Il suono dolce della pioggia
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Il suono dolce della pioggia

  1. 200 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il suono dolce della pioggia

Informazioni su questo libro

"Rimasi perfettamente immobile mentre mi baciava - non ci volle molto - e feci un sacco di cose insieme: pensavo, ricordavo Thomas Hardy, notavo l'albero vestito di lucine, ascoltavo la musica. Poi il bacio finì e rientrammo, come se nulla fosse." Innocenti, sfrontati, teneri o disillusi, i racconti inediti di Diana Athill brillano della stessa arguta intelligenza che anima i suoi memoir, un inconfondibile sguardo sul mondo che l'ha resa, a oltre novant'anni, una delle più apprezzate voci della letteratura inglese. C'è chi insegue un amore ideale e chi il sesso, ci sono donne capaci di affrontare il "pasticcio dell'essere in due", e altre che mal si rassegnano a quella gabbia. Un'avventura extraconiugale riporta il brivido dell'eccitazione nella vita di una casalinga, ma è solo la preziosa illusione di un momento. Una sedicenne romantica riceve il suo primo bacio e non è affatto come se lo aspettava. Un incidente d'auto nella campagna inglese spinge una quarantenne e suo fratello a rivivere la profonda complicità che li legava da bambini. Una coppia condivide un'intensa passione, ma c'è ben poco che li unisca fuori dal letto. Comuni e insieme uniche, cesellate in una prosa misurata e affascinante, queste storie raccontano di noi, di ciò che significa essere imperfetti - e fragili - e ciononostante amare la vita.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
Print ISBN
9788817054553
eBook ISBN
9788858624326
Il suono dolce della pioggia
Prefazione
di Diana Athill
Ricordo alla perfezione il momento in cui ebbi l’idea per il mio primo racconto, in un mattino di gennaio del 1958. Fino ad allora avevo fatto da ancella, in qualità di editor, ai libri di altri e non avevo mai nemmeno immaginato di poter diventare una scrittrice anch’io. Poi, alle nove di quella mattina inondata di sole, mentre portavo a passeggio il mio pechinese sull’Outer Circle di Regent’s Park un’automobile si fermò e il conducente mi fece un cenno. Pensai volesse chiedermi delle indicazioni stradali, invece disse: «Sono Mustafa Ali di Istanbul, vuole venire a bere un caffè con me?». “Che ottimismo, alle nove del mattino!” pensai mentre proseguivo per la mia strada, ridendo. Com’era strano che uno sconosciuto così rassomigliante a un altro uomo che avevo conosciuto tanti anni prima, un mercante di diamanti di Città del Capo di nome Marcel, si fosse comportato in modo tanto «marcellesco». E mi tornò in mente Marcel.
Per tutto il giorno fece capolino tra un pensiero e l’altro, e con lui arrivò una ventata di energia e buonumore. Quando rientrai a casa dall’ufficio pensai: “Ci sono! Scriverò un racconto su di lui” e mi sedetti davanti alla macchina per scrivere. Mi resi conto quasi subito, però, che un racconto su Marcel doveva essere ambientato nel commercio dei diamanti, su cui sapevo poco o niente, quindi la mia idea non avrebbe funzionato… ma quell’energia rimase intatta dentro di me. Poi, all’improvviso, ricordai un altro uomo che apparteneva al mio passato, e seppi con certezza che era il soggetto giusto e sarei riuscita a renderlo esattamente com’era. Andò proprio così, in un racconto intitolato Un ritardo inevitabile.
Appena ebbi ultimato quel racconto ne cominciai un altro, e alla fine dell’anno ne avevo scritti nove. Non li progettavo prima: un sentimento covava in me, la prima frase nasceva spontanea e il racconto veniva da sé, come se fosse stato lì «sempre». A volte a metà strada si trasformava in un «lavoro» e dovevo escogitare una conclusione, ma succedeva più spesso che si finisse praticamente da solo. Alcuni erano collegati alla mia vita in modo profondo; altri, con mia grande sorpresa, dipendevano da essa in modo così vago che avrebbero quasi potuto essere «invenzioni» (di quelli «inventati» ero fiera in modo particolare ma, con un’unica eccezione, gli altri erano migliori).
Anche se scrivere il primo racconto fu un’esperienza travolgente, Un ritardo inevitabile non era destinato a trasformarsi nella mia pietra miliare. Quel ruolo sarebbe toccato al terzo dei nove racconti che scrissi uno dopo l’altro prima di finirli. All’inizio del 1958 l’«Observer» indisse un concorso che avrebbe premiato una storia di tremila parole intitolata Il ritorno. Avevo immaginato un titolo diverso per la mia terza storia, ma Il ritorno poteva andare comunque. Era troppo lungo di cento battute, ma una delle cose che l’editing mi ha insegnato è che si può sempre tagliare: qualche sforbiciata, un titolo nuovo, e la mia opera era pronta per l’invio sotto pseudonimo, come richiesto. Avevo scelto Mister What, perché avevo appena vinto cinque sterline grazie all’omonimo cavallo che correva al Grand National. Il racconto vinse il primo premio.
Sarebbe stato miracoloso a prescindere da com’era accaduto, ma toccai il cielo con un dito perché negli otto mesi che passarono dalla spedizione all’arrivo della notizia me n’ero completamente dimenticata e quando mi consegnarono il premio (cinquecento sterline, una bella somma all’epoca) mi fu detto che c’erano stati duemila partecipanti.
Non guardi in alto perché sai di non essere capace di arrampicarti sull’albero. E ti sei scordato, ormai, i frutti squisiti nascosti dietro le sue fronde. Ed ecco che all’improvviso, senza una folata di vento, ti cade in mano una grossa pesca vellutata. Forse succede agli altri, a noi mai… Mi sto ancora leccando il succo dalle dita… Cari amici, seppellitemi con una copia dell’«Observer» ripiegata sotto la testa, perché è stato proprio il premio dell’«Observer» a farmi capire che potevo scrivere ed essere felice.
Alla André Deutsch, la nostra casa editrice, il convincimento che pubblicare racconti di scrittori sconosciuti equivalesse a scavarsi la fossa da un punto di vista editoriale era talmente radicato che non pensai mai di offrire le mie storie a un editore inglese. Alcune furono pubblicate su riviste, e in un’antologia, ma il loro più grande risultato fu che una cara persona di nome Ken, un direttore della Doubleday di New York il cui cognome è stato risucchiato da un buco nero nella mia mente geriatrica, se ne innamorò. Immaginai che i colleghi di Ken gli permettessero di concedersi qualche follia di tanto in tanto, e che pubblicare le mie storie fosse una di quelle: di sicuro quei racconti non si guadagnarono mai il modesto anticipo che mi fu corrisposto. Non fecero alcun clamore (si accorsero in pochissimi anche del premio, a parte i miei amici), quindi vederli in questo volume, presentati con tanta grazia dalla Persephone1, mi meraviglia moltissimo oltre a darmi un immenso piacere.
Meritano tanto onore? Li ho riletti oggi e mi sono piaciuti, ma è possibile che sia perché mi ricordano quel gusto particolare e unico che si prova quando si scrive per la prima volta: scoprire di saper scrivere ha cambiato in meglio la mia vita in un modo molto profondo, quindi per me essi hanno un significato speciale. Spero con tutto il cuore che piaceranno a chi li incontra per la prima volta nel loro elegantissimo abito nuovo.
Highgate, 2010
1 L’autrice si riferisce all’edizione inglese di questo volume, Midsummer Night in the Workhouse, edito da Persephone Books, Londra 2011.

La volta buona

Andai al ballo con Thomas Toofat. In realtà di cognome si chiama Toogood, ma è davvero troppo grasso, con i capelli ricci e i piedi piatti. Non avremmo mai voluto che scoprisse il soprannome che gli avevamo affibbiato, ma la settimana precedente, al picnic dei Turner, Sarah aveva esclamato senza pensare: «Vi presento Thomas Toofat…». Oh, che momento atroce.
La sera del ballo, appena arrivato chiese di poter andare di sopra a lavarsi le mani, tipico di lui. Mio padre non fa che ripetere che dovremmo mettere un bagno di sotto e morirò se non lo fa davvero – siamo gli unici a non averlo – ma sono sicura che non succederà mai. Sally e Richard erano già arrivati e aspettavamo tutti in salotto. Cominciavo a desiderare che non stesse succedendo, era una tale delusione dopo l’estasi di indossare l’abito da sera. Ma quando il vecchio Toofat si riunì a noi la situazione migliorò di nuovo perché era più elegante del solito con lo smoking (il suo, non quello del padre). E almeno è abbastanza grande da poter guidare.
Anche se Sally e Richard sono fratello e sorella si divertono un mondo a ballare insieme. Sono diventati così bravi, a furia di far pratica, che evitano accuratamente di danzare con altre persone, ragion per cui mi toccò Toofat per gran parte della serata. Non ero mai stata a un ballo in compagnia di un uomo in smoking. Mancavano nove minuti alle due e fino ad allora non avevo mai fatto più tardi di mezzanotte meno otto minuti.
«Andiamo ragazzi» aveva detto mia madre. «Dobbiamo cenare, altrimenti farete tardi.»
Sul tavolo aveva sistemato candele e piattini d’argento per il dessert, ma quando avevo chiesto se prima di cena potevamo bere uno sherry si era limitata a ridere. Fu un’umiliazione atroce. Toofat era a Cambridge solo da due trimestri, ma deve aver pensato che lo trattassimo come un bambino non offrendogli qualcosa da bere.
«Sei bellissima» si era congratulato mio padre. «Sally e Lucinda saranno le ragazze più belle della serata.» Di solito non parla mai con calore, ma quella sera evidentemente si sentì obbligato a farlo. Non c’è nulla di più imbarazzante di una cena con gli adulti prima di un ballo, non riuscivo a guardarli in faccia, e nemmeno a guardare in faccia Toofat e Richard. Sally fu stupenda, parlò a lungo con i miei genitori di mille cose, Richard parlò con mio padre di barche a vela e Toofat non la smetteva più di far notare che andava a Cambridge. È molto pomposo da quando la frequenta, anche se è soltanto uno studente di medicina e Sally e io abbiamo deciso che quelli non contano come universitari veri e propri.
Per gli altri era facile comportarsi in modo normale, non erano mica i loro genitori – infatti io me la cavo benissimo con quelli di Sally. Ma se parlo con disinvoltura con i miei amici davanti ai miei genitori, a mia mamma e mio papà non sembra naturale. «Una ragazza affettata non piace a nessuno» ha detto mia madre l’altro giorno (affettato è l’aggettivo peggiore sulla faccia della terra), ma io non lo ero, avevo solo dimenticato per un istante che mia madre era presente e avevo detto a qualcuno che preferirei morire piuttosto che leggere Proust tradotto in inglese (ed è vero. So che mi sono incagliata con il primo volume, ma al mio ritorno dalla Francia ce la farò).
Comunque, la cena fu odiosa, ma sapevo che sarebbe andata così. Rimasi a sedere impettita; sentivo la gonna che mi accarezzava le gambe e i capelli sulle spalle nude, e aspettavo il ballo. La verità è che andrei a un ballo anche con un babbuino. Quando cominciano luci, musica e danze è tutto così meraviglioso che non serve altro, anche se comincio a pensare che cambierò idea quando mi innamorerò.
Ci fecero andare con la nostra auto perché anche se quella di Toofat sembra veloce in realtà non lo è e cadrebbe a pezzi se superasse gli ottanta. Non la finivano più con gli «Andate piano» e «Non fate tardi», ma alla fine riuscimmo a partire e Sally, Richard e io cominciammo a cantare all’unisono, come sempre in perfetta armonia. Se non li avessi conosciuti tutti così bene e l’altro uomo non fosse stato Toofat, sarebbe stato come fare qualcosa che fanno le altre persone e forse, mentre attraversavamo una serie di paesi, chi ci vedeva pensava che fossimo davvero altre persone: dei ragazzi vedevano solo un lampo bianco e nero, di me e di Sally le stole di chiffon che ci coprivano la testa e le rose, che mio padre aveva tagliato per noi, appuntate sulle spalline (ci eravamo tolte il cappotto appena voltato l’angolo). Quando arrivammo, anche a me sembrava di essere un’altra persona.
Molto tempo fa, quando avevo dodici anni, sentii mia madre e zia Molly commentare quanto erano felici di essere riuscite a evitare di andare a una festa. A quell’epoca pensai solo che fosse strano, ma adesso credo sia la cosa più tragica che abbia mai sentito, perché se sei così vecchio da non aver nemmeno più voglia di ballare, allora non vedo come potresti aver voglia di fare qualsiasi altra cosa: e se non hai più voglia di fare niente tanto vale morire. Lo dissi a Sally mentre ci mettevamo il rossetto (sua madre non le permette di usarlo quindi avevo promesso di non metterlo neanch’io fino al nostro arrivo al ballo, per non farla sentire sciocca a cena. Mia madre me lo concede alle feste). Decidemmo di pregare Dio di farci morire prima di diventare tanto vecchie da non aver più voglia di ballare.
Toofat si limitava a dondolare e a girare agli angoli, ma nonostante i piedi piatti ha un buon senso del ritmo – ballare con lui non è stupendo ma neanche terribile – e dopo due giri di pista mi disse con quel suo tono accondiscendente: «Balli benissimo». Per fortuna è più alto di me. Fu facile abbassare lo sguardo per nascondere il mio immediato rossore. Non ero arrossita per il complimento. L’avevo fatto perché appena mi dicono qualcosa di carino penso subito “Non devi arrossire” e quel pensiero mi fa diventare rossa. Ho sempre creduto che sarei morta presto se non avessi superato quell’atteggiamento, ma nel corso della serata successe qualcosa che cambiò la situazione.
C’era molta gente che Sally e Richard conoscevano, e naturalmente anche Toofat, perché, visto che era scapolo, lo invitano a un sacco di feste. Li conoscevo anch’io, da un certo punto di vista, ma non mi avevano mai considerata come qualcuno che potessero incontrare a una festa da ballo per adulti. Quando ci unimmo a loro mi accorsi che i ragazzi a volte mi invitavano a ballare perché si sentivano obbligati. Comunque mi invitavano, e non mi interessava molto chi fossero o cosa pensassero purché ballassero bene, e alcuni di loro erano ottimi ballerini. Mi sembrava un sogno; era tutto così bello. Danzai varie volte con Toofat, due con Richard, e circa cinque volte con altri ragazzi, e poi, non so come, mi ritrovai con il gruppo di persone portate dai Morgan, e qualcuno mi presentò quest’uomo straordinario.
Non colsi il suo nome. Era piuttosto vecchio e veniva da Londra. Non era particolarmente bello, però aveva occhi grigio chiaro con ciglia nerissime e un naso storto e sottile che gli conferiva un’aria arguta – appena lo vidi pensai che fosse la persona più intelligente della festa, oltre a me, ma non sapevo come dargli prova della mia intelligenza visto che era tanto più vecchio di me. Quando cominciammo a ballare mi chiese: «Ti piace parlare quando balli o preferisci rimandare la conversazione a dopo?», e per me fu un grande sollievo. Naturalmente risposi subito che preferivo parlare in seguito. Fu un ballo divino – uno di quelli in cui i miei piedi riescono a fare cose di cui non li sapevo capaci. Una danza nell’aria. Prese per me del gelato, ci sedemmo su un divano e riprese: «Torniamo a noi. Preferisci essere lusingata, divertita o sconcertata?».
Rimasi sconcertata, è ovvio, ma non lo diedi a vedere. Risposi così – e sono ancora convinta che fosse una risposta perfetta: «La cosa che preferisco in assoluto è essere estasiata».
«Non è tanto semplice» replicò lui. «Mi devi dare qualche indizio sul genere di cosa che ti manda in estasi. Racconti di viaggi? Poesie? Le collezioni di questa stagione? Visioni di eternità?»
«Oh» dissi, «le visioni di eternità non funzionerebbero perché sono atea.» Non l’avevo mai confessato a nessuno prima, nemmeno a Sally, ma il modo di ballare e l’aspetto di quell’uomo mi facevano sentire molto strana.
«Una vera atea convinta?» s’informò lui. «Non semplicemente un’agnostica?»
«Credo di essere proprio atea» risposi.
«Straordinario» commentò. Poi mi accorsi che mi stava praticamente ridendo in faccia, ma mi resi conto con grandissima sorpresa che non mi dispiaceva affatto.
«E sono anche socialista» proseguii. «Non è facile essere una socialista atea dove vivo; sono tutti incredibilmente convenzionali.»
«Cosa farai allora?» mi chiese. «Una specie di rivoluzione personale?»
Gli dissi che volevo andare a Oxford al mio ritorno dalla Francia, e scoprii che c’era stato anche lui un sacco di anni prima, mi pare cinque. Disse che la cosa più in voga del momento era essere conservatori e cattolici, ma scherzava, e poi mi parlò delle cose che avrei fatto a Oxford. Molto diverse dalle cose di cui mi aveva parlato la signorina Montague quando mi preparava all’esame di ammissione, e molto più vicine a quelle che mi sarebbe piaciuto fare. Disse che sarei andata a cena con un uomo diverso tutte le sere e sarei stata un fascio di nervi alla fine di ogni trimestre nel tentativo di decidere da quale farmi sedurre.
Quando parlò di seduzione non fui affatto sconvolta – certo che qualcuno mi sedurrà (anche se il verbo è sciocco) non appena lo desidererò –, ma la parola, collegata a me, mi fece sobbalzare e fui solo capace di arrossire. Fino alla radice dei capelli, come un peperone. Pensai che sarebbe stato il momento più atroce di tutta la mia vita. Ma invece di far finta di non accorgersene, così come fanno tutti, quell’uomo disse con voce estremamente tranquilla: «Ti capita di arrossire per un nonnulla con estrema facilità? Succedeva anche a me ed era terribile».
Sentirglielo dire con tanta naturalezza fu un enorme sollievo, e mi sentii subito meglio. Gli raccontai che i miei rossori improvvisi erano una terribile fonte di umiliazione.
«Smetterà all’improvviso» mi confortò. «A me è successo così.»
«Quanti anni avevi quando ha smesso?» chiesi, ovviamente interessatissima all’argomento.
«Diciannove e mezzo, mi pare» rispose.
«Aiuto!» esclamai. «Significa che mi durerà per altri tre anni almeno.» (Era la cosa più sciocca che potessi dire, perché dimostravo circa diciannove anni con il vestito di quella sera e non volevo lui sapesse che non era così.)
«Ma non capisco perché ti preoccupi» sorrise lui.
«L’hai appena detto anche tu quanto odiavi arrossire.»
«Sì, ma io ero un adolescente goffo e tu sei una ragazza molto carina. Se una ragazza è molto carina può permettersi tutto, anche di arrossire. Non ti hanno mai detto che sei incantevole quando ti succede?»
Per circa un secondo non capii, non capii davvero, ma poi mi resi conto di avere appena ricevuto il complimento più favoloso di tutta la mia vita. Certo, a volte i miei genitori dicono: «Ti dona quel colorito». Mi è stato detto che ballo bene e l’anno scorso un ragazzo mi ha detto che gli piacevano i miei capelli. Vedo da sola che il mio viso non sembra una scarpa vecchia, ma questo era diverso. Quando ero molto più piccola immaginavo che crescendo sarei diventata una persona nuova – una bellezza travolgente con i capelli color castagna –, ma ho capito molto tempo fa che l’aspetto fisico delle persone non cambia molto, e da allora credo di essermi considerata una ragazza normale. Non ho mai pensato di essere molto carina. Fui così allibita dalle sue parole che mi dimenticai di arrossire di nuovo. Anzi, forse impallidii.
«Dici sul serio?» chiesi, e mi rispose di sì. Poi aggiunse: «Accidenti. C’è la mia prossima ballerina accanto alla porta, sembra smarrita. Devo andare a prenderla. Dobbiamo ballare ancora più tardi». Mi guardò, strizzò gli occhi e raggiunse una bellissima ragazza in abito nero. Credo fossero innamorati perché più tardi li vidi ballare guancia a guancia, con gli occhi chiusi; non mi invitò a ballare di nuovo. Però dopo quella conversazione meravigliosa non potevo aspettarmi di più.
Corsi al piano superiore per guardarmi allo specchio, e mi parve davvero di essere molto carina, anche se a quel punto ero arrossita di nuovo. Quando scesi mi sentivo più che mai in balia di un sogno: in fondo alle scale trovai Toofat, che mi passò un braccio intorno alla vita e mi trascinò in pista per ballare un valzer; e se la cavò piuttosto bene. Non smise di parlare un secondo del fatto che, benché odiasse lo sport, aveva deciso di cominciare a praticarne uno: è convinto che tutti debbano forgiare la propria forza di volontà facendo qualcosa che odiano. Mi chiese se secondo me era meglio il cricket o il rugby. Risposi il cricket, perché mi sembrava il più facile – tanto sarebbe una schiappa in entrambi; dovreste vedere come gioca a tennis. Ma mettere alla prova la propria forza di volontà è ammirevole, quindi decisi di non chiamarlo Toofat mai più, neanche tra me e me – e il mio proposito si fece più saldo quando mi confessò che la sua occupazione preferita era scrivere versi. Lo scorso trimestre hanno pubblicato una ...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. BUR
  3. Frontespizio
  4. Il suono dolce della pioggia