Il lato attivo dell'infinito
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Il lato attivo dell'infinito

  1. 300 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il lato attivo dell'infinito

Informazioni su questo libro

Il 19 giugno 1998 viene diffusa la notizia della morte di Carlos Castaneda. Le sue ceneri sono state sparse in un luogo segreto nel deserto del Messico. Questo suo ultimo libro è insieme testamento spirituale, metodo di conoscenza e ricerca interiore, di cui Castaneda si è servito per andare incontro con serenità e consapevolezza al proprio destino. Il lato attivo dell'infinito, infatti, è la regione, reale e concreta, a cui accedono gli scimani dopo la morte. Per prepararsi all'ultimo viaggio nell'ignoto, essi ripensano e rivivono i momenti fondamentali della loro vita per comprendere le proprie emozioni e conoscenze e infine la propria energia vitale.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
Print ISBN
9788817258890
eBook ISBN
9788858628355

Dedica

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QUESTO LIBRO è dedicato al professor Clement Meighan e al professor Harold Garfinkel, i due uomini che mi hanno fornito lo stimolo e gli strumenti per eseguire il lavoro antropologico direttamente sul campo. Seguendo i loro suggerimenti, mi sono immerso in una ricerca che non ho più abbandonato. Se non ho rispettato lo spirito del loro insegnamento, è perché non ho potuto fare altrimenti. Una forza più grande, che gli sciamani chiamano infinito, mi ha ingoiato prima che potessi formulare proposizioni chiare e ben definite da scienziato.

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Prefazione

Sintassi

Fissando le sue equazioni
un uomo dichiarò che l’universo aveva avuto un inizio.
C’era stata un’esplosione, disse.
Un’esplosione primordiale e l’universo era nato.
E si sta espandendo, aggiunse.
Calcolò perfino la durata della sua esistenza:
dieci miliardi di rivoluzioni della Terra intorno al sole.
L’intero globo applaudì;
stabilirono che i suoi calcoli erano scienza.
Nessuno pensò che suggerendo l’idea dell’inizio dell’universo
quell’uomo aveva semplicemente rispecchiato la sintassi della sua lingua madre;
una sintassi che esige un inizio, come la nascita, e uno sviluppo, come la maturazione,
e una fine, come la morte, in qualità di fatti.
L’universo è nato
e sta invecchiando, ci assicurò l’uomo,
e morirà, così come muoiono tutte le cose,
come lui stesso morì dopo aver confermato a livello matematico
la sintassi della sua lingua madre.
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L’altra sintassi

L’universo è davvero iniziato?
La teoria dell’esplosione primordiale è esatta?
Queste non sono domande, anche se possono apparire tali.
È la sintassi che ha bisogno di un inizio, uno sviluppo e una fine come affermazioni del fatto che solo la sintassi esiste?
Questa è la vera domanda.
Ci sono altre sintassi.
Ce n’è una, per esempio, che richiede che vari livelli di intensità siano accettati come fatti.
In questa sintassi niente inizia e niente finisce;
di conseguenza, la nascita non è un evento chiaro e ben definito,
ma uno specifico tipo di intensità,
così come lo sono la maturità e la morte.
Esaminando le sue equazioni, un uomo di tale sintassi scopre
di aver calcolato una varietà sufficiente di livelli di intensità
per poter affermare con certezza
che l’universo non è mai iniziato
e non finirà mai,
ma che è passato, sta passando e passerà
attraverso infinite fluttuazioni di intensità.
Quell’uomo potrebbe giungere alla conclusione che l’universo stesso
è il carro dell’intensità
e che ci si può salire a bordo
per viaggiare attraverso cambiamenti senza fine.
Egli trarrà tale conclusione, e molte altre,
senza magari rendersi conto
che sta semplicemente confermando
la sintassi della sua lingua madre.

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Introduzione

Questo libro è una raccolta di eventi memorabili della mia esistenza. Li ho riuniti seguendo le indicazioni di don Juan Matus, uno sciamano indiano Yaqui originario del Messico, un maestro che per tredici anni ha cercato di rendermi accessibile l’universo conoscitivo degli sciamani che vivevano nell’antico Messico. Egli mi suggerì di procedere a tale raccolta come se si fosse trattato di un’idea del tutto casuale, qualcosa che gli era venuto in mente all’improvviso. Il suo stile di insegnamento era proprio questo: don Juan celava l’importanza delle sue manovre dietro un aspetto più terreno, e nascondeva l’importanza del suo obiettivo, presentandola come qualcosa di simile alle faccende della vita quotidiana.
Con il passare del tempo don Juan mi rivelò che gli sciamani dell’antico Messico avevano concepito questa raccolta di fatti memorabili come una sorta di accorgimento bona fide per scuotere le tracce di energia che esistono all’interno del sé. Essi ritenevano che tale energia avesse origine nel corpo e venisse poi spostata, allontanata e spinta fuori dal suo campo d’azione dalle circostanze della vita quotidiana. In questo senso, per don Juan e per gli sciamani del suo lignaggio, la raccolta di eventi memorabili era un mezzo per reimpiegare la loro energia inutilizzata.
Il requisito fondamentale per questa raccolta era il gesto sincero e totale di riunire l’insieme globale delle proprie emozioni e realizzazioni, senza risparmiarsi nulla. Secondo don Juan, gli sciamani del suo lignaggio erano convinti che tale raccolta fosse lo strumento della sistemazione emozionale ed energetica necessaria per avventurarsi nell’ignoto, avendo a disposizione la saggezza della percezione nell’ignoto.
Don Juan definiva l’obiettivo finale della conoscenza sciamanica che egli possedeva come la preparazione necessaria per affrontare il viaggio definitivo, quello cioè che ogni essere umano deve intraprendere al termine della propria esistenza. Mi spiegò che grazie alla loro disciplina e alla risolutezza che li animava, gli sciamani erano in grado di mantenere la loro consapevolezza e il loro scopo anche dopo la morte. Per tutti loro, quello stato vago e idealistico che l’uomo moderno definisce «vita dopo la morte» era una regione reale caratterizzata da affari pratici di tipo diverso da quelli della vita quotidiana ma dotati di una praticità funzionale simile. Don Juan era certo che raccogliere gli eventi memorabili dell’esistenza rappresentasse per gli sciamani la preparazione al loro ingresso in quella regione reale che essi chiamavano il lato attivo dell’infinito.

Un pomeriggio, don Juan e io stavamo parlando sotto la sua ramada, un riparo fatto di bastoni sottili e bambù, simile a un porticato in grado di proteggere almeno in parte dal sole ma del tutto inutile per la pioggia. Alcune casse piccole e resistenti servivano da panchine; i segni dei marchi a fuoco, ormai svaniti, sembravano semplici ornamenti più che segni di identificazione. Io ero seduto su una di quelle, con la schiena appoggiata al lato anteriore della casa; don Juan era su un’altra, appoggiato a uno dei pali che sostenevano la ramada. Essendo arrivato pochi minuti prima in auto, dopo aver guidato per l’intera giornata con il caldo e l’umidità, mi sentivo nervoso, irrequieto e madido di sudore.
Non appena mi sedetti comodamente sulla cassa, don Juan si mise a parlare e, con un ampio sorriso, commentò che di solito le persone sovrappeso non sanno come combattere il grasso. Il sorriso che gli aleggiava sulle labbra mi fece capire che non stava affatto scherzando: in una maniera diretta e al tempo stesso velata mi stava facendo notare che ero sovrappeso.
Ero così nervoso che scivolai dalla mia cassa e andai a sbattere contro il muro sottile della casa, scuotendola fin nelle fondamenta. Don Juan mi rivolse uno sguardo interrogativo e invece di chiedermi se stavo bene, mi tranquillizzò dicendo che non gli avevo rotto la casa dilungandosi a spiegarmi che quella era solo un rifugio temporaneo e che in realtà lui viveva da un’altra parte. Gli chiesi dove abitava e lui si limitò a fissarmi. Pur senza essere ostile, il suo sguardo voleva essere un fermo deterrente nei confronti delle domande improprie. Non capivo cosa volesse da me e stavo per ripetergli il mio quesito, ma lui mi bloccò.
«Da queste parti non si fanno domande del genere» dichiarò in tono deciso. «Puoi chiedere qualunque cosa in merito alle procedure e alle idee. Quando sarò pronto a dirti dove vivo, se mai lo sarò, te lo dirò senza che tu debba chiedermelo.»
Mi sentii respinto e avvampai, offeso. La risata di don Juan ingrandì all’infinito la mia sofferenza: oltre ad avermi rifiutato, mi aveva insultato e deriso.
«Per il momento abito qui perché questo è un centro magico» riprese, incurante del mio disappunto. «In realtà, ci abito per causa tua.»
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Quella dichiarazione mi disarmò; non riuscivo a crederci. Pensai che il mio interlocutore volesse semplicemente placare la mia irritazione.
«Abiti davvero qui a causa mia?» Chiesi alla fine, incapace di trattenere la curiosità.
«Sì» mi rispose in tono pacato. «Devo educarti. Tu sei come me. Ti ripeterò quello che ti ho già detto: la ricerca di ogni nagual in ciascuna generazione di stregoni consiste nel trovare un uomo o una donna che, al pari di lui, mostri una doppia struttura energetica; io ho visto in te questa caratteristica, alla stazione degli autobus di Nogales. Quando vedo la tua energia, vedo due sfere di luminosità sovrapposte una sopra l’altra, e questo aspetto ci lega insieme. Io non posso respingerti così come tu non puoi allontanarmi.»
Le sue parole scatenarono in me una forte e strana agitazione: un attimo prima ero furioso, adesso volevo piangere.
Don Juan continuò, spiegando che aveva intenzione di iniziarmi a quella che gli stregoni chiamano la vita dei guerriero, sostenuto dalla forza della zona in cui viveva, che era il fulcro di potenti emozioni e reazioni. Persone inclini alla guerra vi avevano vissuto per migliaia di anni, impregnando la terra del loro coinvolgimento nei confronti della guerra.
All’epoca viveva nello stato di Sonora, nel Messico del nord, circa centocinquanta chilometri più a sud della città di Guaymas. Andavo sempre a trovarlo nella speranza di proseguire il mio lavoro direttamente sul campo.
«Devo entrare in guerra?» gli chiesi, sinceramente preoccupato, quando mi annunciò che un giorno o l’altro avrei avuto bisogno del coinvolgimento nei confronti della guerra. Avevo già imparato a prendere sul serio qualunque cosa mi dicesse.
«Puoi scommetterci» mi rispose sorridendo. «Non appena avrai assorbito tutto ciò che c’è da assorbire in questa zona, io mi trasferirò.»
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Non avevo alcun motivo per dubitare delle sue parole, ma al tempo stesso non riuscivo a immaginare che potesse andarsene da qualche altra parte. Egli era parte integrante di ogni cosa che lo circondava. La sua abitazione, tuttavia, sembrava un riparo temporaneo: era la tipica baracca degli agricoltori Yaqui, fatta di canniccio ricoperto di argilla e fango, con il tetto piatto rivestito di paglia. Una stanza serviva per mangiare e dormire, l’altra era una cucina priva di tetto.
«È molto difficile avere a che fare con le persone sovrappeso» esclamò a un tratto.
Sembrava una frase del tutto estranea al resto della conversazione, ma in realtà non lo era: don Juan era semplicemente tornato all’argomento di cui stava parlando prima che io lo interrompessi scivolando contro la parete della sua casa.
«Un attimo fa hai colpito la mai dimora come un proiettile da demolizione» osservò, scuotendo lentamente il capo. «Che impatto... degno di un grassone!»
Ebbi la spiacevole impressione che stesse parlando di me come se non si facesse più illusioni e mi affrettai ad assumere un atteggiamento difensivo. Lui ascoltò con una smorfia le mie affannate spiegazioni sul fatto che il mio peso era del tutto normale per la mia struttura ossea.
«E vero» concesse in tono divertito. «Le tue ossa sono molto grandi, potresti andartene in giro con altri quindici chili addosso e nessuno ci farebbe caso. Io non me ne accorgerei.»
Dal suo sorriso beffardo si capiva che mi giudicava decisamente grasso. Mi chiese della mia salute in generale e io continuai a parlare, cercando disperatamente di evitare qualunque ulteriore commento sul mio peso. Fu lui a cambiare discorso.
«Che c’è di nuovo a proposito delle tue eccentricità e aberrazioni?» mi chiese con espressione impenetrabile.
Come un idiota gli risposi che stavano bene. «Eccentricità e aberrazioni» erano il modo in cui etichettava i miei interessi di collezionista. In quel periodo ero tornato a dedicarmi con zelo rinnovato a un’attività che avevo sempre apprezzato: collezionare tutto quello che si poteva collezionare. Raccoglievo quindi giornali, francobolli, dischi e oggetti della Seconda guerra mondiale, per esempio pugnali, elmetti, bandiere...
«L’unica cosa che posso dirti sulle mie aberrazioni è che sto cercando di vendere le mie collezioni» gli risposi con il tono di un martire costretto a compiere chissà quale gesto orrendo.
«Essere un collezionista non è una brutta idea» mi consolò, come se ci credesse davvero. «Il problema non è l’abitudine in sé, quanto gli oggetti stessi che raccogli: tu conservi robaccia da nulla, cose prive di valore che ti tengono prigioniero così come fa il tuo cane. Non puoi mollare tutto e andartene se devi prenderti cura di un animale o preoccuparti della sorte a cui vanno incontro le tue raccolte se tu non sei nei paraggi.»
«Credimi, don Juan, sto seriamente cercando degli acquirenti» cercai di difendermi.
«No, no, non devi pensare che ti sto accusando» ribatté lui. «A dire il vero, io apprezzo il tuo spirito da collezionista, è solo che non mi piacciono le tue collezioni, tutto qui. Mi piacerebbe far lavorare il tuo occhio da collezionista e vorrei proporti una raccolta valida.»
Don Juan fece una lunga pausa. Sembrava che stesse cercando le parole giuste, o forse era solo un’esitazione studiata, fatta proprio al momento giusto. Mi rivolse uno sguardo profondo e penetrante.
«Ogni guerriero ha il dovere di raccogliere un album speciale, un album che rivela la sua personalità e testimonia le circostanze della sua vita.»
«Per quale motivo la chiami collezione o album?» gli domandai incuriosito.
«Perché è entrambe le cose, ma soprattutto perché è un album di immagini messe insieme dai ricordi, ricavate cioè dal ricordo di avvenimenti memorabili.»
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«Questi eventi memorabili lo sono per qualche ragione specifica?» gli domandai.
«Lo sono perché rivestono un significato particolare nell’esistenza di un individuo. Ti propongo di mettere insieme questo album inserendovi il resoconto completo dei vari avvenimenti che hanno avuto per te un profondo significato.»
«Ma tutti gli eventi lo hanno avuto!» dichiarai con foga, rendendomi conto da solo di quanto apparivo tronfio.
«Non proprio» mi corresse sorridendo, immensamente divertito dalle mie reazioni. «Non tutti i fatti della vita hanno avuto per te un significato profondo. Però ce ne sono alcuni che ritengo ti abbiano cambiato, illuminando il tuo sentiero: si tratta in genere di questioni impersonali e al tempo stesso estremamente personali.»
«Don Juan, non vorrei darti l’impressione che sto facendo il difficile, ma ti assicuro che tutto ciò che mi è accaduto risponde a tali requisiti» proseguii, consapevole di mentire.
Subito dopo aver fatto questa dichiarazione avrei voluto scusarmi, ma don Juan non mi prestò la minima attenzione: era come se non avessi aperto bocca.
«Non devi pensare a questo album in modo banale o come se fosse un futile rifacimento delle esperienze della tua vita» mi avvisò.
Inspirai a fondo, chiusi gli occhi e cercai di placare la mente. Stavo confabulando freneticamente con me stesso in merito al mio problema insolubile: ero certo che visitare don Juan non mi piacesse affatto. In sua presenza mi sentivo minacciato, perché era solito aggredirmi verbalmente e non mi permetteva di mostrare in alcun modo il mio valore. Detestavo perdere la faccia ogni volta che aprivo la bocca e non sopportavo di apparire uno stupido.
Dentro di me c’era però un’altra voce, che proveniva da un luogo più profondo e remoto, quasi impercettibile.
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Nel bel mezzo del fuoco di fila del dialogo consapevole sentii me stesso dire che era ormai troppo tardi per fare marcia indietro. In realtà quella che percepivo non era la mia voce e non si trattava nemmeno dei miei pensieri: era una voce sconosciuta che mi avvisava di essermi ormai addentrato troppo a fondo nel mondo di don Juan e mi spiegava che avevo bisogno di lui più che dell’aria.
«Puoi dire quello che vuoi, ma se tu non fossi così centrato nell’ego, non saresti così distrutto» sembrava sussurrarmi.
«Questa è la voce dell’altra tua mente» dichiarò in quel preciso istante don Juan, come se mi avesse letto nel pensiero.
Sussultai e la mia paura era così intensa che mi ritrovai con gli occhi colmi di lacrime. Gli confessai la vera causa della mia confusione.
«Il tuo conflitto è del tutto naturale» mi rassicurò. «Credimi, io non lo esaspero affatto, non sono certo il tipo... Potrei raccontarti molte storie su quello che mi faceva sempre il mio maestro, il nagual Julian. Lo detestavo con tutte le mie forze. Sai, ero molto giovane, e vedevo che le donne lo adoravano, si donavano a lui con estrema facilità; io mi limitavo a salutarle e loro mi aggredivano, feroci come leonesse. Mi odiavano in maniera viscerale, così come adoravano lui. Come credi che mi sentissi?»
«In che modo sei riuscito a risolvere questo conflitto?» gli chiesi, con qualcosa di più di un semplice interesse.
«Non ho mai risolto un bel nulla. Questo conflitto, o in qualunque altro modo lo vuoi chiamare, era il risultato della battaglia fra le mie due menti. Ogni essere umano possiede due menti: una è completamente nostra ed è simile a una voce debole che ci porta sempre ordine, direzione e uno scopo preciso; l’altra è invece una installazione estranea che ci porta conflitti, arroganza dubbi e disperazione».
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La fissazione sulle mie concatenazi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il lato attivo dell'infinito