Dedica
Per mia madre, Eileen,
e in memoria di mio padre,
Tony Evans.
Tutto ciò che fa il Potere del Mondo
lo fa in cerchio. Il cielo è rotondo,
e ho sentito dire che la terra è rotonda
come una palla, e così le stelle.
Il vento, nella sua forma più potente, turbina.
Gli uccelli fanno il nido in un cerchio,
poiché la loro religione è uguale alla nostra.
Il sole sorge e tramonta in un cerchio.
La luna fa lo stesso, ed entrambi sono rotondi.
Persino le stagioni formano un grande cerchio
nel loro trascorrere, e tornano sempre
al punto di partenza. La vita di un uomo
è un cerchio, dall’infanzia all’infanzia.
E così è tutto ciò in cui si muove il potere.
Alce Nero, Oglala Sioux
(1863-1950)
RINGRAZIAMENTI
Fra i libri che mi hanno aiutato nella mia ricerca ho un debito speciale con i seguenti: Of Wolves and Men di Barry Lopez, War Against the Wolf a cura di Rick McIntyre, Wolf Wars di Hank Fisher, The Wolf di L. David Mech e The Company of Wolves di Peter Steinhart.
Fra i molti che mi hanno aiutato, vorrei ringraziare specialmente Bob Ream, Doug Smith, Dan McNulty, Ralph Thisted, Sara Walsh, Rachel Wolstenholme, Tim e Terry Tew, Barbara e John Krause, J.T. Weisner, Ray Krone, Bob ed Ernestine Neal, Richard Kenck, Jason Campbell, Chuck Jonkel, Jeremy Mossop, Huw Alban Davies, John Clayton, Dan Gibson, Ed Enos, Kim McCann e Sherry Heimgartner.
Sono particolarmente grato alla famiglia Cobb, a Ed Bangs, Mike Jiminez, Carter Niemeyer, Bruce Weide, Pat Tucker e a Koani, l’unico lupo che possa definire plausibilmente un amico.
Infine, per la pazienza, l’appoggio, l’acutezza e l’amicizia che mi hanno elargito durante la stesura di questo libro, i miei più sentiti ringraziamenti a Ursula Mackenzie, Linda Shaughnessy, Tracy Devine, Robert Bookman, Caradoc King e alla magnifica Carole Baron.
ESTATE
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UNO
L’OLEZZO di una carneficina, credono alcuni, può aleggiare su un luogo per anni. Dicono che s’infiltri nel suolo e venga lentamente assorbito dall’intrico delle radici finché, col passare del tempo, tutto ciò che vi cresce, dal più piccolo lichene all’albero più alto, ne viene impregnato.
Forse, mentre avanzava silenzioso nella foresta in quel tardo pomeriggio, strisciando il suo levigato manto estivo contro i rami più bassi dei pini e degli abeti, il lupo percepiva tutto ciò. E forse quel vago sentore nelle sue narici, la consapevolezza che cent’anni prima in quel luogo tanti suoi simili fossero stati massacrati, avrebbe dovuto spingerlo a tornare sui suoi passi.
Ma il lupo proseguì nella discesa.
Era partito la sera prima, lasciando il resto del branco sugli altipiani dove in luglio resistevano ancora i fiori primaverili e le chiazze di neve stanca nelle gole in cui il sole non penetrava. Si era diretto a nord lungo una cresta e aveva proseguito verso est, percorrendo uno dei serpeggianti canyon rocciosi che incanalavano la neve sciolta dalle cime delle montagne fino alle valli e alle pianure. Si era tenuto alto, evitando i sentieri, specialmente quelli che costeggiavano il corso d’acqua, dove a volte, in quella stagione, si trovavano gli esseri umani. Anche durante la notte, quando era possibile, era rimasto sotto il limite della foresta, seguendone le ombre a un trotto così naturale che le sue zampe non sembravano nemmeno toccare il terreno. Era come se il suo viaggio avesse uno scopo speciale.
Al sorgere del sole si era abbeverato, poi aveva trovato un cantuccio ombreggiato fra le rocce e aveva trascorso dormendo le ore più calde della giornata.
Ora, nell’ultimo tratto della discesa verso il fondovalle, il percorso si era fatto più difficile. Il terreno della foresta era ripido e disseminato di alberi caduti, come ceppi in un enorme caminetto, e il lupo era costretto a serpeggiarvi con grande cautela. A volte tornava sui suoi passi, alla ricerca di un tragitto migliore per non lacerare il silenzio con il rumore rivelatore di un ramo secco, evitando le chiazze di un verde acceso che qua e là il sole tracciava penetrando attraverso i rami.
Era un magnifico maschio di quattro anni, il capo del suo branco. Aveva lunghe zampe e un manto quasi completamente nero, con lievi sfumature di grigio lungo i fianchi, sulla gola e sul muso. Di tanto in tanto si fermava, fiutava un cespuglio o un ciuffo d’erba e sollevava la zampa, marcando quel luogo sperduto come il suo territorio. Altre volte si fermava e sollevava il muso, e i suoi occhi si socchiudevano e scintillavano gialli mentre le narici decifravano gli odori trasportati dalle correnti ascendenti dalla valle.
In una di queste pause, percependo qualcosa di molto vicino, volse lo sguardo verso due cervi, una madre e un cerbiatto, a poco più di dieci metri di distanza. Illuminati da un raggio di sole, lo fissavano immobili. Il lupo ricambiò l’occhiata, in una sorta di dialogo ancestrale che persino il cerbiatto comprese; e per alcuni secondi a muoversi furono soltanto le spore e gli insetti che volteggiavano appena sopra le teste dei cervi. Subito dopo, come se per lui un cervo non contasse più di un insetto, il lupo guardò in alto e tornò a fiutare l’aria.
Da circa due chilometri di distanza provenivano gli odori confusi del fondovalle: le mandrie di bestiame, i cani, le acri esalazioni dei macchinari umani. E nonostante dovesse conoscere, senza bisogno che gliel’avessero insegnato, il pericolo che tutto ciò significava, il lupo riprese la sua discesa, seguito dagli occhi neri e imperscrutabili dei cervi.
La valle in cui stava penetrando era stata scavata dai ghiacciai e proseguiva verso est per una quindicina di chilometri fino alla cittadina di Hope. I suoi versanti corrugati erano coperti di pini e, visti dall’alto, sembravano tendersi come le braccia di un amante verso la vasta distesa degli altipiani assolati che, dai confini orientali della cittadina, sembrava allungarsi all’infinito.
Nel punto più ampio, la valle era larga nove chilometri e mezzo. Non era certo un pascolo ideale, sebbene molti tra coloro che vi abitavano riuscissero a guadagnarsi da vivere, e in certi casi ad arricchirsi. C’era troppa salvia e troppa roccia e, ogni volta che il terreno sembrava sul punto di proseguire indisturbato, dalle pareti spuntava a interromperlo una forra o un torrente invaso da vegetazione e rocce. A metà valle, numerosi di questi torrentelli confluivano nel fiume, che proseguiva serpeggiando fra i pioppi fino a Hope e di lì giungeva ad alimentare il fiume Missouri.
Era quello il panorama che si poteva ammirare dal punto in cui si era fermato il lupo, una balza di calcare che sbucava dagli alberi come la prora di una nave fossilizzata. Appena sotto, il terreno precipitava vertiginosamente in uno squarcio cuneiforme di roccia franata, sotto il quale la montagna e la foresta cedevano di malavoglia il passo ai prati. Una rada mandria di bestiame nero pascolava pigramente all’ombra degli alberi, e poco più in là , ai piedi del prato, sorgeva una piccola fattoria.
Era stata costruita su un appezzamento elevato che dominava l’ansa di un torrente sulle cui rive crescevano salici e ciliegi della Virginia. Su un lato era costeggiata da alcuni granai e recinti dagli steccati bianchi, e le assicelle di legno della sua facciata erano tinteggiate di rosso scuro. Il lato meridionale era percorso da un portico che in quel momento, mentre il sole calava fra le montagne, era immerso in un ultimo bagliore dorato. Le finestre affacciate sul portico erano spalancate e le tendine di rete ondeggiavano alla debole brezza.
Dall’interno della fattoria proveniva il vocio di una radio, e forse era per questo che chiunque si trovasse in casa non udiva il pianto del neonato. La carrozzina blu sul portico oscillò leggermente, e due piccole braccia rosa sbucarono dal suo interno in cerca di attenzioni. Vedendo che nessuno accorreva e distratto dai giochi di luce che il sole tracciava sulle sue mani, il neonato smise di piangere e cominciò a farfugliare.
L’unico a udirlo fu il lupo.
Kathy e Clyde Hicks abitavano nella casa rossa ormai da quasi due anni, e se Kathy doveva essere sincera con se stessa (cosa che tutto sommato preferiva evitare, visto che non ci si poteva far niente e tormentarsi era inutile), era una vita che lei detestava.
Forse detestare era una parola troppo grossa. Le estati non erano male, sebbene anche in questa stagione avesse la sensazione di essere troppo lontana dalla civiltà , troppo esposta ai pericoli. E agli inverni era meglio non pensare.
Si erano trasferiti lassù subito dopo le nozze. Kathy aveva sperato che la nascita del piccolo cambiasse le cose, e in un certo senso era stato così: se non altro aveva qualcuno con cui parlare mentre Clyde era nei campi, anche se la conversazione, fino ad allora, era stata decisamente a senso unico.
Aveva ventitré anni, e a volte rimpiangeva di non aver pazientato a sposarsi, invece di precipitarsi a farlo subito dopo l’università . Si era laureata in economia agraria all’università statale del Montana, a Bozeman, ma le uniche occasioni in cui faceva uso del suo diploma erano i tre giorni alla settimana che passava fra le carte di suo padre nella fattoria principale.
Kathy pensava ancora all’abitazione dei suoi genitori come a casa sua, e spesso ciò le procurava dei problemi con Clyde. Si trovava a poco più di tre chilometri di distanza, ma ogni volta che lei vi trascorreva la giornata e saliva in macchina per rientrare a casa sentiva qualcosa dentro di sé, non tanto una fitta di dolore, quanto una sorta di sordo rimpianto. Lo accantonava immediatamente tubando con il piccolo o sintonizzando la radio su una stazione di musica country, aumentando il volume al massimo e cantando.
Quella sera la radio era regolata sulla sua stazione preferita, e Kathy, pulendo le pannocchie e osservando i cani appisolati al sole accanto ai granai, cominciò subito a sentirsi meglio. Stavano suonando quel brano che le piaceva tanto, cantato da una canadese dalla voce energica che confessava al suo uomo quanto le piacesse quando lui "metterà in moto il suo trattore". Era una strofa che la faceva sempre ridere.
In realtà , si disse, doveva considerarsi fortunata. Clyde era un buon marito, il marito che ogni donna avrebbe sognato. Forse non era il più ricco (e d’accordo, nemmeno il più intelligente), ma era stato di gran lunga il più bello del college. Quando le si era dichiarato, il giorno della laurea, le sue amiche erano diventate verdi dall’invidia. E ora le aveva regalato un figlio bello e sano. Sebbene quel luogo fosse ai confini del mondo, apparteneva pur sempre a loro. Hope era piena di ragazze della sua età che avrebbero dato il braccio destro in cambio di una sistemazione come quella. Kathy era alta, aveva dei magnifici capelli e, benché dopo la maternità non avesse ancora ripreso la linea di un tempo, sapeva di essere tuttora in grado di "mettere in moto il trattore" di chiunque.
La stima di sé non era mai stata un problema, per Kathy. Era la figlia di Buck Calder, e da quelle parti non si poteva chiedere di più.
La fattoria di suo padre era una delle proprietà più estese della zona di Helena, e lei era cresciuta come una sorta di principessa locale. Una delle poche cose che non gradiva del matrimonio era stata proprio la rinuncia al suo nome. Era persino giunta a ventilare a Clyde la possibilità di fare come le donne in carriera e utilizzare il doppio cognome, facendosi chiamare Kathy Calder Hicks. D’accordo, aveva risposto il marito, come preferisci; ma lei aveva capito che era tutt’altro che entusiasta dell’idea e, per non ferirlo, si era accontentata del semplice e tradizionale Kathy Hicks.
Alzò gli occhi sull’orologio. Erano quasi le sei. Terminato di sistemare l’impianto d’irrigazione nei campi di fieno, Clyde e suo padre sarebbero tornati per cena intorno alle sette, e sua madre stava per arrivare con una torta che aveva preparato per dessert. Kathy ripulì il lavello e mise le pannocchie in padella. Si asciugò le mani sul grembiule e abbassò la radio. Non le restava che pelare le patate, dopodiché avrebbe allattato Buck Junior, gli avrebbe fatto il bagnetto e l’avrebbe preparato per la visita del nonno.
Quando il lupo sbucò dagli alberi, le mucche che pascolavano all’estremità superiore del prato alzarono il capo all’unisono. L’animale si fermò al limitare dell’erba, come se volesse conceder loro l’opportunità di studiarlo. Era la prima volta che vedevano una creatura simile, e forse lo scambiarono per un coyote più grosso e scuro del normale, un predatore pericoloso soltanto per i vitelli appena nati. Forse somigliava più a uno dei cani che a volte si aggiravano fra loro, e di cui si curavano soltanto quando i loro morsi le costringevano a spostarsi.
Da parte sua, il lupo le degnò a malapena di un’occhiata. Tutti i suoi sensi erano concentrati sulla casa. Abbassò il muso e riprese la marcia lungo il prato digradante, attraversando la mandria lentamente, con cautela. Il suo disinteresse era così evidente che le mucche non si scostarono nemmeno, riprendendo a brucare.
Mentre il sole calava dietro le montagne, una linea d’ombra avanzò sull’erba e sul portico della fattoria come una marea crescente, sommergendo prima le ruote e poi la base della carrozzina e tingendo di scuro il rosso della facciata.
Giunto sul prato, il lupo si fermò davanti allo steccato lungo il quale Clyde aveva approntato una conduttura e una vecchia vasca di smalto dove la mandria avrebbe potuto abbeverarsi se il torrente si fosse prosciugato. Due gazze presero il volo dai bassi salici sull’argine e volteggiarono verso di lui, rimproverandolo come se conoscessero la ragione della sua visita. Il lupo le ignorò, ma dal riparo della sua carrozzina, a non più di una ventina di metri di distanza, il piccolo si esibì in una imitazione plausibile del loro verso, diede uno strillo deliziato e si concesse una serie di repliche. All’interno della casa, il telefono prese a squillare.
Era la madre di Kathy. La torta si era bruciata, ma non c’era di che p...