Quarant'anni di mafia
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Quarant'anni di mafia

Storia di una guerra infinita

  1. 456 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Quarant'anni di mafia

Storia di una guerra infinita

Informazioni su questo libro

Uno studio rigoroso e acuto - i cui risultati furono apprezzati anche da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino - oggi completamente rivisto e aggiornato fino ai nostri giorni. Uno strumento indispensabile per comprendere la natura di Cosa Nostra, per fare luce sui torbidi rapporti, sempre in bilico tra collusione e aperto conflitto, fra lo Stato e questo enorme potere criminale, per ricordare gli eroi, i vincitori e gli sconfitti di una g uerra infinita. Un'opera enciclopedica che mette a sistema, senza censure né retorica, i fatti che hanno segnato la storia della mafia; una fotografia fedele della sua evoluzione, priva dell'alone folcloristico che solitamente offusca le cronache criminali; il punto d'arrivo e allo stesso tempo la premessa di una riflessione sul futuro di Cosa Nostra. E del nostro Paese. NUOVA EDIZIONE AGGIORNATA

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
Print ISBN
9788817056274
eBook ISBN
9788858625460
Argomento
Literatura

Corrispondenze e interviste

Avvertenza

Ci sembra utile riproporre alcune corrispondenze e interviste che possono aiutare il lettore nell’approfondimento delle vicende più delicate che si sono verificate fra il 1981 e il 2010.
A conclusione di ogni testo è indicata la data di pubblicazione su «l’Unità», quotidiano per il quale l’Autore ha sempre lavorato.

La fine di don Stefano

La trentesima vittima di quest’anno a Palermo non è un gregario: è Stefano Bontate, un «don» per eccellenza, quasi l’emblema della pax mafiosa siglata tra vecchie e nuove cosche all’insegna della spartizione dei proventi ricavati dal traffico internazionale dell’eroina. Una morte come la sua – dicono già gli investigatori – non rientra nell’ordinaria amministrazione della cronaca nera della città.
È rimasto intrappolato nella sua Giulietta nuova fiammante, quando i killer, dopo avergli sbarrato il passo, hanno fatto crepitare lupara e P 38. Gli uomini della scientifica hanno impiegato più di tre ore per identificare da quella maschera di sangue il volto di Stefano Bontate. Giaceva riverso alla guida della vettura, circondato dai bossoli dei proiettili adoperati dal commando. Le sorprese non erano finite.
La vittima portava con sé cinque milioni di lire in banconote e, alla cintola, una pistola automatica di marca francese.
In via Aloi, dove è stata compiuta l’imboscata, all’angolo del viale della Regione siciliana, a quell’ora – si presume le ventitré e trenta dell’altra notte – i sicari non hanno corso il rischio di testimoni scomodi. È una stradina che si fa largo tra gli agrumeti. Dove si recasse, a quell’ora di notte, Stefano Bontate, è tutto da scoprire. E attende soluzione il rebus di un’impronta di sangue che sembra allontanarsi dalla vettura, proprio in direzione dei giardini. Qualcuno era in compagnia della vittima? Ha visto tutto ed è riuscito a fuggire? Poco probabile. Eppure anche questa traccia non viene sottovalutata.
Quel che è certo è che questo delitto segna una fase acuta della guerra di mafia, placatasi negli ultimi anni, e riaccesa dalle conseguenze dei colpi inferti dalle grandi inchieste sulla droga. Chi era don Stefano Bontate, il Barone per gli amici di borgata? Anzi chi sono i Bontate?
Cominciamo da lui e dalla cerchia delle sue amicizie.
Qualche vicissitudine giudiziaria negli anni caldi: finì nel gabbione dei 114 – già condannato al processo di Catanzaro ma assolto in secondo grado – e ne uscì anche: questa volta con una assoluzione in appello. Poi, arrestato nella buona compagnia del cognato Gerlando Alberti, era stato in soggiorno obbligato a Napoli fino al 1978. Ma, nel complesso, gli addebiti a suo carico furono ritenuti sempre insufficienti per chiamarlo a rispondere della sua vera attività, quella di erede dell’impero paterno di don Paolino, vissuto negli anni ruggenti del sacco di Palermo.
La famiglia controlla e pilota trentamila voti democristiani. Giovanni Bontate, fratello minore di Stefano, è figura di spicco nell’inchiesta sul grande business: assieme a Tano Badalamenti, è accusato di essere fra i capi fila del racket. Arrestato a Roma l’anno scorso, Giovanni, il rampollo con il doppio petto del clan, si era costruito una lussuosa villa nella borgata di Villagrazia, dove più tardi verrà scoperta una delle tre raffinerie di eroina di Palermo.
Nella loro cordata, i nomi erano di primissima scelta: don Pino Panno, boss di Casteldaccia (scomparso misteriosamente quest’anno), don Masino Scaduto, ras di Bagheria (morto nel suo letto), e Tano Badalamenti, patriarca di Cinisi (tuttora ricercato).
Infine don Giacinto, il monaco della P 38 eliminato questa estate in convento.
Troppi morti, troppi «affari» da miliardi andati in fumo: è il segno che gli equilibri sono saltati, che qualcuno ha parlato.
(25 aprile 1981)

La fine di don Totuccio

La «pace mafiosa» non c’è più. Ormai è guerra aperta. Salvatore Inzerillo, trentasei anni, personaggio chiave del traffico degli stupefacenti tra Sicilia e Stati Uniti, latitante dal 1978, già capintesta nelle grandi inchieste su «mafia & droga», è «caduto» ieri a Palermo, nel corso di una tipica esecuzione all’americana messa a segno da un commando composto da almeno tre killer.
Sapeva di avere le ore contate. Viaggiava da solo a bordo di una Alfetta blindata nuova di zecca e dotata di radiotelefono. In tasca, come ulteriore precauzione, una pistola 357 Magnum. I sicari hanno atteso pazientemente la vittima designata in pieno giorno al centro del Cep (un quartiere dormitorio alla periferia ovest della città) ben nascosti dentro un furgone parcheggiato. Quando Inzerillo è apparso sulla soglia del cantiere edile Ciulla – dove, a quanto pare, aveva preso parte a un incontro di affari – i sicari gli hanno impedito di mettersi al sicuro. E proprio mentre tentava di aprire lo sportello dell’Alfetta, dando le spalle ai suoi nemici in agguato, l’uomo è stato investito da una micidiale scarica di lupara e di proiettili di pistola calibro 38.
Inzerillo non è morto sul colpo. Seppur sdraiato in una pozza di sangue, è riuscito a far fuoco in direzione del commando che si dava alla fuga. Appena un’ora dopo l’agguato, i carabinieri, in prossimità dell’ospedale Cervello – a qualche chilometro dal Cep – ritroveranno il furgone utilizzato dai sicari con un finestrino completamente frantumato.
Chi era Inzerillo? Gli investigatori gli attribuiscono il ruolo di «paciere» e realizzatore della grande alleanza tra le cosche palermitane, all’insegna del racket multinazionale dell’eroina. Era anche un capo elettore. Nipote e successore del vecchio boss di Bellolampo Rosario Di Maggio, fu ospite di spicco nella cena elettorale organizzata dall’avvocato Francesco Reale, membro del comitato regionale Dc, in onore dell’allora ministro della Difesa, Attilio Ruffini, alla vigilia del voto delle «politiche» del 1979, presso il ristorante La Carbonella.
La polizia, più tardi, arrivò a lui, dopo un delitto. Il 30 maggio 1978, in via Leonardo da Vinci, cade in un agguato il capo mafia di Riesi Giuseppe Di Cristina. Nelle sue tasche, Boris Giuliano – vicequestore palermitano capo della Mobile che verrà eliminato dalla mafia il 21 luglio dell’anno successivo – trova un assegno di dieci milioni, che reca, appunto, nelle «girate» la firma di Inzerillo.
Sulla base di accurate indagini bancarie, il vicequestore risale a un traffico di denaro sporco che vede, in un intreccio ancora inedito, collegati mafia palermitana, camorristi napoletani sino allora dediti al contrabbando di sigarette e all’«importazione» di eroina. Forse anche il riscatto di un sequestro di persona.
Quando gli investigatori vanno a cercarlo, Inzerillo è già uccel di bosco. La polizia, più tardi, riesce a comporre i tasselli di un mosaico inedito. Inzerillo è cognato degli Spatola (i costruttori poi saliti alla ribalta per aver svolto il ruolo di «postini» del finto sequestro di Sindona). E a loro volta gli Spatola, per via di parentele e d’affari, portano al clan di Cosa Nostra dei Gambino.
All’indomani dell’uccisione del capitano dei carabinieri, Emanuele Basile, che per altre strade era arrivato alle stesse conclusioni di Giuliano (3 maggio 1980) il cerchio si chiude. Decine di arresti sigleranno l’inizio della grande inchiesta. Ora ci sono circa duecento imputati.
L’inchiesta, le tre raffinenerie siciliane scoperte e smantellate, i «grandi delitti» dopo Boris Giuliano, da Terranova, Mattarella, Basile, il procuratore capo Gaetano Costa, sino all’uccisione, l’altra settimana, invece, di uno di loro, don Stefano Bontate.
Segno che qualcosa stava accadendo e che la grande alleanza di mafia era stata rotta. Ieri, quasi come una risposta all’omicidio di Bontate, tra i casermoni di cemento armato del Cep, si ha un altro inquietante segnale, che dice che ormai la guerra di mafia è ripresa sanguinosamente. La personalità e gli affari di Inzerillo avevano, comunque, mille risvolti anche fuori dalla Sicilia.
Il boss, sposato con Filippa Spatola, era legalmente socio di Rosario Spatola e Rosario Gambino in una impresa di costruzioni a Palermo. Ma i rapporti di parentela e di affari a Palermo, appunto, non erano tutto. Spatola, Gambino e Inzerillo erano un tutt’uno anche a Brooklyn dove gestivano – secondo un rapporto di una commissione senatoriale d’inchiesta – pizzerie e gioco d’azzardo, usura e traffico di droga, corse di cavalli truccate e sfruttamento della prostituzione.
(12 maggio 1981)

Intervista a Carlo Alberto Dalla Chiesa

«Gaetano Costa giunse a Palermo quando avevo già lasciato la Sicilia. Ma per la conoscenza del fenomeno mafioso che aveva maturato durante il suo periodo di attività a Caltanissetta, ne fui lieto. E non solo per l’indiscussa preparazione professionale, certamente all’altezza di una procura importante come quella di Palermo, ma anche per la dirittura morale che gli aveva consentito nella precedente sede di lavoro, di resistere, in più occasioni, a pressioni e interferenze d’ogni tipo. Rimane il suo contributo oltremodo qualificato alla commissione antimafia che nel 1967 si soffermò a lungo nel capoluogo nisseno.»
Nel suo studio a Villa Whitaker, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, oggi prefetto di Palermo, non cede alla retorica per dire chi era l’alto magistrato assassinato dalle cosche nel capoluogo siciliano, il 6 agosto di due anni fa.
Inizia così un colloquio che Dalla Chiesa accetta volentieri – a patto, precisa, che non si tratti di un’intervista – e che lo porterà a ragionare su questa drammatica «Palermo anni Ottanta» sconvolta dall’escalation sanguinosa: ottantadue vittime da gennaio a oggi, centouno l’altr’anno, quasi una terra di nessuno dove clan rivali si affrontano quotidianamente soprattutto per imporre il loro dominio sul lucroso mercato dell’eroina. Questo scenario non sembra sfuggirgli, semmai in questi primi tre mesi di presenza a Palermo (il suo insediamento già deciso venne anticipato all’indomani del tragico 30 aprile, giorno del barbaro agguato ai compagni La Torre e Di Salvo) lo ha spinto ad approfondire la conoscenza del fenomeno che si propone di combattere. «Va studiato dall’interno» dice «non da spettatori estranei, ma adoperando il massimo dell’intelligenza e incrementando ancora di più la preparazione professionale specifica del personale impegnato in questa trincea avanzata della democrazia italiana.»
Il prefetto Dalla Chiesa tiene però a sottolineare, anche con una nota polemica, che qualche risultato è già stato conseguito: «Gli organi di informazione hanno forse sottovalutato il rapporto dei 162 [presentato due settimane fa da polizia e carabinieri alla magistratura palermitana, N.d.A.]. Eppure è il frutto di un lavoro svolto in piena sintonia fra gli investigatori e chiama in causa, fra gli altri, mandanti e killer di una trentina di omicidi. Non è poco».
Obietto che la città non sembra percepire questo sforzo. E che, a tutt’oggi, resta da far piena luce sui grandi omicidi terroristico-mafiosi.
«È vero. L’opinione pubblica più sensibile ci chiede di svelare fino in fondo ciò che si nasconde dietro delitti che hanno avuto come comune denominatore un disegno tendente a destabilizzare le stesse istituzioni. Uomini come Mattarella, Terranova, Costa, La Torre vollero imprimere una svolta alla vita pubblica siciliana. Ma si scontrarono con interessi consolidati o in fieri.»
Proprio per impegnarsi a fondo nel versante «alto» della sfida, Dalla Chiesa chiede «tempi necessari a una meditata riflessione su indizi e sospetti, acquisiti o ventilati, che permettano di scoprire a Palermo, ma non solo, precise responsabilità». È convinto, insomma, che ci sia molto da capire. Dice: «C’è una sfida di faide, con sgarri e vendette contrapposte. Veri e propri gruppi di potere locali, sui quali stiamo già intervenendo. E c’è poi una criminalità più complessa, un connubio di mafia e interessi, che punta in alto. Anche se non sono venuto a Palermo per stravincere, è decisivo impedire al più presto gravi inasprimenti della situazione che deriverebbero da nuovi salti di qualità dei singoli clan».
Negli atti dell’antimafia si trova la deposizione che Dalla Chiesa, allora comandante della legione dei carabinieri di Palermo, rese ai commissari. Illustrò loro l’utilità di una scheda genealogica dedicata alle famiglie dei mafiosi. «Era una tecnica innovativa» ricorda con orgoglio «valida ancora oggi. Stabilire con chi si è sposato il mafioso, con chi si è imparentato, chi ha battesimato o cresimato, è un buon punto di partenza per gli investigatori. Seguendo questi percorsi si scoprirà ad esempio che un nucleo originario di Monreale, passando attraverso paesi e paesi della Sicilia, è giunto magari a mettere radici nel territorio di Castellammare.»
La discussione scivola inevitabilmente sul disegno di legge antimafia, che fra le altre norme prevede il sequestro e l’eventuale confisca dei beni illecitamente conseguiti. È ipotizzabile, come è accaduto per il terrorismo, la figura del «pentito», in un’organizzazione gerarchica e verticistica come quella mafiosa?
Dalla Chiesa risponde quasi con una battuta: «Il primo pentito l’abbiamo avuto nel 1970 proprio fra i mafiosi siciliani. Perché dovremmo escludere che questa struttura possa produrre un gene che finalmente scateni qualcosa di diverso dalla vendetta o dalla paura? Ma questo può verificarsi soltanto nei momenti più alti dell’impegno dello Stato: il Joe Valachi palermitano, saltò fuori, alla fine dell’operazione di polizia che portò all’arresto in contemporanea – in ogni parte d’Italia – di decine e decine di mafiosi (processo ai 114)».
In Sicilia, però, precedenti agghiaccianti: pentito e pazzo diventano sinonimi con estrema facilità.
«Infatti. È la legislazione italiana che non solo deve garantire la sopravvivenza dei pentiti ma impedire ad altri di “periziarli” come pazzi o semi-pazzi.»
Rigorosa attività giudiziaria dunque ma anche una costante opera di «prevenzione sociale» per moltiplicare il numero dei protagonisti della lotta alla mafia. In questi tre mesi Dalla Chiesa è sceso «in strada». Ha incontrato migliaia di studenti e genitori, operai e impiegati che si interrogano con angoscia sul destino di una città colpita a morte «uno sforzo di polizia giudiziaria» commenta «senza un tentativo di penetrazione nel tessuto sociale non sarebbe sufficiente». Una preoccupazione, questa, comune in buona misura alle forze politiche e sindacali siciliane che la scorsa settimana hanno inviato a Roma una loro delegazione, che si è incontrata con Fanfani, Nilde Jotti e il ministro Rognoni, per sollecitare un più adeguato intervento dello Stato.
«Non voglio entrare in una valutazione politica che non mi compete. Ma» conclude Dalla Chiesa «come si fa a non guardare con soddisfazione alla crescita di un ampio fronte sociale e istituzionale che renda tutti più consapevoli che la mafia non è soltanto un problema ancorato ai quartieri poveri di Palermo ma ha i suoi porti di approdo in ben altre parti d’Italia?»
(6 agosto 1982)

Intervista a Giuseppe Insalaco

«La Dc siciliana? Un partito a pezzi. L’hanno ridotta una società per azioni, dove ogni capocorrente non molla il suo pacchetto-tessere e cerca in qualunque modo di conquistarne altri. La battaglia per il rinnovamento? Parole e proclami. Il congresso regionale di Agrigento è ormai un lontano ricordo. È un dramma: i vecchi notabili, i Lima, i Gioia, i Gullotti, pretendono di essere loro a guidare il rinnovamento. C’è un impressionante tiro al piccione su qualunque esponente democristiano che si batte davvero per far avanzare il nuovo.»
Giuseppe Insalaco, quarantadue anni, fanfaniano, ormai ex sindaco di Palermo, rimasto vittima degli agguati e dei veti incrociati ispirati dai suoi stessi «amici» di partito, dopo solo tre mesi, dice tutto quello che pensa della Dc siciliana.
Domanda Una settimana fa De Mita è venuto in Sicilia per mettere ordine nella babele delle correnti e dei potentati del suo partito. Con quali risultati?
Risposta Tutta la base era convinta che la visita del segretario nazionale avrebbe coinciso con l’inizio della nuova era della chiarezza. Tirando le somme è stata un’illusione: il segnale, tanto atteso, non c’è stato. De Mita è rimasto ancorato a un falso dilemma: mettetevi d’accordo – ha detto – oppure sarò costretto a intervenire. Mettersi d’accordo? Cosa significa? L’esatto contrario di rinnovare. Vuol dire narcotizzare quei pochi effetti positivi che potevano esserci, rinviando la soluzione dei nodi alle nomine del sottogoverno che rischiano di travolgere le istituzioni, compresa quella regionale. In quella riunione la Dc doveva scegliere e non l’ha fatto. Ci vuole coraggio. Bisogna affondare il bisturi.
D. Non vi aspettavate un po’ troppo da De Mita?
R. No: l’apparato del partito è disgregato. Non abbiamo più una linea ufficiale. Si va avanti interpretando il pensiero di questo o quel «capo storico» e in questo clima emergono figure vecchie, tornano alla ribalta i gestori degli antichi interessi e le vecchie inadempienze che hanno finito col determinare lo stesso fenomeno mafioso.
D. Rimprovera loro solo un peccato di «distrazione»?
R. Il discorso è più complesso. Fra gli anni Cinquanta e Sessanta, un’altra leva di «notabili» – i Restivo, i La Loggia, gli Alessi, i Mattarella – ebbe comunque il merito di creare la Dc siciliana che noi abbiamo conosciuto. Questa leva fu lentamente soppiantata da altri dirigenti che impugnarono la bandiera del rinnovamento: sono gli stessi che, a distanza di anni, si sono sclerotizzati nel ricordo dei meriti passati, e che oggi sono ridotti all’esercizio del potere, costi quel che costi. Lima è uno dei più grossi responsabili di questa situazione: è il capo della...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. BUR
  3. Frontespizio
  4. Introduzione - Una strada verso l’abisso
  5. I - Poliziotto americano dove vai?
  6. II - I Beati Paoli degli anni Ottanta
  7. III - Un giudice rosso che doveva morire
  8. IV - I professionisti dell’antimafia
  9. V - Mafia - la guerra in casa
  10. VI - Quel tremendo 1982
  11. VII - Il generale disarmato
  12. VIII - La mafia è più forte e vincerà
  13. IX - Anche il 1983 fu un anno tremendo
  14. X - Beirut? Belfast? No. Palermo
  15. XI - Mi vendico e mi pento
  16. XII - Ma la mafia non s’arrende
  17. XIII - Il processo si farà
  18. XIV - Le tigri in gabbia
  19. XV - In nome del popolo italiano
  20. XVI - La irresistibile ascesa di Peppuccio Insalaco
  21. XVII - La preoccupazione del presidente
  22. XVIII - Anche la mafia sbaglia
  23. XIX - L’Apocalisse
  24. XX - Corrispondenze da Palermo
  25. XXI - Il primo miracolo
  26. XXII - Il secondo miracolo
  27. XXIII - Qualcosa su Berlusconi
  28. XXIV - Le ombre
  29. XXV - Finale di partita
  30. XXVI - Corleonesi vecchi e nuovi
  31. XXVII - C’era una volta la lotta alla mafia
  32. XXVIII - Il secolo scorso
  33. XXIX - La mafia gioca a rimpiattino
  34. XXX - La fine del ventesimo secolo di mafia
  35. XXXI - La testa del serpente non si rassegna
  36. XXXII - Si fa presto a dire Dna
  37. Corrispondenze e interviste
  38. Cronologia
  39. Su questa storia della mafia hanno scritto
  40. Ringraziamenti