Una vita da infiltrato
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Una vita da infiltrato

  1. 229 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Una vita da infiltrato

Informazioni su questo libro

"Tony era teso. C'era il rischio di essere scoperti. E c'era il rischio che, messo alle strette, Granos aprisse il fuoco e tentasse la fuga dalla parte opposta dell'edificio. Era un piano organizzato malissimo. L'imperativo a quel punto era sopravvivere." Poliziotti, carabinieri, finanzieri per cui un solo passo falso può significare la morte: gli infiltrati. Professionisti che mettono a repentaglio la propria incolumità fingendosi trafficanti, ladri, manager senza scrupoli. Sturlese Tosi è riuscito ad avvicinarli e per la prima volta possiamo ascoltarne i racconti. L'agente che per incastrare un branco di stupratori ha vissuto nove mesi in un campo rom, o la prima missione di un'infiltrata che si è finta donna d'affari dedita al riciclaggio di denaro sporco; il dilemma di chi tra le maglie del narcotraffico internazionale si commuove per la sorte dei figli di una criminale, o il resoconto di una collaborazione con la Dea che ci porta negli ingranaggi della camorra. Storie di personaggi duri, difficili, abituati a vivere oltre il limite - tra gli eccessi o nella più nera miseria - attraverso le quali scopriamo i segreti del loro mestiere, le strategie e le tecniche, le procedure operative, l'importanza del sangue freddo e dell'abilità di improvvisazione. Ma anche le paure, le problematiche psicologiche di chi si costruisce una vita "sbagliata", lo stress del rischio costante. Un libro inedito e coinvolgente, che ci porta nel mondo di chi lavora tutti i giorni dietro le linee nemiche.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
Print ISBN
9788817042765
eBook ISBN
9788858624746

Il maestro alla prova
Operazione Cenacaro

Era ormai notte fonda. Una nuvola di fumo azzurro invadeva il suo ufficio a Ponte Salario, quartier generale del Ros, il Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri. Era rimasto solo con i suoi pensieri. Tutto era cominciato quattordici mesi prima. E lui, nel frattempo, era cambiato.
Quando si trovò a vestire i panni di don Riccardo, Angelo Jannone era il comandante del Secondo reparto centrale del Ros di Roma, quello che indaga su criminalità organizzata, narcotraffico, riciclaggio e tratta di esseri umani. Aveva il grado di colonnello e stava scalando i vertici di una carriera iniziata anni prima, nel collegio della Nunziatella di Napoli, uno dei più antichi e celebri istituti di formazione militare del mondo.
Da Andria, in Puglia, Jannone aveva superato ancora adolescente le rigidissime selezioni per l’ammissione ai corsi che formano i migliori ufficiali delle nostre forze armate. Un percorso durissimo in cui, oltre agli studi tradizionali e alla pratica di molti sport – come scherma, equitazione, pugilato, nuoto e atletica leggera –, viene profondamente inculcato il senso della disciplina e vengono impartiti gli insegnamenti di teoria e pratica delle armi e dei regolamenti militari.
Il cadetto Angelo Jannone, terminati gli studi alla Nunziatella, entrò all’Accademia militare di Modena come allievo ufficiale, quindi approdò all’Arma dei carabinieri. Date le sue spiccate doti investigative, dopo una parentesi al Nord Italia, fu mandato, giovane capitano, a comandare la compagnia di Corleone, dove indagò sui viddani di Totò Riina e dove lavorò al fianco di Sergio De Caprio, più noto come Ultimo, il capitano dei carabinieri, anche lui diplomato alla Nunziatella, che catturò il capo dei capi.
Era il periodo delle stragi, a cavallo tra gli anni Ottanta e i Novanta. Da Corleone a Palermo, e poi in Calabria, Jannone si trovò molte volte ad avere a che fare con la mafia e la ’ndrangheta, portando a termine operazioni clamorose e facendo arrestare centinaia di criminali. Ma i camorristi no. Non avevano mai incrociato la sua strada. Si imbatté in loro, già quarantenne, proprio quando dirigeva il reparto centrale del Ros.
Erano i tempi in cui l’Alleanza di Secondigliano, capeggiata dal clan Di Lauro, difendeva con il piombo il monopolio degli affari illeciti nella guerra tra famiglie rivali, inaugurando una scia di sangue che di lì a pochi mesi sarebbe sfociata nella faida di Scampia, seminando il terrore in tutta la città partenopea e quasi cento morti ammazzati.
Gli uomini del colonnello Jannone stavano intercettando le comunicazioni di alcuni affiliati alla famiglia Di Lauro quando vennero a sapere che l’organizzazione aveva appena perso un grosso carico di cocaina colombiana che, nascosta in una partita di jeans, stava viaggiando dall’Ecuador all’Italia. Duecentocinquanta chili di polvere bianca purissima che la Guardia di Finanza era riuscita a intercettare e a sequestrare proprio nel porto di Napoli. Il tono delle telefonate degli acquirenti, rimasti a mani vuote, tradiva la rabbia per la droga persa ma anche la preoccupazione dei corrieri per quello che avrebbe comportato il fallimento dell’affare. Ormai i famosi cartelli colombiani non esistevano più: le famiglie di narcotrafficanti che avevano invaso gli Stati Uniti e l’Europa con migliaia di tonnellate di cocaina erano scomparse, dilaniate dalle faide per il controllo del mercato o decimate dalle operazioni militari compiute dalla Drug enforcement administration americana in collaborazione con il governo di Bogotá.
Scomparsi i cartelli di Cali e Medellín e arrestati i trafficanti alla Pablo Escobar, la produzione e il trasporto della cocaina, in Colombia, era in mano alle Farc, le Forze armate rivoluzionarie, e ai gruppi paramilitari di irregolari. Di tutto il resto, dalla vendita alla spedizione, al trasporto internazionale fino alla destinazione, si occupavano i broker, veri uomini d’affari in contatto con le mafie internazionali, capaci di gestire e smistare ordini colossali di stupefacente, stabilendo il prezzo esattamente come in una borsa merci.
Nelle trattative era ed è ancora in uso distinguere se la droga «si compra lì» o «si compra qui», indicando cioè se chi acquista paga all’origine, occupandosi in proprio del trasporto e accollandosi i rischi di un eventuale sequestro, o se invece il pagamento avviene a destinazione. In questo secondo caso, il costo per un chilo di cocaina pura fino al novantotto per cento (i complessi metodi di raffinazione delle foglie della pianta di coca rendono impossibile la purezza assoluta del prodotto finale di sintesi) si aggira, se non intervengono altri intermediari, tra i venti e i ventisettemila euro al chilo. Cifre indicative, che oscillano anche in base alla quantità acquistata, ma certamente molto più alte rispetto a quanto costerebbe lo stesso chilo alla produzione, dai duemila e cinquecento euro ai quattromila.
In questo mercato di morte i calabresi della ’ndrangheta si sono costruiti una credibilità senza pari, occupandosi di entrambe le soluzioni di acquisto e vendita direttamente con i propri emissari in Colombia, Venezuela, Perù, Bolivia e, negli ultimi tempi, Messico. Sono quindi in grado di controllare i due momenti più critici del traffico di droga: l’uscita dal Paese di provenienza e l’arrivo in quello di destinazione. Con le loro influenze tentacolari su porti e aeroporti, non solo italiani, i calabresi hanno aumentato la propria competitività, limitando le perdite.

Nuovi canali

La partita intercettata dalla Finanza invece era destinata alla camorra, che aveva comprato «qui». Il clan Di Lauro, meno inserito nel sistema doganale internazionale e forte invece nel controllo sul porto di Napoli, aveva deciso di pagare un prezzo più alto, per non doversi preoccupare del viaggio. La responsabilità del sequestro dei duecentocinquanta chili appena arrivati in porto e non ancora sbarcati, quindi, non era un loro problema.
Lo era invece per i broker che avrebbero dovuto occuparsi del trasporto e che, molto probabilmente, avevano già intascato un congruo anticipo sul carico. Si trattava, scoprirono gli investigatori del Ros, di trafficanti colombiani, di stanza in Olanda, che si servivano di un intermediario napoletano. Ed erano proprio sulle spine. Vige infatti tra trafficanti di droga un gentlemen agreement che sancisce chi deve risarcire l’acquirente insoddisfatto. Un accordo rispettato più di quanto non avvenga nelle normali contrattazioni commerciali, perché chi non paga non si aspetta un decreto ingiuntivo, ma una pallottola in faccia. Si capisce quindi per quale ragione i broker colombiani, e il loro agente napoletano, stessero disperatamente cercando nuovi canali attraverso cui far arrivare di lì a poco un nuovo carico di droga destinato alla sanguinaria famiglia del boss Paolo Di Lauro, detto Ciruzzo ’o milionario.
Un aiuto, ai trafficanti e agli stessi investigatori, venne da un contrabbandiere di Bari, che era anche, a tempo perso, una fonte confidenziale del Ros pugliese. L’uomo venne contattato, dopo un fitto e complicato passaparola, dall’argentino, residente in Olanda, Carlos Doldan, che con la connazionale Yolanda Rojas aveva organizzato quella prima sfortunata spedizione.
Della partita faceva parte anche il napoletano Vincenzo Romano, trapiantato ad Amsterdam, imparentato con una famiglia colombiana, e incaricato della fase finale di sbarco, scarico e stoccaggio a Napoli. Scopo della banda di broker era sondare la possibilità di far arrivare altra droga al porto di Bari, visto che quello campano non offriva più garanzie.
Il contrabbandiere si confidò con un ufficiale dei carabinieri barese, che girò subito la segnalazione al reparto di Jannone. Ci volle poco per scoprire che i trafficanti che stavano cercando un molo sicuro erano gli stessi che avevano perso il carico. Abituato ad agire senza tentennamenti, il colonnello Jannone convinse i suoi superiori – l’allora colonnello Mario Parente e il generale Giampaolo Ganzer – dell’opportunità di infliggere un duro colpo alle finanze dell’Alleanza di Secondigliano, sequestrando un grosso carico di cocaina e arrestando, al contempo, una banda di narcotrafficanti internazionali.
L’unico modo per approfittare in fretta della situazione, ne convennero tutti, era quello di infiltrare l’organizzazione. Tra i quaranta uomini del secondo reparto del servizio centrale del Ros non esisteva una figura adatta a una missione che aveva tutte le caratteristiche per essere ritenuta ad alto rischio.
Uno zelante capitano si offrì volontario, ma la candidatura fu subito accantonata per la sua scarsa esperienza in quel genere di operazioni e perché giudicato, ricorda oggi Jannone, «un po’ troppo raffinato per sembrare un trafficante».

Don Riccardo

Per quanto inusuale che la scelta potesse cadere su un alto ufficiale responsabile di un intero reparto, per di più così importante, toccò quindi proprio a Jannone rendersi disponibile. Lui, del resto, insegnava tecniche di infiltrazione ai corsi per agenti sotto copertura organizzati dalla Dcsa, la Direzione centrale per i servizi antidroga, e aveva la formazione di base necessaria per inserirsi in un contesto criminale di quello spessore.
Jannone accettò con decisione l’incarico. Da teorico si sarebbe trasformato in agente operativo. Il maestro alla prova. In fondo la cosa non gli dispiaceva.
Aveva raggiunto il comando di un reparto del Ros non senza difficoltà. Per anni gli avevano proposto di trasferirsi a Roma, ma qualche emergenza criminale e i complessi meccanismi di avvicendamento in un incarico così prestigioso l’avevano sempre allontanato dalla bella sede di via di Ponte Salario. Lo Stato maggiore dei carabinieri lo aveva di volta in volta destinato a comandare compagnie sparse sul territorio, rimandando di esaudire quella sua aspirazione. Ora che ci era finalmente arrivato, però, gli mancava un po’ l’azione, il contatto con il territorio e con la puzza che hanno i delinquenti quando li interroghi per ore in una caserma. Sulla sua scrivania arrivavano i rapporti da tutta Italia. Il suo compito, insieme ai suoi uomini, era quello di compilare analisi e intervenire, spesso solo come supporto logistico, in appoggio alle indagini dei comandi territoriali.
Jannone aveva solo un vizio, il fumo, che tentava di tenere a bada – unico tra gli ufficiali dell’Arma con cui aveva a che fare – aspirando pipe, e che irresistibilmente lo portava a scroccare le sigarette a qualsiasi sottoposto gli capitasse a tiro. Le sue ore libere non erano certo entusiasmanti: separato, aveva una nuova compagna che viveva al Nord, e che raggiungeva soltanto nei fine settimana.
Il cambiamento d’aria e un po’ di attività non gli avrebbero certo fatto male.
Jannone era abituato ad affrontare la vita di petto. «Le mie origini mi hanno aiutato molto nel mio lavoro, anche in quello di infiltrato. Sono nato in una famiglia modesta. In un paese come Andria non c’è casa in cui non vi sia un contrabbandiere o peggio. Da ragazzino, a scuola, prendevo 10, ma d’estate lavoravo ai mercati, per guadagnarmi qualcosa. Era normale. E ai mercati fai a botte. Impari a difenderti. Una volta mi picchiai con un altro ragazzino, inseguendolo perché aveva rubato. Mi spaccò la testa e riuscì a fuggire. Tempo dopo io ero tenente dei carabinieri e lui rappresentante della Sacra corona unita ad Andria e qualche anno più tardi io ero capitano e lui sotto tre metri di terra. L’avevano ucciso.
«Quell’infanzia mi ha fatto respirare aria di criminalità. Ne ho appreso le movenze, il linguaggio, la cultura. Tutto questo mi ha aiutato ad acquisire carisma come comandante e mi ha facilitato nei rapporti con i criminali e i mafiosi che avrei affrontato anni dopo. Ho imparato a rispettarli e a farmi rispettare, aldilà dei rispettivi ruoli e posizioni. Ecco perché non mi fu difficile trasformarmi in don Riccardo, boss del contrabbando. Ma vivevo in un perenne stato di sdoppiamento di personalità. Gretto nei modi e diretto nel linguaggio come si conviene a un capo criminale. Diplomatico poliglotta, poche ore dopo, in una riunione di coordinamento internazionale, a fianco del procuratore nazionale antimafia e di investigatori di Paesi stranieri.»

Il primo incontro

La Direzione distrettuale antimafia della Procura di Napoli, che coordinava l’inchiesta sui napoletani, autorizzò l’indagine e l’infiltrazione. Era il 24 aprile del 2002.
L’indomani, che era un giorno festivo, Jannone e un suo capitano che lo accompagnava erano già in viaggio per Bari, dove si sarebbero incontrati con la fonte confidenziale e con i trafficanti, già arrivati in città per organizzare il viaggio di un nuovo carico. Jannone e il capitano, che avrebbe recitato la parte del nipote, prepararono la messinscena in automobile, in poco tempo, delineando soltanto i tratti principali di un soggetto da recitare a braccio. Angelo Jannone era Riccardo Quagliarello, contrabbandiere di sigarette barese. Il suo autista era il nipote Fabio, che aveva studiato al Nord e che lo accompagnava negli spostamenti in quanto, essendo don Riccardo un sorvegliato speciale, gli avevano ritirato la patente.
I due gruppi e la fonte confidenziale si incontrarono a Bisceglie, a quaranta chilometri da Bari: Jannone aveva una gran paura di essere riconosciuto da qualcuno, dato che Andria, il suo paese di origine, era a meno di trenta chilometri.
Altezza media, folti e lisci capelli castani corti, una faccia da indio resa ancora più esotica dalla carnagione scura, Jannone aveva le carte per interpretare il personaggio del criminale cafone pugliese. Decise di cambiare persino la voce, di esprimersi nel dialetto che conosceva bene ma che non aveva più parlato da quando era cadetto. Uscì dall’auto, si aggiustò il cavallo dei pantaloni e a gambe larghe avanzò verso il gruppo di persone che attendeva in piedi davanti al bar precedentemente concordato per l’appuntamento con l’intermediario.
Con disappunto Jannone vide che quelli che con tutta probabilità erano i suoi interlocutori avevano già occupato uno dei tavolini all’esterno, facendo così aumentare le possibilità che qualcuno lo notasse e lo riconoscesse. Ma gli bastò un’occhiata per capire che, almeno per quanto riguardava gli altri avventori, poteva stare tranquillo. Nel locale, che nell’arredamento si atteggiava a ritrovo alla moda, c’erano solo negri. Strano, pensò il colonnello Jannone, che conosceva bene la piaga del caporalato: a quell’ora avrebbero dovuto essere nei campi a spezzarsi la schiena o sui pescherecci a tagliarsi le mani con le reti e a vomitare l’anima per il mal di mare. Invece stavano seduti, davanti a una Coca-Cola, parlottando del più e del meno, come fossero pensionati del posto. L’Italia stava cambiando. E anche la sua terra.
Lì, dove ogni anno migliaia di immigrati, spesso clandestini, vengono impiegati nella pesca e, nell’entroterra, nella raccolta dei pomodori, le spietate leggi del mercato e del lavoro nero avevano saputo abbattere le barriere del razzismo. Con il passare degli anni i primi clandestini, sfruttati anche dodici ore al giorno con una paga di un euro e mezzo per ogni cassa di pomodori da mezzo quintale l’una, avevano fatto strada, conquistandosi la fiducia dei caporali pugliesi che ora avevano sostituito nella gestione della manovalanza. I negrieri, a Bisceglie, erano negri che comandavano con crudeltà ancora maggiore i propri connazionali e gli immigrati della Polonia. Di immutato c’erano solo le condizioni e il salario per quei braccianti che avrebbero risalito la penisola seguendo il calendario delle coltivazioni, arrivando fino al Trentino e alle mele, dopo aver raccolto meloni, broccoli e grappoli d’uva.
No, non c’era proprio pericolo che qualcuno lo riconoscesse tra quei liberti, ora schiavisti, che parlavano tra loro in barese. Ai suoi tempi, gli unici stranieri da quelle parti erano i pescatori tunisini, e gli uomini di colore si vedevano soltanto nelle pellicole americane.
Jannone andò incontro al gruppo ma non sapeva chi salutare per primo, non avendo mai visto in faccia la fonte confidenziale che aveva deciso di collaborare alle indagini. Fu proprio questi, con inatteso spirito di iniziativa e capacità di adattamento, a farsi avanti, pronunciando un caloroso: «Ben arrivato don Riccardo, come state? Da quanto tempo…» abbracciandolo e baciandolo su entrambe le guance. Don Riccardo stette al gioco, si complimentò per lo stato in cui trovava il compare e, indicando il capitano che aveva finora atteso in disparte, come si conviene all’autista di un criminale di rango, disse alla fonte: «Hai visto chi ti ho portato? Come, non te lo ricordi? Mio nipote Fabio!», e l’altro: «Mee, com’ s’è fatto grande! Mo’ è un uomo», e di nuovo sorrisi e pacche sulle spalle.
Seguirono le presentazioni con i corrieri. Poi il gruppo si accomodò all’aperto, proprio in faccia alla strada. Jannone tentò di rendersi un po’ meno riconoscibile inforcando gli occhiali da sole. Doveva rimanere lì il meno possibile. Davanti a lui c’erano la fonte, l’organizzatore della spedizione Carlos Doldan e il napoletano Vincenzo Romano. Il nipote-capitano era rimasto vicino alla macchina, una Volvo station wagon nera.
Fu Carlos Doldan a rompere il ghiaccio, venendo subito al dunque. Manifestando tutta la sua fretta nel voler concludere l’affare, esordì: «Be’, ce l’avete il porto? Perché noi abbiamo urgenza». Jannone saltò quasi sulla sedia, ma cercò di contenere la sorpresa: «Di che cosa stiamo parlando? L’amico qui mi ha detto solo che dei suoi amici mi volevano conoscere, ma non mi ha spiegato niente». E quello: «Dobbiamo far arrivare un carico e abbiamo qualche difficoltà. Ci serve subito un porto sicuro e a voi andrebbe il venti per cento». «Ma di che si tratta?» «Cocaina, don Riccardo, sono cinquecento chili e il venti per cento va a voi.»
La prima regola che il colonnello Jannone insegnava ai suoi allievi al corso per infiltrati è quella di non mostrare mai interesse. È infatti questo l’errore più frequente di chi cerca di incastrare un criminale e ha fretta di procurarsi le prove. Al punto 8 del decalogo che faceva mandare a mente agli aspiranti agenti sotto copertura c’era l’indicazione di non avere fretta, di non tradire il desiderio di acquistare subito la droga, o di trattarla, per ottenere le prove. Trasformare la psicologia di un investigatore in quella di un criminale non è cosa semplice. Uno sbirro è pagato per essere curioso. Un criminale non deve esserlo mai, lo impara fin da bambino. La regola è mai fare domande. E quindi ostentò disinteresse: «E io che ci faccio con ’sta roba? Io tratto sigarette, posso rischiare di giocarmi il porto per la tua cocaina?».
La scelta di interpretare un contrabbandiere di sigarette non era stata casuale. L’incompetenza nel settore del narcotraffico e il rifiuto iniziale di essere ricompensato in cocaina per i servizi logistici che avrebbe fornito sarebbero apparsi del tutto coerenti e utili allo scopo di tranquillizzare l’altra parte e di evitare insidiose domande trabocchetto su un argomento che i colombiani conoscevano meglio di lui. «Guardate, don Riccardo, se credete possiamo anche aumentare la vostra percentuale.» «È una questione complicata, io non posso decidere da solo. Devo sentire altre persone e ti farò sapere.» Jannone sperava così di ottenere qualche giorno per permettere ai suoi di organizzare un piano. Questa strategia era riassunta nel punto 4 del suo decalogo: «Studiare e risolvere, prima di agire come undercover, i problemi logistici», prevedendo l’attribuzione di una nuova identità, predisponendone i documenti e i riferimenti necessari.
Ma tutto era avvenuto in modo troppo precipitoso per potersene occupare prima. Senza scendere nei particolari, per guadagnare tempo, alluse al fatto che i traffici illeciti del porto di Bari erano gestiti da un’associazione di contrabbandieri e che una decisione del genere poteva essere presa solo dopo aver ottenuto il consenso di tutti.
Poi, per togliersi da quella strada di passaggio, invitò, anzi quasi impose, di trasferirsi in un ristorante sul mare che era a poche centinaia di metri e che aveva notato passando con la macchina, contravvenendo – ma solo per questa volta – alla regola che prevede di intrattenersi con i malviventi in luoghi dove si sia già effettuato un sopralluogo e organizzato un sistema di riprese e registrazione delle conversazioni.
A tavola, comunque, non si parlò di affari. La discussione si era chiusa al tavolino del bar. Mangiando pesce crudo e bevendo vino bianco trattarono i temi più disparati, dal mercato immobiliare sudamericano alle prospettive di investimenti redditizi in alcuni settori finanziari. Jannone infatti voleva accreditare il capitano-nipote come un esperto di finanza in grado di investire i proventi della droga. Non si poteva mai sapere, magari quei corrieri lo avrebbero coinvolto anche in altri traffici. I discorsi del capitano colpirono l’argentino, che apprezzò la sua ampia competenza sugli argomenti di carattere commerciale: «Bravo! Muy esperto… come ti chiami?». Il capitano fu colto alla sprovvista. L...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. BUR
  3. Frontespizio
  4. Dedica
  5. Prefazione
  6. Il maestro alla prova
  7. L’orologio nel cassetto
  8. Un bullo a Venezia
  9. L’inferno di Satana
  10. Una favola sudamericana
  11. Una montagna di soldi
  12. Come si diventa un infiltrato
  13. Ringraziamenti