
- 400 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Informazioni su questo libro
L'isola del Tonal è il racconto dell'incontro di un uomo della nostra civiltà della scienza, della tecnica e della ragione con il mistero e il fascino della magia degli stregoni Indios. Con umiltà, Castaneda - studioso di etnologia - ha incominciato, e portato a termine, il suo apprendistato, fatto più con il corpo che con la mente. E in questo libro ci racconta quello che ha visto, imparato e anche quello che, forse, sarebbe stato meglio non dire...
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Informazioni
INTRODUZIONE
"Why do you laugh?" I asked.
L’aspetto più sconcertante di questo protocollo di apprenti sorcier redatto da Carlos Castaneda è la oggettiva qualità asociale delle dottrine e delle pratiche esoteriche che l’etnologo ha cercato di imparare, andando "a scuola dallo stregone". L’istruttore principale di Castaneda, l’indio Don Juan, e i suoi amici o compagni, appaiono in queste pagine come personaggi isolati da qualsiasi collettività. Essi stessi, inoltre, non formano neppure una vera e propria società segreta di "stregoni" (sorcerers) o di "sapienti" o "uomini del sapere" (men of knowledge), che possiederebbe pur sempre caratteristiche di socialità, ancorché molto sui generis: i loro rapporti restano, si direbbe, al livello di una colleganza, più che di una collegialità, gnostica: sono dei "guerrieri" (warriors) poiché si sono imposti una determinata autodisciplina, e, in quanto guerrieri "senza macchia" (impeccable), hanno accresciuto il loro "potere" (power) personale fino a conquistare il "sapere" (knowledge) o ad esserne gratificati. Si riconoscono reciprocamente colleghi, affini, ma non altro: non fanno quasi nulla in comune, il loro agire resta soprattutto solitario e non si accompagna né si riferisce all’esistenza di alcuna collettività.
Ne risulta una situazione molto singolare, specialmente singolare quando si inserisce in essa la figura dell’ etnologo. Nella grande maggioranza dei casi, e fin dai primordi dell’etnologia o dell’etnografia moderne, lo studioso si è accostato alle credenze e alle esperienze esoteriche dei cosiddetti "primitivi" con l’intenzione più o meno esplicita (particolarmente esplicita in tempi recenti) di conoscere gli aspetti più segreti di forme di vita collettiva diverse da quelle europee, e spesso con il proposito o la speranza di contribuire così ad una sorta di rigenerazione della socialità del proprio gruppo, alla scoperta o riscoperta di potenzialità umane latenti, la cui conoscenza contribuisse a liberare o arricchire la coscienza di animale sociale propria e dei membri della propria collettività. Qui, invece, quanto più Castaneda si inoltra nel suo apprendistato, si ha l’impressione che egli ritrovi come in uno specchio, nelle dottrine e nelle pratiche dei suoi stregoni, la caratteristica asocialità degli esoteristi europei, il loro individualismo esclusivo, la loro povertà di sensi di solidarietà umana di gruppo, la loro apologia del potere personale. Questa impressione è poi confermata da particolari non trascurabili, da coincidenze di dottrina apparentemente sconcertanti. Ci si trova di fronte, insomma, a uno stregone indio che parla come un discepolo di Heidegger: «Il sapere è una farfalla notturna...», «Le farfalle notturne sono i messaggeri o, meglio ancora, i custodi dell’eternità ...»; come un imitatore di Kierkegaard, che si compiace di dichiararsi un ingannatore del proprio apprendista e dice: «Io non sono un maestro...»; come un seguace di Dilthey, che ricorre di continuo all’espressione "descrizione del mondo" (description of the world) – o anche "modo di conoscere il mondo" (knowledge of the world) –, di là dalla quale si avverte immediatamente l’eco di Weltanschauung.
Cosa può significare tutto questo? Subito, viene spontaneo pensare che Castaneda sia andato in cerca soltanto di quello che aveva già trovato, che abbia imparato soltanto quello che sapeva già, che, in altre parole, sia stato talmente condizionato dalla sua realtà storica di uomo "civile" del XX secolo da perdere anni di apprendistato presso lo stregone soltanto per riflettere nella sua nuova esperienza la sua condizione di partenza, e riconfermare – in buona o in mala fede – la propria asocialità tendenziale, il proprio tendenziale gusto del potere personale, mediante quello che di fatto ne era soltanto il riflesso.
Non si può non tener conto di questa possibilità, che oltretutto concorderebbe con quanto più volte è risultato dalle riflessioni metodologiche sul limitato margine di conoscibilità delle culture "primitive" da parte dell’osservatore etnologo (quand’anche quest’ultimo apparentemente sia riuscito a inserirsi abbastanza bene entro il gruppo osservato). Questa possibilità va però confrontata con un dato oggettivo che rende, appunto, particolarmente sconcertante la vicenda di Castaneda. Infatti, a meno di voler negare a priori qualsiasi oggettività al protocollo di Castaneda (vi sono anche ragioni per farlo), la presunta predisposizione dell’etnologo ad essere, più o meno inconsciamente, uomo "civile" del XX secolo fino al fondo delle sue esperienze di apprenti sorcier e a modellarle tutte (a deformarle) in base ai propri parametri, avrebbe trovato in questo caso una controparte "primitiva" eccezionalmente propizia, comoda, tale addirittura da poter essere spesso accettata secondo quei parametri senza sostanziali deformazioni.
È veramente così? Castaneda ha veramente trovato uno stregone indio che, per sue particolari e personali ragioni, era l’istruttore ideale di un etnologo? (ideale, nella misura in cui, trovandosi egli stesso, lo stregone, in condizioni analoghe a quelle degli esoteristi occidentali, poteva trasmettere le sue conoscenze all’etnologo, o almeno istradare l’etnologo verso il suo esoterismo, con un minimo di barriere tra "primitivo" e "civile"). È probabile che si debba rispondere al tempo stesso sì e no. È probabile cioè che, da un lato, lo stregone o gli stregoni presso i quali Castaneda svolse il suo apprendistato si trovassero oggettivamente in una situazione di asocialità relativamente favorevole alla recezione da parte dell’etnologo, e, dall’altro, che nel rapporto fra Castaneda e i suoi istruttori sia intervenuto un inganno, un trick.
L’asocialità dello stregone: il principale istruttore di Castaneda, Don Juan, è un indio Yaqui del Messico; c’è una sua frase molto esplicita: dopo aver spiegato a Castaneda il valore della "umiltà del guerriero" («L’uomo comune cerca certezza negli occhi di chi ha di fronte, e chiama questo fiducia in sé. Il guerriero cerca d’essere senza macchia ai propri occhi, e chiama questo umiltà»), Don Juan dice: «Ciascuno di noi ha bisogno di tempo per capire questo concetto e riuscire a viverlo pienamente. Io, per esempio, odiavo anche solo sentir pronunciare la parola "umiltà". Sono un indio, e noi indios siamo sempre stati umili, non abbiamo mai fatto altro che abbassare la testa. Pensavo che l’umiltà non fosse adatta al guerriero. Mi sbagliavo!...». L’asocialità dello stregone è palesemente maturata nel contesto storico di quel «noi indios siamo sempre stati umili, non abbiamo mai fatto altro che abbassare la testa». L’etnologia moderna ha posto in evidenza più di un esempio di asocialità sviluppatasi progressivamente presso i "primitivi" sotto l’urto del potere colonialistico, dissolvente efficacissimo di società e di culture, anche là dove non ha portato’ alla completa eliminazione fisica. L’indio Don Juan sembra essere riuscito a recuperare una forma di "potere", che è congiunta al "sapere", al "sognare", al "vedere", e sembra esservi riuscito in virtù di un processo che assomiglia molto a quello per cui l’intellettuale "civile" moderno – Walter Benjamin insegna – ha valorizzato, scoperto, o riscoperto, un’aura, una "veggenza", un "sapere" esoterico, una "illuminazione", tali da offrire alla sua interiorità uno spazio di sopravvivenza, un "potere" auratico, al riparo del potere politico privo di aura, ma anche in intimo conflitto con esso. Nella prefazione all’edizione italiana del Briccone divino (studi sulla figura mitologica del "briccone" presso gli indiani Winnebago), K. Kerényi, dopo aver affermato: «L’ampliamento della coscienza è uno stato al quale si può tendere anche senza l’aiuto di libri o di dottrine, ricorrendo cioè a mezzi unicamente fisici. È ciò che facevano i giovani indiani, quando volevano avere delle visioni, mediante il digiuno», aggiunge: «In un periodo successivo, quando la capacità naturale di "vedere volti" [cioè di avere visioni] venne meno, parallelamente alla limitazione della libertà degli indiani, ossia dopo le guerre del 1870, essi cominciarono a ricorrere anche a un agente chimico usato come eccitante: la mescalina, contenuta nel cactus peyote». Le parole di Kerényi, apertamente e intenzionalmente polemiche nei confronti di coloro che ravvisavano e ravvisano negli agenti chimici l’unica e costante origine delle "visioni" presso quei "primitivi" (vi è stato, del resto, chi ha cercato di scoprire con molta serietà quali sostanze – foglie masticate, vapori, ecc. – provocassero le "visioni" della Pizia nel santuario di Delfi), trovano conferma in quelle dello stregone di Castaneda. Le piante psicotrope, dice Don Juan, non sono affatto indispensabili: possono servire, tutt’al più, come facilitazione per un apprendista non particolarmente "sensitivo". Ma nelle parole di Kerényi vi è qualcosa di più importante ancora per il nostro discorso: Kerényi dice infatti che «la capacità naturale di "vedere volti" venne meno, parallelamente alla limitazione della libertà degli indiani». La «limitazione della libertà», l’intervento del potere dissolvente colonialistico sono posti direttamente in rapporto con il venir meno della «capacità naturale di "vedere volti"», cioè di avere visioni, degli indiani. Il Don Juan di Castaneda, l’indio avvezzo a non far mai altro che «abbassare la testa», ha recuperato il "vedere", passando oltre lo stadio del ricorso alle piante psicotrope: ha recuperato il "vedere", creandosi un puro mito del "potere" personale, esclusivamente individualistico, asociale, affine ai miti del "potere" auratico coltivati dagli intellettuali "civili" del XX secolo. I quali, talvolta, non rifiutano a priori essi stessi, come Don Juan, l’uso di stupefacenti, ma lo dichiarano non unica, non indispensabile via a quel "potere": «Il lettore, il pensatore, colui che attende [der Wartende], il flâneur, sono tipi di illuminati non meno del mangiatore d’oppio, del sognatore, dell’ebbro. E sono più profani». Così, Walter Benjamin.
Ma qui il nostro discorso è già arrivato ad affrontare il secondo aspetto, presunto, del rapporto fra Castaneda e lo stregone: l’inganno, il trick. In che senso, infatti, sospettiamo che un inganno sia intervenuto in quei rapporti? Non certo in un senso tale da negare a priori ogni valore alla coincidenza di Castaneda con il mondo dello stregone. Al contrario. Solo grazie a un inganno, Castaneda poteva attuare una coincidenza con quel mondo (non importa se entro una mistificazione, oppure di fatto). Ma così facendo, essendo gratificato di un inganno, partecipe di un trick, coinvolto in un trick, Castaneda non solo accede in certa misura al mondo dello stregone, bensì anche resta in tutto e per tutto l’intellettuale "civile" del XX secolo: il suo accedere e il suo restare sono tutt’uno. Per l’intellettuạle "civile" del XX secolo, capace di cogliere nel suo nesso di falsificazione e "illuminazione" l’opera di un Rimbaud o di un Rilke, è possibile essere "ingannato" dallo stregone che gli fa sperimentare solo quanto è appropriato a lui, all’uomo "civile", e al tempo stesso "illuminato" dal trick, dall’" inganno", dall’"imbroglio", al livello di epifania mitologica. Il suo santo protettore è il Trickster, per usare una parola, divenuta corrente nel linguaggio tecnico dell’etnologia, che designa un "imbroglione", sì, ma un "imbroglione divino", un mitologico "dio" e "gabbamondo" che mentre imbroglia fa ridere. Il lettore noterà molto presto nelle pagine di Castaneda il ripetersi insistente di questa risata: Don Juan accoglie ridendo la maggior parte delle parole e degli atti del suo apprendista, anche quando la situazione sembra tesa e drammatica o addirittura solenne. Qualche volta egli giustifica la sua risata con l’intenzione di calmare, di rendere meno teso l’apprendista che è continuamente esposto a esperienze terrificanti. Ma questa spiegazione non vale per tutti i casi e certo non è esauriente. La risata dell’istruttore e l’"inganno" che egli deliberatamente infligge all’apprendista, proprio perché questi non sfugga all’"appuntamento con il sapere", hanno con ogni probabilità un preciso valore esoterico-mitologico. Risata e inganno, inganno che "fa ridere", sono due caratteristiche congiunte dell’epifania mitologica che Castaneda subisce presso lo stregone. Non a caso esse si manifestano non nella primissima fase dell’apprendistato (quando Castaneda inizia ad "andare a scuola" dallo stregone, come narra in un precedente libro), ma soprattutto a partire dall’istante in cui l’istruttore riconosce l’apprendista ormai pronto all’"appuntamento con il sapere".
È vero che l’"inganno che fa ridere" è generalmente noto agli etnologi e agli storici delle religioni come una prerogativa del Trickster, della figura divina dell’imbroglione, e non dello stregone o comunque dell’istruttore. Ma è anche vero che nelle esperienze esoteriche affrontate da Castaneda, e negli stessi discorsi del suo istruttore, non si impongono mai figure mitologico-divine organiche, dotate della pienezza, diremmo quasi della tridimensionalità, dei grandi protagonisti delle narrazioni mitologiche. Nel mondo degli stregoni cui Castaneda cerca di avere accesso, la mitologia sembra essersi impoverita o comunque rarefatta fino a comporsi in frammenti spettrali, oggetti di esperienze visionarie in cui ciò che conta è innanzitutto il "vedere", non l’oggetto della visione. Perfino le farfalle notturne, che acquistano una netta evidenza mitologica (e qui è probabilmente opportuno ricordare il loro valore in numerose tradizioni mitologiche delle popolazioni americane), sono però sottoposte a un processo di analisi concettuale e, in ultima istanza, di svalorizzazione: esse non sono il "sapere", ma soltanto gli animali che recano il "sapere" – come polvere d’oro scuro sulle loro ali –, i "messaggeri" o i "custodi" dell’eternità, non l’eternità stessa. Sembra essersi compiuta, cioè, una separazione (antimitologica!) fra immagine mitologica e funzione o contenuto di essa: separazione che è tipica, fra l’altro, di certe indagini della scienza della mitologia maturata in Occidente, e che è legata al prevalere di una volontà di spiegare anziché di accettare la mitologia. Con questo non vogliamo dire che Don Juan, lo stregone indio, assuma di fronte alla mitologia lo stesso atteggiamento dei seguaci di Wilamowitz e del "metodo storico". Egli parla, sì, di una "spiegazione degli stregoni", ma aggiunge subito che «La spiegazione non è ciò che voi [Castaneda] chiamereste una spiegazione; ciò nonostante essa rende il mondo e i suoi misteri, se non chiari, meno terribili». Ma proprio queste ultime parole, che attribuiscono alla "spiegazione degli stregoni", al frutto immediato del loro "sapere", la funzione utilitaria di rendere «il mondo e i suoi misteri [...] meno terribili», rivelano la bassa gradazione mitologica dell’esoterismo di Don Juan e armonizzano con l’assenza in esso di figure mitologiche plastiche e dominanti, afunzionali, le quali siano l’eternità, non i suoi messaggeri o custodi.
Si ha l’impressione, insomma, che le circostanze storiche...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- L'isola del Tonal