
- 200 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Dolce per sé
Informazioni su questo libro
Una donna matura e giramondo scrive per sette anni a una bambina, sua giovanissima amica, raccontandole esperienze, evocando i ricordi del suo amore per un giovane violinista, descrivendo viaggi, concerti, aneddoti familiari.
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Informazioni
3 ottobre 1988
Cara Flavia,
sono passati sei mesi dall’ultima volta che ci siamo viste. Da quando sei entrata, come un angelo infuriato, nella sala d’ingresso dell’Hôtel Bellevue, il cappellino rosso ciliegia in testa, la gonna scozzese che ti saltellava sulle ginocchia, le scarpe rosso pomodoro col fiocchetto da ballerina. Vedendomi, hai gettato a terra i giornali di tuo padre per correre ad abbracciarmi.
Non sapevo che ci saremmo separate per tanto tempo, non sapevo che ne avrei sofferto, non sapevo che saresti entrata nelle mie peregrinazioni mentali come la "bambina delle feste". Ma dove sono ormai quelle feste? Voltandomi indietro ho paura di fare la fine della moglie di Lot. Eppure "non è cosa / ch’io vegga o senta, onde un’immagin dentro / non torni, e un dolce rimembrar non sorga". La mia testa continua a girarsi con un movimento timido e impacciato, fra il timore e la curiosità. "Dolce per sé; ma con dolor sottentra / il pensier del presente, un van desio / del passato..."
È questa la "ricordanza"? Quel tetro ingresso dell’Hotel Bellevue, quelle pareti marroncine, la plafoniera giallo uovo, i divani a fiori rosa su fondo grigio?... Anche se poi le camere erano luminose e avevano le finestre che si aprivano sulle rocce grigio-azzurre dello Sciliar.
Potrei trasformarmi in una statua di sale, se insistessi, lo so, come la moglie di Lot: ma come si chiamava la moglie di Lot? La Bibbia non lo dice. L’ho sfogliata in lungo e in largo. Puoi solo immaginarla come una donna senza nome, senza faccia, appartenente per diritto matrimoniale a un certo Lot.
Eppure il suo gesto ha avuto conseguenze decisive e disastrose: la curiosità, questo sentimento sensuale e dirompente, anziché renderla più mobile, più viva e generosa, la irrigidisce, la calcifica. Possibile che la memoria sia un processo di pietrificazione dello spirito? È questo che suggerisce nostro Signore?
Continuo a girare la testa all’indietro, con un gesto che è insieme timido e ardimentoso, nel timore trattenuto di trovarmi intrappolata in un processo di necrosi mentale. Dietro la città che nasce dalle luci del ricordo ci sei tu, Flavia, prigioniera di una porta girevole. Te lo ricordi? Ti piaceva spingere il pesante vetro con tutt’e due le mani, uscire e poi rientrare mentre qualche signora con la racchetta da tennis in mano aspettava pazientemente che tu avessi finito il gioco per poter a sua volta uscire.
L’Hôtel Bellevue. Anche quello proibito? Non ti voltare indietro, non senti il sale in fondo alla gola? Eppure era un albergo così pacifico, niente a che vedere con Sodoma e Gomorra, un albergo dalle solide tradizioni montanare, che ospitava soprattutto clienti anziani.
«Che voglia di rivederti!» hai detto entrando nella hall del Bellevue. Poi sei corsa da tua madre per aiutarla a portare dentro la grossa valigia a righe. Intanto, tuo padre posava il suo violoncello, dalla fodera nera, contro il bancone e domandava le chiavi delle due stanze che aveva prenotato.
«La signorina desidera una camera con vista sullo Sciliar?» ha chiesto il portiere, cerimonioso. E tu, che avevi fatto la grande fatica di aiutare tua madre nel trasporto della valigia, ti sei abbandonata con un tuffo sul divano a fiori rosa e hai detto: «In questo momento sono orribilmente stanca», una frase tipica della tua bisnonna Fiorenza che tu avevi adottata con puntiglio mimetico.
«E lo zio Edoardo?» mi hai chiesto saltando sul divano, già dimentica della tua "orribile stanchezza". Lo zio Edoardo è il nostro legame, la nostra conquistata parentela, il nodo di affetti che ha portato te a me e me a te. Come se tra una bambina di sei anni e una donna di cinquanta si possa formare un rapporto di curiosità e tenerezza. Soprattutto quando non sono parenti e si sono conosciute da poco.
«Lo zio Edoardo sta su in camera a studiare» ho detto guardandoti saltellare allegramente. «Allora andiamo su.» E mi hai preceduta verso l’ascensore. Volevi essere tu, con le tue dita corte e grassottelle a pigiare il bottone nero, per poi osservare, beata, la spia rossa che si accendeva ad ogni piano.
«Gli facciamo una sorpresa?» hai detto. E sei andata avanti per aprire la porta di botto e urlare: «Sono qui!». Ma la porta della camera numero 38 era chiusa a chiave e tu hai storto la bocca comicamente. La sorpresa non era più possibile. Si sentivano al di là della porta chiusa le note aspre e soavissime del Preludio in mi maggiore di Bach. «Bussa con più energia» ti ho detto.
Hai bussato. Ma tuo zio non ti ha sentita perché il suono del violino copriva il tuo picchiare. Hai bussato ancora, con più forza. Il Preludio si è interrotto e si è sentita la sua voce "di cornacchia", come dici tu, gridare: «Chi è?».
«Sono la cameriera, c’è una lettera per lei» hai detto soffocando le risate. Si sono sentiti dei passi, una mano che girava la chiave nella toppa. E sulla porta è apparso il tuo bellissimo zio Edoardo, in pigiama, col violino in una mano, l’archetto nell’altra e un sorriso sorpreso e felice sulla bocca minuta che una comune amica definisce "barocca".
«Sono io la lettera» hai gridato abbracciandolo.
Mentre vi stringevate ridendo, ho sollevato da terra un maglione arrotolato e ho riportato nel bagno un asciugamano umido. Il tuo dolcissimo zio non è quello che si dice "una persona ordinata". Eppure, quando suona è così preciso e sistematico. La musica, si sa, pretende una continua geometrica distribuzione degli spazi.
«Ora torno giù dalla mamma che ha bisogno di me, tu continua pure a suonare» hai detto con saggezza compunta. Mi hai presa per mano e siamo tornate insieme al piano di sotto.
Quell’albergo, con i suoi vecchi divani, i suoi tavolini da gioco, i suoi acquarii, sembrava uscito da un film di Jacques Tati. Le vacanze di monsieur Hulot l’hai mai visto? Il surrealismo un poco sgomento di Tati è sempre stato una fonte di allegria, per me.
Monsieur Hulot, con la lunga pipa in bocca, cerca di partecipare ai divertimenti dei suoi compatrioti ma finisce per combinare un sacco di guai; guai che scombussolano quell’aria sonnacchiosa e prevedibile delle vacanze anni Cinquanta in Provenza. Gli ospiti dell’albergo sono affezionati ai loro orari, alle loro abitudini: le lunghe partite a tennis di cui, anche da lontano, si avvertono i ritmi per quel plof plof puntuale della palla di gomma che rimbalza sul terreno spianato; le passeggiate al tramonto quando le signore raccolgono conchiglie e le porgono ai mariti che, con gesto indifferente, le gettano via; le pomeridiane partite a carte attorno ai tavolini dal ripiano di feltro verde; le cene silenziose interrotte dal fracasso "inammissibile" di una sedia rovesciata per caso da un bambino; i vol-au-vent con la besciamella al gusto di funghi porcini; le fettine di carne troppo cotta; le carote alla Vichy; il ballo in maschera al quale nessuno partecipa salvo, appunto, il buffo monsieur Hulot.
«Ma monsieur Hulot chi sarebbe?» chiederesti tu, lo so, mettendo in moto la tua logica infantile. Be’, un poco il tuo candido zio Edoardo, un poco tu, Flavia, e un poco forse anch’io con le mie goffaggini e le mie comiche distrazioni.
Chissà come sei cresciuta in questi sei mesi; come l’erba cipollina che ti volti un momento ed è già diventata alta e rigogliosa. Mia madre diceva che se si fa molta attenzione si può sentire l’erba che cresce. Tu l’hai mai sentita?
La mattina venivi a bussare alla mia porta per chiedermi: «Che scarpe mi metto oggi?». Io ti dicevo: «Gli scarponcini col carro armato». E tu: «Ma non sarebbe meglio se mettessi le scarpe bianche da tennis?». «Per le passeggiate fra i boschi non vanno bene» ribattevo io. «Allora metto quelle rosse e poi, stasera, quelle bianche, eh?»
dp n="12" folio="12" ? Chissà quanto si sono allungati i tuoi piedi. Ma, mi raccomando, quando arrivi al trentasette, fermati. Il trentasette è un numero buono per una donna. Se diventano troppo lunghi ti chiameranno "piedona". I vecchi saggi dicevano che i piedi grandi significano carattere incerto, generoso e pasticcione. Tu non sei né pasticciona né irruente; sei una bambina ordinata e volitiva con una leggera tendenza alla malinconia.
Quando guardavi le mie scarpe storcevi il naso. Erano troppo scure e severe per il tuo gusto. «Perché non ti metti i sandali d’oro?» mi chiedevi e, dal modo in cui ti mordevi il labbro inferiore, capivo che avresti voluto indossarli tu, i sandali d’oro. Ma sapevi che tua madre Marta non te lo avrebbe permesso, perciò volevi che li calzassi io.
Qualcuno mi ha detto una volta che portavo scarpe "da suora". Probabilmente tu saresti d’accordo. Se ti chiedessi a bruciapelo: «Ti piacciono le mie scarpe?» ti nasconderesti dietro uno di quei sorrisi d’occasione che usi quando una pietanza non è bene accetta al tuo palato, ma non osi pronunciarti ad alta voce per non ferire chi ti sta servendo.
I miei piedi, lo sai, da ultimo si sono messi a crescere nonostante abbia superato di molto l’età dello sviluppo. È buffo, no? Da qualche tempo le scarpe mi facevano male. Mi chiedevo se avevo fatto i "peri duci", come raccontava la mia balia siciliana, "i piedi dolci", troppo sensibili per qualsiasi paio di scarpe. Poi, un giorno, mi sono detta: sai che faccio? mi compro un paio di scarpe di un numero più grande per stare comoda e se proprio saranno larghe, ci infilerò una soletta. Invece ci stavo benissimo e improvvisamente non ho più sofferto di male ai piedi.
Non devono neanche essere troppo piccoli i piedi, sai, perché sennò inciampi. A meno che, crescendo d’età, tu non rimanga al di sotto del metro e mezzo di statura. Ma sono sicura che diventerai più alta. Sei già una bambina molto lunga per i tuoi sei anni. Se diventerai come tua madre, sarai della misura giusta. Ma forse crescerai ancora, supererai i tuoi genitori e diventerai una pertica. Te la immagini tu, la Flavia di vent’anni, con le gambe lunghe lunghe e i piedi enormi, il cappelletto rosso ciliegia in testa e le scarpe rosso pomodoro ai piedi?
Io, probabilmente, non ci sarò più e tu sarai una bella ragazza con gli occhi colore delle castagne mature e il sorriso fra timido e sfrontato. Perché tu sei una bambina timida, questo lo so; ti nascondi perfino a te stessa, ma non manchi, come tutti i timidi, di qualche temerarietà. I tuoi occhi, quando sei presa dalla paura, diventano piccoli, quasi avessi timore di essere invasa dalla luce. E allora metti su le persiane dello sguardo, come facevano le monache quando volevano guardare senza essere viste da dietro le grate dei conventi.
Alle volte, invece, sei decisamente sfacciata. Da muta che eri, diventi chiacchierina e nessuno ti può fermare. Sono le domande che ti fanno ardita, i tanti perché che ti saltano sulla lingua: come mai le mucche hanno la coda e io no? perché le mamme hanno la mania di far mangiare i figli? perché la montagna è verde e il cielo è blu? perché i papà partono sempre e le mamme rimangono a casa ad aspettare? perché tu hai gli occhi celesti e io marrone? perché lo zio Edoardo ti chiama "amorero"?
Non è facile rispondere alle tue interminabili domande. In questo assomigli a un mio professore di filosofia, un uomo scarmigliato e gentile che mi ha insegnato a tirare i bandoli delle matasse del pensiero: perché l’uomo muore? chiedeva sporgendosi dalla cattedra, le maniche della giacca arrotolate sulle braccia pelose; perché il cielo è azzurro e sembra vuoto? perché chiamiamo il male demonio? cosa significa credere nel futuro?
Non erano tanto le risposte a creare sconcerto ma le domande in se stesse: imparare a diffidare delle certezze, non accontentarsi mai delle risposte che tutti darebbero meccanicamente. C’è un "perché" nascosto nelle cose che conduce ad un altro "perché", il quale suggerisce un piccolissimo imprevisto "perché", da cui scaturisce probabilmente un altro, nuovissimo e appena nato "perché".
Risponderò solo all’ultima delle tue domande visto che mi riguarda da vicino: lo zio Edoardo mi chiama "amorero" perché mi vuole bene. "Amorero" è una piccola deformazione giocosa della parola "amore". Abbiamo cominciato un giorno per scherzo aggiungendo un "ero" alle parole per farle suonare spagnolesche e favolose. Poi è diventata un’abitudine. Così, per esempio, lui dice: «Andiamero al cinemero» e io rispondo: «Quale filmero vuoi vederero?».
Un gioco da bambini, tu dirai, e in effetti si tratta di un "segretero bambinero". Nel mondo dei grandi lo chiamerebbero "gergo". Ma il gergo, per essere riconosciuto come tale, deve essere usato da più persone; mentre noi siamo solo in due. Il fatto è che gli innamorati si credono una folla anche quando sono uno più uno; si arrogano il diritto di inventare dei gerghi loro che trattano con la serietà di una lingua vera dotata di una propria grammatica e di una propria sintassi. Sarebbero capaci di stampare un vocabolario delle parole in "ero" come se la cosa avesse un qualche fondamento linguistico.
La mia amica Laura, che ha un orecchio un poco distratto, credeva che io chiamassi tuo zio "torero". E così, un giorno, gli ha detto: «Senti, torero». Da allora siamo stati noi a chiamare lei "torero" e con questo l’abbiamo fatta entrare nel nostro piccolo giardino lessicale.
Per me si tratta di un gioco che coinvolge le parole di uso comune, per tuo zio di un divertimento sonoro. Anche per tuo padre i suoni vengono prima di tutto. Non a caso sono tutti e due musicisti, nati e cresciuti in una famiglia dedita alla musica. Il tuo bisnonno, non so se te l’hanno già raccontato, era un famoso violoncellista. Aveva avuto la stravaganza di sposare una principessa egiziana, figlia di un re arabo dei deserti che ogni anno riceveva una quantità d’oro pari al suo peso e perciò si portava in giro una pancia grande e grossa come una cupola.
Ma la principessa Amina, che come femmina non veniva valutata a peso d’oro, era magra e bella e portava i capelli bruni sciolti sulle spalle. Questa principessa Amina, a quanto mi racconta tuo zio Edoardo, teneva in giardino un’oca molto intelligente e di carattere che si chiamava Belo. La mattina, quando si alzava, la tua bisnonna andava alla finestra e chiamava: «Belo, Belo!». E l’oca rispondeva: «Uhé, uhé». Belo era anche molto gelosa e una volta che il tuo bisnonno si era avvicinato alla moglie in giardino per ’darle un bacio, Belo gli aveva beccato ferocemente il sedere.
Si dice che Amina fosse molto elegante, molto raffinata e fosse ghiotta di leccornie salate. Come te, Flavia, preferiva un cetriolino sott’aceto a una caramella al miele. Col tuo bisnonno si erano conosciuti in una circostanza romanticamente drammatica. Lui aveva fatto un atterraggio di fortuna col suo biplano sulle spiagge della costa romagnola. Tutto ammaccato e stracciato, ma non meno bello e affascinante per questo, il giovane pilota era saltato fuori dall’aereo in panne e come in un film americano degli anni Venti, aveva cercato disperatamente un telefono per farsi venire a prendere. Il caso volle che il solo telefono della zona si trovasse dentro la villa della principessa egiziana; villa sepolta in mezzo ai lentischi e ai pini nani lungo la costa, allora deserta e bellissima. La ragazza vide il giovane infortunato e lo fece entrare perché telefonasse. E da quella telefonata "galeotta", proprio come nei migliori romanzi d’amore, era nata una grande passione sfociata in un matrimonio.
Si racconta che la giovane Amina dai capelli lunghi e la voce soave, avesse la passione dei medicinali, che poi è passata a tuo nonno Pandino. E che quando si insediò la prima volta nella casa di Napoli dove ha dato alla luce il suo unico figlio, mandasse talmente spesso i servitori in farmacia da spingere il proprietario a chiedere se nel quartiere fosse stata aperta una clinica.
Piccole mitologie familiari, qualcuno potrebbe pensare, di poca importanza. Ma una famiglia senza mitologie sarebbe come un cielo senza stelle, un buco vuoto e inquietante.
La tua bisnonna egiziana, dai lunghi capelli neri, è morta giovane in un incidente aereo nei cieli del Mediterraneo. Strano, questo destino legato al volo, no? un biplano le aveva portato l’amore, un bimotore le portò la morte.
Qualche anno dopo, il tuo bisnonno Arduino si è risposato, contro il parere di tutta la famiglia, con una bellissima violinista che si chiama Teresina.
Io l’ho incontrata, sai, questa tua bisnonnastra, la vogliamo chiamare così? a New York dove tuo zio doveva dare un concerto. Abbiamo saputo per caso che Teresina avrebbe suonato in una saletta del Metropolitan Museum e lì siamo andati trepidanti di curiosità.
Dopo avere attraversato sale tappezzate di quadri antichi, ce la siamo trovata improvvisamente davanti, sopra un palchetto di frassino, fra due tende giallo uovo: portava un vestito nero dalla scollatura profonda, i capelli grigi sciolti sulle spalle ed era bellissima nonostante i suoi settant’anni.
«Diavolo di una donna, suona ancora benissimo» diceva tuo zio Edoardo ascoltando il Quintetto di Boccherini chiamato La ritirata di Madrid. Lui era il solo in famiglia ad averla un poco frequentata. Il fatto è che tuo nonno, il padre di tuo padre, il pigro Pandino dalle occhiaie nere e l’indolenza di un plantigrado, non l’ha mai potuta soffrire perché Teresina aveva preso il posto della madre amata, la proprietaria di Belo. E a loro volta, i figli di Pandino erano stati educati a considerarla una estranea.
Tuo zio Edoardo, che è curioso come una gazza e ama fare il bastian contrario, ha deciso che non avrebbe tenuto conto dell’ostracismo familiare nei riguardi della bella Teresina. Lui, poi, è violinista e questa donna che "suona come un serafino" lo incuriosiva moltissimo.
In camerino, dopo il concerto, mi è sembrata di una bellezza pallida e sofferente. In effetti aveva un dolore acuto alla spalla sinistra, come ci ha detto sorridendo, e nonostante questo aveva suonato con grande raffinatezza e sapienza.
D’altronde anche nella famiglia di tua nonna, la madre di tuo padre, sono musicisti. Il tuo bisnonno Edoardo è stato un apprezzato pianista. Qualche volta mi è capitato, dopo i concerti di tuo padre e di tuo zio, di vederli tutti assieme attorno a una tavola imbandita. Il nonno pianista è ancora pieno di vita e di voglie nonostante la testa pelata, i grossi occhiali da miope e la faccia solcata dalle rughe.
La nonna Fiorenza, tua bisnonna, viene chiamata in famiglia "nonnà" ed è la persona più quieta e delicata che io conosca. Il suo corpo minuto, un poco curvo, rivela l’atteggiamento di una lunga vita di dedizione. Si vede a occhio nudo che ha passato giorni e notti a curvarsi sui figli, sul marito, sui nipoti, sul pianoforte, sui cibi, sugli animali. Tanto che il suo torso ha preso quella forma che potremmo chiamare di "attenta e scrupolosa regalìa".
Strano che ai concerti di Castelrotto i tuoi nonni non ci fossero. Di solito non m...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Dolce per sé