della singola vagina, ma ai desideri. Durante le mestruazioni una signora può invaginare il pene dell’amante, invece di quello del marito. O un pene di sogno, d’un personaggio o di un eroe seguito alla televisione. A ogni misura viene infatti associato un uomo famoso, di successo. Sono particolarmente attento ai bisogni delle frigide. Sai, ho scoperto una cosa importantissima.»
Prese posto su una poltrona. Appoggiò una gamba sopra l’altra, tolse dal taschino una penna e sollevandola contro Guglielmo, riprese il discorso con un tono da sapiente.
«Le frigide non sono frigide, a meno che non si attuino condizioni che le rendono tali. Nel qual caso non si realizza una frigidità in sé, ma una frigidità fenomenica: può essere e non essere. Quindi la frigida è una non-frigida che si trova in una condizione di frigidità ma che, intrinsecamente, potrebbe non essere frigida se le condizioni fossero di antifrigidità.»
Guglielmo si accorse che stava parlando in un’aula, forse quella d’anatomia del ricordo, quando notò che si rivolgeva a molti.
«Vedete, una donna frigida lo è nel momento in cui si svolge un rapporto sessuale. Lo è, cioè, in un contesto. Al di fuori di una situazione spazio-temporale, non si può dire sia frigida, poiché in circostanze, ipoteticamente realizzabili, in fieri, potrebbe non esserlo. Dunque, la frigidità è un datum non un hypotheticum. In un certo momento può essere frigida, ma per comunicare che non è frigida e che non accetta le condizioni fenomeniche in atto, al di fuori delle quali non lo sarebbe affatto. Il problema non è, dunque, in re, ma in circumstantia. Da qui la conclusione: nemo est frigidus in re, sed in nomine. Non esiste la donna frigida e dunque l’assorbente penieno colorato è universale. Deve naturalmente essere cambiato ogn...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La mela è pronta e altre racconti