La moglie nella cornice
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La moglie nella cornice

  1. 288 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La moglie nella cornice

Informazioni su questo libro

Per amore di Alberto e del piccolo Piero, Joanna abbandona la carriera di modella, anche se è all'apice del successo. Novella sposa, si butta con l'entusiasmo e l'amore dei suoi giovani anni nel nuovo ruolo di moglie e madre, ma ben presto si accorge di avere una rivale difficile da battere: la prima moglie di Alberto, morta in circostanze tragiche. Con la sua bellezza ingenua e la sua fragilità, Jo deve lottare non solo contro un fantasma ancora troppo vivo, ma anche contro le ombre di un passato - il proprio - che non ha mai cessato di perseguitarla.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
Print ISBN
9788817048699
eBook ISBN
9788858627242

Parte prima

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I

«Scuoti i capelli!» ordinò Fontana. Spostando vigorosamente la testa da destra a sinistra, e da sinistra a destra, Joanna dovette farsi forza per non scoppiare a ridere. I fotografi di moda si dividevano in due categorie, gli intimisti e i dittatori, quelli che sussurravano sensualmente e quelli che comandavano come kapò: Fontana evidentemente aveva optato per quest’ultima categoria. Era il suo primo servizio importante e Joanna si divertiva ad assecondarlo, pregando però in cuor suo che la caposervizio del giornale si decidesse ad arrivare e a intervenire.
Il fondale azzurrino era pacchiano, il ventilatore inutile, le luci maldisposte. E lo sgabello su cui l’avevano issata la costringeva a una posa acrobatica assolutamente innaturale. Ma, come sempre, Joanna si guardò bene dall’intervenire. La docilità faceva parte della sua fama. Il mese prima era apparsa drammatica e carnale sulla copertina di Vogue America, esangue e ambigua su quella di Bazaar, allegra e dolcemente maliziosa su quella di Elle. Ogni giornale e ogni fotografo potevano trasformarla a loro piacimento: ma era una docilità apparente, perché in realtà Joanna non avrebbe mai permesso a nessuno di truccarla o vestirla o ritrarla in modo diverso da come piaceva a se stessa.
E alla fine era sempre lei a dare l’ultimo tocco al maquillage, a sistemare in un certo modo un foulard o una spilla, a stabilire come guardare l’obiettivo. Adesso guardava Fontana esaminare i polaroid con aria perplessa.
Bravo ragazzo, hai capito che non ci siamo, rise tra sé. E gettò un’altra occhiata all’ingresso del teatro di posa. La caposervizio stava finalmente entrando, con la solita aria trafelata di tutte le giornaliste di moda.
«Fontana, che ci fai con quel fondo? Neutro, ti avevo detto!» strillò. Poi, avvicinandosi a lei: «Ciao, Joanna». Le abbassò una spallina, raddrizzò lo spacco della gonna, le spinse indietro la frangia e di colpo cacciò un altro urlo. «Tina! Ti avevo detto niente kajal! Lavare la faccia e rifare tutto, solo una sfumatura di ombretto sulle palpebre!»
Joanna saltò giù dal trespolo con un balzo felice. Era quello che si aspettava, il tratto scuro del kajal le induriva il viso e Tina, la truccatrice, ci aveva dato sotto anche con il fondotinta. Andò nella toilette, aprì il rubinetto dell’acqua fredda e si sciacquò più volte il viso: detestava i detergenti, solo il contatto con l’acqua le dava quel meraviglioso senso di freschezza e di pulizia.
Finì di detergersi con un kleenex, si sciacquò di nuovo e tornò in camerino. Stavolta fu lei, con i gesti precisi di un’infermiera di sala chirurgica, a porgere a Tina mascara, pennelli e fondotinta. A trucco finito, si passò la spazzola tra i capelli levandone ogni residuo di lacca. Poi si guardò allo specchio soddisfatta.
«Selvaggia come Loredana Berté e atomica come Gilda» declamò alle sue spalle il fotografo Fontana.
Joanna lo fissò nello specchio, senza girarsi. «E tu chi vuoi imitare, Avedon o Toscani?» ribatté, subito dispiaciuta per il tono involontariamente acido.
Le faceva rabbia sentirsi dire che rassomigliava a qualcuno, forse perché le era costato tanto trovare se stessa. Scacciò una fastidiosa fitta di malessere, si girò e sorrise. «Sono pronta, andiamo?»
Il fondale era stato sostituito, il trespolo era scomparso e l’assistente stava piazzando di nuovo gli ombrelli sotto lo sguardo critico di Donata Girelli, la caposervizio. «Adesso dacci dentro tu, Fontana» lei disse infine.
Era sempre più evidente che, per il giovanotto, si trattava del primo servizio importante e la presenza della Girelli gli impediva di riassumere la maschera di dura professionalità. E Joanna, dando un’occhiata all’orologio, decise di collaborare: erano ormai le dieci e mezzo e a quella copertina poteva dedicare soltanto quella giornata.
Scrollò la testa e poi la spinse avanti e indietro con movimenti dolci ma veloci (un vecchio trucco del mestiere per rilassarsi e distendere i muscoli del collo) e offrì un volto radioso all’obiettivo. «Così... bene... bene... sorridi» la invitò Fontana cominciando a scattare.
«Prendila anche di tre quarti» suggerì la caposervizio.
«Viene meglio di fronte. È una delle poche che può sorridere, approfittiamone» ribatte Fontana. E rivolto a Joanna: «Continua a sorridere».
«Non troppo, Joanna!» strillò la caposervizio. «Stiamo presentando un vestito, non il biglietto vincente della Lotteria Italia!»
Joanna capì al volo cosa volevano da lei: doveva essere allo stesso tempo cordiale e intimidatoria, sorridente e distaccata, svagata e assorta. Lo chic visto dalle testate che dovevano alzare il target osando ma non troppo, pensò ironicamente.
Sei in ribasso, ragazza mia, si disse poi guardando in macchina con labbra socchiuse e occhio trucido. Non avrebbe mai accettato di posare per la copertina di un giornale minore come Penelope se Fray, il capo della sua agenzia, non glielo avesse chiesto per favore.
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«Bene... così... alza appena appena il collo...» Un clic dietro l’altro, con brevi intervalli per ricaricare la macchina. I muscoli del collo cominciavano a dolerle, le labbra tremavano nello sforzo di controllarle, nel box attiguo stavano montando un altro servizio e le era difficile concentrarsi: doveva essere sparita una camicetta e una redattrice litigava a voce alta con la guardarobiera che giurava di averla appesa dieci minuti prima nella fila di mezzo.


Alle sei del pomeriggio finalmente Fontana disse che poteva bastare e Joanna pregò, in cuor suo, che fra trecento scatti ve ne fossero almeno un paio decenti. Passò in segreteria a consegnare la fiche e vide che aveva cominciato a piovere. Un brivido di freddo le corse per la schiena e istintivamente si strinse nella giacca a vento.
«Se sei sulla mia strada, ti do un passaggio» disse Fontana alle sue spalle.
«Con questo tempo non si trovano taxi, ne sto cercando uno da mezz’ora» intervenne la segretaria.
«Abito in via Spiga, ma puoi lasciarmi al primo posteggio o in piazzale Loreto» Joanna disse al fotografo.
L’auto di Fontana era una vecchia jeep cui polvere e pioggia avevano dato un colore indefinibile e un’aria di battaglia. Fontana le aprì lo sportello e salì a sua volta. Mise in moto e azionò il tergicristallo che cominciò a spostarsi con uno stridio di ferrovecchio.
«Non è il massimo, ma sono tornato stamattina dalla campagna» si scusò Fontana.
«Odio la campagna» Joanna disse in fretta.
Fontana si girò verso di lei con aria stupita.
«Però hai un bellissimo naso» lei aggiunse scoppiando a ridere.
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«Perché ridi, adesso?»
«Perché ha smesso di piovere, perché stasera alla TV trasmettono Come eravamo e perché... perché basta.»
«Sei una strana ragazza, lo sai?»
«Come ti chiami di nome?»
Fontana si girò di nuovo, con la stessa aria stupita. «Amedeo.»
«Mi piace. Senti, hai qualche impegno stasera?»
«No... Perché me lo chiedi?»
«Potremmo mangiare una pizza insieme. Adoro la pizza» lei propose.
«E adori i film d’amore.»
«Appunto. Allora, sì o no?»
«Vada per la pizza. Adori anche un locale in particolare?»
«Quelli pieni di gente e molto rumorosi» lei disse seriamente.
Fontana replicò guardando la strada: «Non finisci di sorprendermi. Oppure mi stai prendendo in giro?».
«No» disse Joanna laconica.
Piazzale Loreto era un ingorgo di macchine e Amedeo Fontana si concentrò sulla guida. Joanna teneva le mani raccolte sul grembo e fissava qualcosa davanti a sé, stranamente silenziosa.
Per quanto assurdo fosse, nonostante l’avesse scrutata e fotografata tutto il giorno, lui "vedeva" realmente soltanto adesso la lunga massa di riccioli ramati, il piccolo naso diritto, gli occhi nerissimi dal taglio leggermente allungato, le labbra carnose e perfette che, nel sorriso, dischiudevano una fila di denti bianchi e diritti. Non a caso era la top model del giorno, la più pagata e richiesta. In una giornata Joanna poteva guadagnare più del suo stipendio di un mese. Solo che lui avrebbe potuto lavorare per altri trent’anni, mentre lei, fatalmente, nei prossimi due sarebbe stata superata e bruciata.
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«Quanti anni hai?» le chiese, accorgendosi subito che la domanda poteva apparire senza alcun nesso logico.
«Ventitré, le soglie della decrepitezza» Joanna rispose con un risolino. «Tra un anno al massimo dovrò pensare alla pensione.»
Era come se gli avesse letto nel pensiero, e Fontana avvertì un curioso disagio. A metà del piazzale deviò verso destra. «In fondo a viale Monza c’è una pizzeria affollatissima, potremmo andare lì. Ma com’è che ti piace tanto il rumore?» chiese per riportare la conversazione a un livello più fatuo.
«Sono cresciuta in un orfanotrofio» Joanna disse con semplicità. «Lì non c’era mai profumo di pizza. E nessuno si dava spintoni, alzava la voce o teneva lo stereo a tutto volume. C’erano solo suore e bambine.»
«Sei... hai avuto un’infanzia molto triste.»
«Più che altro molto silenziosa. Ci pregavano sempre di parlare a bassa voce, e forse per questo adesso mi piace tanto il rumore.»


«Ordina prima tu, altrimenti poi mi pento» lei rise.
Fontana esaminò la lista e chiese una pizza napoletana. «A me una quattro stagioni» disse Joanna. La cameriera stava andandosene, quando lei la richiamò. «Aggiunga, per favore, molti funghetti e molto origano. E mozzarella doppia!»
«Vedo che non hai problemi di linea» osservò, più che chiedere, Fontana.
«Fino a quindici anni ho avuto il problema di ingrassare: ero inchiodata a trenta chili.»
«Era... è stato quando eri in quel collegio?» Fontana chiese con cautela.
Joanna gli inchiodò addosso i lunghi occhi. «Sì, ma non occorre usare un tono tanto dolente. Lì ho avuto il primo materasso a molle, la prima minestra calda, le prime scarpe senza suola bucata.»
«Ma i tuoi genitori...»
«Mio padre ebbe un incidente d’auto quando io avevo quattro anni, mia madre si impiccò quando ne avevo nove. Purtroppo non si può dire, come in quel famoso film, che tra un episodio e l’altro ho goduto di una certa serenità: mia madre, per mantenermi, faceva la prostituta, e siccome non era né giovane né bella guadagnava pochissimo. Vedi, lei era americana e si era sposata in America, dove io sono nata. Papà invece era figlio di italiani. E quando morì, mia madre andò a Salerno convinta che i nonni italiani ci avrebbero ospitate e accolte. Ma erano molto vecchi e molto poveri: noi eravamo "le americane", una donna e una bambina sconosciute che non sapevano neppure parlare la loro lingua. Ci ospitarono come poterono, con molti sacrifici e poco affetto. Fu per quello che la mamma venne a Milano. Sperava di trovare un lavoro, invece trovò soltanto qualche uomo da rimorchiare a casa o nella solita pensioncina squallida.»
«Joanna... io...»
«Uno di quegli uomini, una notte, mi violentò. Avevo nove anni. E quando uscii dall’ospedale, mia madre si era impiccata. Così fui messa in un orfanotrofio. Ma è una storia lontanissima. Quella povera bambina silenziosa e scheletrica è diventata una splendida e affamata top model di ben quarantasette chili. Quando pensi che arriveranno le pizze?»
«Joanna, racconti a tutti la storia della tua vita?»
«Fino ad ora, solo a quattro persone: allo psicologo del tribunale, a un dolcissimo uomo, a una stupenda persona che si chiama Henri Chenot. E a te.»
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«Perché a me?»
«Perché hai i capelli a spazzola e gli occhi ansiosi. Lo psicologo mi congedò a diciassette anni dopo avermi convinta che ero molto intelligente e "predisposta" alla fortuna, oltreché dotata di istinti sanissimi. E d’istinto ho avuto voglia di parlare con te. Sei sposato, Amedeo?»
«Sì, felicemente. E ho due figli gemelli, di tre anni.»
«Mi piacerebbe molto conoscere la tua famiglia. Come si chiamano i gemelli?»
«Luca e Andrea. Sono molto belli.»
«Hanno i capelli a spazzola e gli occhi ansiosi?»
«Joanna, chi è stato il tuo primo uomo?»
«Un fotografo di Rimini. Fu la mia ultima vacanza in una colonia. Io vidi in lui il principe azzurro, lui l’adolescente con gli occhi a mandorla e il fisico atomico. Sorvolando sui particolari, fu quel fotografo a lanciarmi. Ho cominciato con la pubblicità di una marca di calze, lo sai?»
«Hai... hai avuto altri uomini, dopo?»
Joanna scoppiò a ridere: «Di nuovo questo tono circospetto! Sì, ho avuto molti altri uomini, tra cui un playboy parigino molto mondano, un industriale milanese molto ricco, un giornalista americano molto famoso, un agente internazionale molto introdotto... Sono loro che mi hanno aiutata a arrivare fin qui. E smettila di sbriciolare quel grissino a occhi bassi, Amedeo».
«Forse, suggerendoti di seguire il tuo istinto, il tuo psicologo non intendeva propriamente questo.» Adesso aveva alzato gli occhi e la fissava.
«Forse no, però di certo non mi sento né traumatizzata né perduta.»
«E come ti senti?»
«Una ventitreenne senza legami e senza tabù. Non considero il sesso un peccato... e in qualche caso può essere addirittura una buona azione verso se stessi.»
Lui stava per ribattere qualcosa, ma erano arrivate finalmente le pizze e Joanna spalancò le mani con un gesto gioioso di bambina, cominciando a mangiare velocemente.
L’analisi deve fare davvero miracoli, si disse Fontana osservandola. Un’infanzia come la sua avrebbe disintegrato qualunque essere umano: invece Joanna ne era uscita intera e viva. Una splendida ragazza dal corpo selvaggio e... e il cuore innocente pensò, sentendosi subito ridicolo. Però disse, molto seriamente: «Mi piacerebbe davvero diventarti amico, Jo».
«Anche a me. E ricordati di presentarmi i tuoi gemelli!»


Tra acquisto e ristrutturazioni quel piccolo attico in via Spiga era venuto a costarle novecento milioni: tutti i guadagni di due anni di lavoro, più un lauto assegno che Mario Fortis, il ricco industriale milanese, l’aveva costretta a prendere alla fine della loro relazione.
"Non voglio essere pagata, mi hai già offerto i sei mesi più sontuosi della mia vita" si era ribe...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Nota dell’autrice
  4. Antefatto
  5. Parte prima
  6. Parte seconda