
- 266 pagine
- Italian
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La strada dei fiori di Miral
Informazioni su questo libro
In un intenso racconto, che è documento storico e allo stesso tempo una storia di formazione, l'autrice affida alla protagonista Miral pensieri, ricordi, azioni di un'intera generazione palestinese, divisa tra lotta e aspirazione alla pace. Storie di donne in fuga da una terra dilaniata dai contrasti, da un destino di violenze familiari, da un futuro presago di terrore. Sullo sfondo, Gerusalemme 'con le sue pietre bianchissime imbrattate di sangue', e la scuola di Hind Husseini, fondata nel 1948 per dare istruzione alle bambine vittime dell'occupazione. Una biografia collettiva, coraggiosa e poetica come un fiore del deserto.
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Informazioni
Print ISBN
9788817008501eBook ISBN
9788858628553PRIMA PARTE
dp n="8" folio="8" ? dp n="9" folio="9" ?Hind
All’alba del 14 novembre 1994 i quartieri arabi di Gerusalemme furono scossi da un fremito. La notizia della morte di Hind Husseini si diffuse di casa in casa ancor prima che Radio Gerusalemme la trasmettesse. Quella mattina, il crepitio che di solito annunciava i preparativi dei suq nelle viuzze e nei vicoli della Città Vecchia si spostò lungo via Salah Al Din in attesa del corteo funebre. Molti commercianti avevano tenuto le saracinesche abbassate e se ne stavano a braccia conserte davanti ai propri negozi. Le animate contrattazioni per l’acquisto dei prodotti furono interrotte non appena si seppe che la bara stava uscendo dal collegio Dar Al Tifel.
Quel luogo, adagiato ai piedi del Monte degli Ulivi, di fronte alla Città Vecchia, era stato tutta la sua vita. Sin dal 1948, l’anno della sua fondazione, per la popolazione cittadina era diventato un simbolo, una delle speranze per il presente e per il futuro della Palestina.
Alle finestre delle case dei quartieri arabi pendevano bandiere palestinesi, e chi non era sceso in strada gettava manciate di sale, riso o fiori dai balconi, applaudendo per onorare una donna che aveva vissuto con coraggio e umiltà . Persino gli uomini avevano le lacrime agli occhi, mentre un senso di profondo sgomento pervadeva la città . La sensazione di tutti, quel giorno, era che Gerusalemme avesse perso uno dei suoi simboli, come se improvvisamente una delle sue porte si fosse chiusa per sempre.
Hind Husseini era nata nella Città Santa nel 1916 e aveva trascorso i primi due anni della sua vita a Istanbul. Figlia di un giudice dell’impero ottomano, era rimasta orfana pochi mesi prima della sua dissoluzione, all’indomani della sconfitta nella prima guerra mondiale.
Dopo la morte del padre, Hind, insieme alla madre e ai cinque fratelli, aveva fatto ritorno a Gerusalemme, proprio nel momento in cui la Palestina era passata dall’amministrazione turca a un mandato britannico che sarebbe durato fino al 1948, quando nacque lo Stato d’Israele.
La casa in cui si erano stabiliti, di proprietà della famiglia Husseini da secoli, si trovava nel quartiere armeno ed era la stessa in cui il padre e la madre di Hind avevano abitato dopo essersi sposati. Era spaziosa e contava cinque camere da letto e un salone arredato con tappeti colorati e cuscini che la madre aveva fatto ricamare in un villaggio vicino, rinomato per l’abilità delle sue donne in quell’arte. Al centro del salone spiccava un narghilè appoggiato su un tipico tavolo arabo, un largo vassoio ovale d’argento sorretto da una struttura in legno scuro.
La madre di Hind si occupava dei terreni coltivati nella zona di Sheik Jarah e degli allevamenti di bestiame ereditati dal marito e dalla sua famiglia. Ogni mattina, di buon’ora, si recava sul posto a controllare il lavoro dei contadini, portando con sé il figlio più grande, Kemal, che desiderava inserire nell’attività per potergli affidare, un giorno, la guida degli affari di famiglia. Nel primo pomeriggio tornavano a Gerusalemme e si fermavano nella residenza principale della famiglia, di proprietà del nonno di Hind, poco fuori le mura della città . Lì, Hind giocava insieme ai fratelli e ai cugini. All’imbrunire facevano tutti ritorno a casa, non senza che i parenti chiedessero il perché di quella transumanza quotidiana. «Mio marito» rispondeva la madre senza esitazioni «sapeva che se gli fosse successo qualcosa saremmo tornati a casa nostra. Quando il suo spirito verrà a cercarci la notte, saprà sempre dove trovarci.»
Avrebbe amato quell’uomo per tutta la vita. Si era sposata all’età di quattordici anni, in seguito a un accordo matrimoniale combinato dalle rispettive famiglie. Lei era nobile, mentre il futuro marito apparteneva a una famiglia i cui membri ricoprivano le più importanti cariche civili e religiose della città , da governatore a sindaco a muftì, e la cerimonia nuziale fu un autentico evento. La sposa arrivò a cavallo di un purosangue arabo bianco, seguita da tutta la famiglia. Portò in dote tre appezzamenti di terreno e due case, mentre il marito, secondo un’antica usanza araba, le donò una cassa di rame foderata di velluto rosso, stracolma di gioielli d’oro realizzati per l’occasione: bracciali, collane, orecchini e anelli. Ma la madre di Hind, che riteneva volgare esibire la ricchezza, li indossò raramente. I festeggiamenti si tennero nella casa del padre dello sposo, dove le donne avevano cotto alla griglia la carne di montone, cucinato riso e verdure e preparato lo yogurt come condimento per il riso e svariati vassoi di frutta mista. Verso sera iniziarono le danze, che terminarono solo a notte fonda. Gli sposi furono accompagnati dai rispettivi genitori nella nuova casa nel quartiere armeno. I parenti aspettarono sino a quando le prime luci dell’alba accesero le colline di Gerusalemme di un rosa pallido. Solo a quel punto lo sposo riapparve, mostrando la prova che la prima notte di nozze era stata consumata.
Nella Gerusalemme in cui Hind mosse i primi passi regnava ancora una certa tranquillità . Da bambina, benché musulmana, aveva passato tutte le vigilie di Natale all’Hotel American Colony, che aveva sede nel palazzo di un pascià turco. Qui Berta Spafford, una ricca ed eccentrica signora americana, organizzava ogni anno una festa per i bambini del quartiere, con tanto di cena a base di tacchino ripieno di pane secco e uvetta, patate al forno, dolci e regali. In un angolo della sala principale campeggiava un grande albero di Natale, regalo della madre di Hind, che con l’aiuto dei figli lo sradicava direttamente dalla sua proprietà . Terminate le festività , i bambini accompagnavano Berta in giardino per assistere al trapianto dell’albero, «perché» diceva loro Berta «se lo lasciamo morire, allora la festa del Natale non è servita a niente». Dopo cena era usanza cantare in arabo le canzoni natalizie, mentre i cristiani andavano alla messa di mezzanotte nel Santo Sepolcro.
Berta e la madre di Hind impiantarono persino una piccola infermeria per i contadini che lavoravano le loro terre. Un giorno, un neonato venne abbandonato sulla soglia dell’infermeria, e le due donne gli prestarono subito assistenza con l’aiuto di un medico volontario. Lo accudirono per qualche giorno finché non trovarono una famiglia di contadini disposta ad adottarlo.
dp n="13" folio="13" ? Hind e i suoi fratelli ricevettero un’ottima istruzione. La madre voleva che leggessero almeno un paio d’ore tutti i giorni, persino alcuni romanzi in lingua inglese che si procurava con l’aiuto di Berta. Insisteva soprattutto con la figlia, che fu educata nel Collegio femminile di Gerusalemme, perché – diceva – l’istruzione conferiva alle donne uno status sociale elevato. Quanto ai figli maschi, tutte le più importanti famiglie della borghesia palestinese, gli Husseini, i Nashashibi, i Dajani, li mandavano a completare gli studi nelle prestigiose università di Damasco o del Cairo.
Hind trascorse l’adolescenza in una delle città più affascinanti del mondo. Benché talune avvisaglie delle successive sciagure fossero già sotto gli occhi di tutti, Gerusalemme era ancora un luogo dove poter crescere sereni. La madre avrebbe voluto organizzarle un matrimonio in grande stile con un cugino, Hind era più propensa a proseguire gli studi a Damasco. Ma la rivolta araba del ’36 contro il mandato britannico interruppe i sogni e i progetti di entrambe.
Alle due donne che lavarono la salma prima che venisse avvolta nel sudario, per giungere a Dio perfettamente pura secondo le prescrizioni del Corano, i lineamenti del volto di Hind parvero sereni come quando era in vita, per nulla intaccati dall’atroce sofferenza che ne aveva pervaso il corpo nelle ultime ore.
Il giorno precedente Hind si era svegliata in un bagno di sudore e, nonostante cercasse di nascondere gli spasimi della malattia, sua figlia aveva deciso di farla ricoverare nell’ospedale Hadassa, dove i medici l’avevano in cura. Alla fine si era lasciata convincere, ma aveva chiesto di passare prima dal collegio. Voleva guardare il cortile per l’ultima volta.
Nel giardino non c’erano più i meravigliosi fiori che all’inizio dell’estate emanavano un profumo così intenso da essere percepito anche dai cortili e dai vicoli circostanti. Da sempre la loro fragranza aveva accompagnato nella mente di Hind i ricordi più belli, quelli del periodo della fioritura, in cui la luce del giorno si spande sopra le colline di Gerusalemme, ed è talmente intensa da fondere le case con il cielo.
Hind ricordò come quel luogo fosse spoglio prima che vi sorgesse il collegio, senza il roseto, gli ulivi, le palme, i limoni, i gelsomini, il melograno, il pompelmo, la magnolia, i fichi, il piccolo vitigno, l’albero di cannella, quello di henna e poi la menta, la salvia e il rosmarino selvatico. E senza la fontanella che lei aveva voluto costruire al centro del cortile, esattamente come quella che avevano quando viveva nel quartiere armeno. Soprattutto, ricordava un tempo senza i profumi, i colori e le risate delle bambine che inseguivano la palla sul prato, al riparo dalle tragedie che accadevano fuori dalle mura di Dar Al Tifel.
Miriam, la vicedirettrice, una donna robusta dalle spalle larghe e dalla non trascurabile altezza di oltre un metro e ottanta, la sollevò sistemandola sul sedile posteriore dell’auto. Il corpo di Hind era ormai esile e consumato dalla malattia.
«Quando sei entrata a Dar Al Tifel ero io a prenderti in braccio» sussurrò Hind con un filo di voce, gli occhi sorridenti come sempre. Miriam aveva un anno e mezzo quando perse entrambi i genitori: il padre fedayyin era caduto in battaglia, mentre la madre era stata uccisa in un agguato. La piccola era stata portata al collegio dall’imam della moschea del suo villaggio. Era denutrita e aveva i sintomi di una polmonite. Hind l’accolse e la fece curare dal medico del collegio, suo cugino Amin. Crebbe all’interno del collegio e lì decise di restare, anche dopo essersi diplomata. Miriam era affezionata a Hind come una figlia alla madre, e durante i lunghi mesi della malattia l’aveva accudita con amorevole cura, spingendo tutti i giorni la sedia a rotelle nel parco per diverse ore, e sollevandola sulle proprie forti braccia quando era necessario.
Quel giorno, mentre l’auto che conduceva Hind in ospedale varcava il cancello, Miriam la vide voltarsi e gettare un ultimo sguardo furtivo al Monte degli Ulivi che vibrava di riflessi argentei, le fronde degli alberi scosse dalle prime brezze dell’autunno.
Nel tragitto verso l’ospedale Hind vide la sua Gerusalemme con occhi diversi, così radicata in quel suolo bagnato dal sangue di tanti innocenti, con i cunicoli scavati sotto le sinagoghe, le cripte e i passaggi segreti. Nel contempo però la città era anche protesa verso l’alto, con i suoi minareti e i campanili che svettavano nel cielo. Forse, pensò, quella contraddizione era lo specchio della storia di quella terra travagliata, del suo destino tragico che la portava a essere, insieme, il regno dei cieli e quello degli inferi. Mentre la macchina si allontanava dalla Città Vecchia, una luce tagliente abbagliò per un istante Hind. Era quella delle case, da sempre costruite con una pietra bianca e lucida, come a voler significare speranza e pace, nonostante tutto, nonostante tutti.
Hind ripensò ai momenti più difficili della sua vita, che erano stati spesso anche quelli più tragici per il suo popolo. Il massacro di Deir Yassin, il Settembre Nero in Giordania e poi la guerra in Libano, il massacro di Sabra e Chatila perpetrato dalle falangi maronite con la copertura e la collaborazione dell’esercito israeliano. Ognuno di questi momenti aveva sottolineato una nuova sconfitta, il ripetersi di un copione sempre uguale in cui il popolo palestinese finiva invariabilmente per uscire perdente.
Mentre l’auto proseguiva, conducendola verso l’inevitabile epilogo, Hind rifletteva sul fatto che i palestinesi di Gerusalemme dovevano lottare su due fronti, uno interno e uno esterno: contro se stessi prima di tutto, per non cadere in un’assurda spirale di violenza che li avrebbe visti sicuramente sconfitti, e contro spregiudicate forze politiche, pronte a offrire la loro terra su un piatto d’argento per farne merce di scambio.
Ripensò alla prima intifada, a come aveva faticato nel cercare di tenere le allieve del collegio lontano dalle manifestazioni, a come era riuscita a salvare qualche vita. Molti dei palestinesi benestanti avevano lasciato il paese, sperando di rifarsi una vita altrove. Hind, invece, aveva deciso di restare e di fare qualcosa per la sua gente. Più che di una decisione vera e propria, si era trattato di un destino che si era compiuto senza che lei avesse mai alcun dubbio su quale fosse la strada da percorrere.
Nel suo vocabolario la parola «privilegio» aveva un unico significato, quello di trovarsi nella condizione di poter aiutare gli altri. Per questo non si era mai sposata ma era, come diceva spesso ridendo alle sue ragazze, «la donna con più figlie di tutta Gerusalemme». Ma ora cosa sarebbe successo?, si chiese mentre l’auto si arrestava di fronte alla clinica.
dp n="17" folio="17" ? Nel 1948 Hind aveva poco più di trent’anni. Era una ragazza elegante e aperta. La sua bellezza emanava una freschezza così rara che in una poesia a lei dedicata fu paragonata a Gerusalemme, la «sposa del mondo arabo».
Al termine degli studi aveva insegnato nella Scuola musulmana femminile di Gerusalemme, poi, insieme ad alcune colleghe, aveva fondato un’organizzazione per combattere l’analfabetismo nel paese. Era una delle più attive del gruppo, e viaggiava in lungo e in largo per la Palestina per promuovere l’apertura di nuove scuole anche nei villaggi più sperduti. Si recava nei campi profughi con un grande autobus e tornava indietro con moltissimi bambini che le madri, povere e impossibilitate a dare loro un’educazione, erano più che felici di affidarle. Il riscatto della sua gente, ne era convinta già allora, sarebbe dipeso dall’emancipazione culturale dei giovani. L’organizzazione aveva dato vita anche a una rivista, allo scopo di divulgare l’attività svolta in favore dei bambini più svantaggiati.
Proprio quando il mondo sembrava aver ritrovato la pace, alla fine della seconda guerra mondiale, la Palestina cominciò a sprofondare in un incubo. Fu come se le questioni non risolte altrove esplodessero improvvisamente lì, come se la lava proveniente da ogni angolo della terra avesse deciso di erompere tutta insieme dai tombini di Gerusalemme. Le mura della Città Vecchia, da sempre simbolo di sicurezza per gli abitanti, questa volta non furono capaci di difenderli, perché l’aggressore era già al loro interno.
Per tutta la sua vita Hind nutrì la convinzione che alla base del conflitto israelo-palestinese non vi fosse solo la religione ma anche, e soprattutto, la politica. La sua voce però era come un sussurro, di fronte all’incessante frastuono delle armi che seminavano morte e dolore in nome di una religione pur contraria alla violenza.
La borghesia araba lasciò in massa la città . Molte famiglie erano intenzionate a farvi ritorno al termine dei combattimenti, e le colleghe di Hind le assicurarono che molto presto avrebbero ricominciato a lavorare insieme. Ma la maggior parte di loro non sarebbe più tornata a Gerusalemme e avrebbe continuato la propria vita ad Amman, a Damasco o al Cairo. Nello stesso tempo, man mano che l’esercito israeliano procedeva nella conquista, la Città Vecchia si riempiva degli sfollati provenienti dai villaggi, ai quali non restava altro che tentare di sopravvivere in qualche modo in città .
Hind fu l’unica dell’organizzazione a decidere di rimanere. Come sola precauzione decise che per qualche mese avrebbe abbandonato la sua casa nel quartiere armeno, a sud-ovest della Città Vecchia, perché troppo esposto al fuoco israeliano.
Nel frattempo gli uomini erano andati tutti in guerra, e le donne erano costrette a lavorare. I figli se ne andavano in giro per le strade, senza più scuole da frequentare o adulti che vegliassero su di loro. Hind decise allora di aprire un piccolo asilo nel cuore della Città Vecchia. Due stanze arredate semplicemente, una con dodici letti e l’altra con tavolini e sedie. Poco tempo dopo, l’asilo venne chiuso: il dilagare dei combattimenti nel centro della città impediva ai bambini di raggiungerlo.
Deir Yassin
Il 9 aprile 1948, non appena una pausa dei combattimenti glielo permise, Hind si recò nella Città Vecchia, invitata dal governatore a una riunione sull’emergenza profughi. Attraversò la Porta di Erode, e percorrendo le strette vie notò che poche bancarelle spoglie avevano preso il posto della consueta e vivace confusione dei suq carichi di verdure e spezie, che diffondevano nell’aria i profumi intensi della menta, del cumino e del cardamomo, e che abbagliavano con i colori accesi delle arance e dei limoni.
Un’atmosfera tetra aleggiava sulla città . Nei quartieri ebraici i saluti erano meno calorosi del solito e i passanti evitavano di incrociare gli sguardi. Nei quartieri arabi il disagio era ancora più palpabile, e il canto dei muezzin risuonava più come un lamento di dolore, che come il solito gioioso invito alla preghiera.
Nei pressi del Santo Sepolcro, Hind s’imbatté in un gruppo di bambini. Erano una cinquantina circa, alcuni seduti sul bordo del marciapiede, appoggiati gli uni agli altri, altri immobili sul ciglio della strada, come in attesa di qualcuno. Avvicinandosi notò che i più piccoli erano scalzi, piangevano e avevano le guance sporche d...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- La strada dei fiori di Miral