Maredè, maredè
eBook - ePub

Maredè, maredè

  1. 320 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Maredè, maredè

Informazioni su questo libro

'Maredè, maredè' è dedicato alla memoria linguistica, e porpone una raccolta di 'sondaggi nel campo della volgare eloquanza vicentina', accumulando parole, espressioni, frasi in dialetto, e indagandone significati, usi, sfumature. Protagonisti 'l'uomo dialettale' e la sua lingua: l'uno e l'atra mobili, ironici, vitali.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
Print ISBN
9788817117722
eBook ISBN
9788858628614

AVVERTENZA

Ho usato (ma non in modo rigidamente sistematico) alcune sigle: VIC per il dialetto vicentino (nella varietà alto-vicentina, tra il 1922 e il 1947, che mi è più familiare); IT per l’italiano che considero standard in Alta Italia; IT-VIC per l’italiano normalmente parlato dalle vicentine e dai vicentini (che chiamo VI-fone e vı-foni) in quanto differisce dall’IT; VIC-RUS per la parlata rustica, e VIC-ARC per le forme che giudico arcaiche; EN per l’inglese che ogni tanto cito; NS (Native Speaker) per “parlante nativa/-o” di una lingua; TRAS (come in Libera nos a malo) per i miei ’trasporti’ dal VIC all’IT; e qualche altra sigla che ho spiegata a suo luogo o che non richiede spiegazioni.
Il VIC è in corsivo, l’IT corrispondente è tra virgolette doppie (alte); ho usato, un po’ selettivamente, le virgolette basse per citazioni di discorso diretto e battute di dialogo, e le virgolette semplici per i TRAS e per evidenziare parole e frasi.
Le altre principali convenzioni grafiche adottate sono elencate tra le note preliminari della sezione sulla morfologia del VIC, alle pp. 227-8.
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La presente edizione è esemplata sul testo della edizione preliminare fuori commercio curata da Moretti & Vitali per la Banca Popolare Vicentina (dicembre 1990), sul quale sono stati eseguiti alcuni modesti rappezzi, e più di un migliaio di rammendi quasi invisibili.

SONDAGGI

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Secondo me le balòte sono un po’ più grandi delle bale, sia come sbornie, sia come testicoli e anche altrimenti; o forse non sono oggettivamente più grandi, ma la grandezza risalta di più; e quando diciamo le balòte dei òci (non molto meno comune di le bale dei òci) qualcosa in noi ricorda quanto sono grandi e vulnerabili, sotto le finestrelle dei nostri occhi, i globi oculari, e sentiamo trascorrere tra i rami del retro-pensiero un vago formicolio di ribrezzo e di timore.

Il significato pregnante del nostro matèria (nel senso di pus) si è già fortemente depauperato, e viaggia verso l’estinzione, a mano a mano che si faranno più rare le peculiari ’infezioni’, i bubboncini purulenti in cui la matèria fermentava; i cioati, così vividamente caratterizzati dalla serica finezza degli involucri e dal colore madreperlaceo, traslucido.
Fermentava là dentro la matèria, e ne sgusciava per puntura di spillo, o per il naturale crepare dei cioati, quasi portando all’aperto un campione della materia segreta di cui sono fatte le creature viventi.

Scorlare assoluto, detto di persone (a cui si imputi, p.e., una condotta o un’opinione poco saggia) indica squilibrio mentale: Te scórli, ti! oppure Scórlito? Scórlela? equivalgono a darti o a darle, scherzando, della matta o del matto.
Le cose invece scórlano, intransitivamente, nel senso di essere allentate, muoversi (denti), tentennare, oscillare (secchie); e transitivamente cose e persone vengono scorlate nel senso che le si scrolla (infanzia riottosa; aggeggio che smette di funzionare; recipiente di liquidi con deposito, sta-tènta no scorlarlo!, ecc.). Ciò che s’imprime a ciò che si scrolla si chiama scorlón.
Tra ciò che può scorlare ’a’ qualcuna/-o primeggia l’organo del pensiero: Te scórla ’l servèlo (dove si pensa che il cervello non sia fissato a dovere dentro la testa, ma si muova di qua e di là come zavorra in una stiva); ma c’è inoltre il caratteristico moto oscillatorio evocato in un ammonimento materno, anni Trenta, a giovanetta ginnasiale in stradella San Marcello a Vicenza. Suona la campanella di scuola, la ragazza si mette a correre, e la madre le grida: «Maria Terèsa, non córare così che ti scórlano le téte!» (Esse scorlavano infatti, maestosamente).
Questo è un esempio di ciò che può accadere quando un’espressione (lessico o costrutto) del dialetto si trasferisce o trasporta in un TRAS come ’scórlano’ con la sua desinenza plurale. L’originaria vitalità dialettale non si attenua, anzi sembra intensificarsi.

La carica lirica di un’espressione come «le notturne viole» (con la dieresi; quelle del Petrarca), così intensa per ogni italofona (-o) sensibile a queste cose, è pareggiata in intensità per noi vı-fone (-i) da un’interpretazione di quelle parole altrettanto potente, ma al nostro orecchio distintamente più naturale: «le téghe [sferrate o udite] nel corso della notte».
Viòla è prima cugina della téga (oltre che della rènga e della ténca) sia nel senso di “botta, pacca, percossa”, sia in quello di “schiocco” o altro colpo rumoroso. La dieresi ne raffina il fantasma notturno.

Alcune parole antiche hanno una particolare forza e importanza evocativa in quanto contengono non la materia o la sagoma perenta di un oggetto (el taiapàn, el mestèlo) ma la forma generale di qualche aspetto cruciale del vivere.
Le strussie: patire, consumarsi a lavorare e penare... Era l’emblema della condizione umana, più crudamente insediato nelle valli remote, nei paesetti semi-selvatici, nelle case dei contadini poveri. Ne senti la presenza, quasi il rumore soffocato (uno strofinio), nelle parole di vicentini di valle o di monte, anche di generazioni assai più giovani della mia, che hanno visto da piccoli dispiegarsi le ultime strussie dei genitori, o sentito parlare delle più antiche i nonni, specialmente le nonne. Perché se è pur diffuso tra tutte le creature il retaggio delle strussie, le più aspre e continue toccano — toccavano — alle donne.
Lavarda, San Luca, Crosara... ne sento parlare a Londra, in un luogo di ritrovo per gente agiata (ai nostri occhi arcaici incredibilmente agiata), da un vicentino, F., che vive qui da parecchi anni, molto più giovane di noi, prospero laborioso e tranquillo, che s’accende all’idea di poter rievocare con me in puro dialetto Alto-Vicentino gli anni della sua infanzia, una vita e un tempo che per noi erano già moderni, ma che lui ricorda con pacata riverenza come il tempo delle strussie. Devo a lui di avermi rimesso a fuoco la parola, a cui l’articolo determinativo dà un senso speciale e profondo.

«La tenerezza tenerezza è detta...» (S. Penna). Un frutto tenero non era tènaro ma trèndo: perdendo trèndo abbiamo perduto una sottospecie della tenerezza che uomini e cavalli del re non potranno ricuperare per noi.

Una importante qualità del vestire di una persona si esprime con slandronà, che vuol dire “acconciata/-o” da slandrón (qui ci vuole il maschile, perché il modello esemplare, in questo senso specifico, è maschio), con panni o accessori anche di buona qualità ma male assortiti, mal stirati, male indossati.
Tutt’altro senso (assai più di una sfumatura di senso) ha strassonà che indica invece abiti ridotti a stracci o di infima specie. Mentre però alla persona strassonà non si attribuiscono speciali qualità negative (dó vecéte strassonà possono essere esempla...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Maredè, maredè