PARTE SECONDA
Nel buio
25
Lunedì 30 agosto
Aprì gli occhi.
E guardò verso la finestra.
Buio fitto.
Le cifre digitali luminose dell’orologio sul comodino segnavano le 5.46 del mattino. Si passò la mano sulla fronte. Era madida di sudore. Così come il cuscino. Aveva farneticato per tutta la notte, tormentata da incubi ricorrenti. Aveva riudito le parole che i genitori ogni mattina, sempre alla stessa ora, si scambiavano davanti all’uscio di casa dopo un bacio sulle labbra.
“Stai attento, caro!”
“Tranquilla!”
Lei, adolescente, li osservava con tenerezza stringendo nella mano la cartella della scuola. Aveva già capito che il lavoro del padre era alquanto rischioso e non esattamente come le avevano spiegato: “Papà fa in modo che i cattivi non facciano più del male”.
Aveva rivissuto il giorno in cui, al ritorno da scuola – insolitamente era andata a prenderla un’amica di famiglia – aveva ricevuto la notizia. Nel salotto aveva trovato un uomo in uniforme con tanti fregi sulla giacca e la mamma in lacrime. Le si era buttata fra le braccia e, stringendola forte, aveva pianto. Tantissimo. Suo padre era stato ucciso da quei “cattivi” in un conflitto a fuoco vicino alla Galleria Vittorio Emanuele di Milano, la città in cui vivevano. Più tardi, sullo schermo del televisore, aveva visto la foto del suo papà, quella del tesserino di riconoscimento, che qualche volta aveva tenuto tra le mani. E la conduttrice del telegiornale, con voce commossa, aveva pronunciato il suo nome, l’età e il grado di maresciallo di polizia, una delle vecchie qualifiche prima della riforma. Quel giorno aveva giurato a se stessa che suo padre sarebbe stato il suo esempio. E proprio per questo era voluta entrare in polizia.
Distesa al buio, Teresa stava aspettando l’alba.
Poi, quando una pallida luce cominciò a filtrare attraverso la tenda, decise di alzarsi. Esausta, si diresse in bagno. Si guardò allo specchio e non fu per niente contenta del suo aspetto. Gli occhi erano cerchiati e sembravano rimpiccioliti. Si girò di lato e notò il segno del cuscino sul viso. Fece un respiro profondo ed entrò nella doccia. Aprì il rubinetto. Al primo getto di acqua fredda, rabbrividì, ma fu solo per pochi secondi.
Quando uscì, rivedendo la propria immagine, si disse: “Adesso va meglio”.
Si avvolse nell’accappatoio e passò in cucina, arredata con mobili dozzinali, come del resto l’intero bilocale. Nel corridoio Mimì, la gatta tigrata nera e grigia con gli occhi grandi come monete, saltò giù dalla sedia e miagolando la seguì. L’aveva portata con sé dalla casa della mamma solo da qualche giorno, da quando aveva trovato quell’appartamento in piazza del Mercato Centrale, dopo aver lasciato la stanza presso la caserma di polizia. Dieci anni prima, Teresa l’aveva salvata tirandola fuori da un cassonetto della spazzatura nel quartiere in cui viveva. E Mimì le si era affezionata subito, come un’amica fedele.
Accese il gas e mise su la caffettiera napoletana. Nella mente, l’immagine ancora nitida del cadavere di Enrico Costanza nella vasca da bagno. Versò alcuni croccantini nella ciotola di plastica.
«Guarda come sei magra, mangia!» disse a Mimì accarezzandola sulla testolina.
Si appoggiò al lavandino aspettando che il caffè fosse pronto. Le sembrò ci stesse mettendo un’eternità a salire, mentre lei aveva bisogno di berne subito almeno due tazze, prima di sentirsi pronta ad affrontare la giornata. Che prevedeva sarebbe stata abbastanza dura.
All’improvviso lo sentì gorgogliare. Assaporò il gradevole profumo che andava diffondendosi nell’aria. In quello stesso momento guardò l’orologio sulla parete. Segnava le sette in punto. Era ancora presto. Decise di fare un po’ di spesa. Il frigorifero era semivuoto.
Indossò i jeans e una maglietta bianca e uscì.
Nella mente, adesso, solo il pensiero di riferire a Ferrara quello che aveva scoperto lavorando sul materiale sequestrato nella villa.
26
Attraversò piazza del Mercato Centrale.
E, saliti i pochi scalini, entrò dalla porta laterale destra.
Quasi tutti i commercianti stavano finendo di esporre in bella mostra la merce sui loro banchi. Lì si poteva acquistare carne, pesce, frutta e verdura a prezzi più contenuti rispetto agli altri negozi. E tutto era di prima qualità, proveniente non solo dalla Toscana, ma anche da altre regioni italiane.
Era un continuo viavai: a frequentarlo erano soprattutto persone che si rifiutavano di fare la spesa nei nuovi supermercati o nei grossi centri commerciali. O che si erano affezionate a quel mercato coperto costruito nell’Ottocento. Anche se a dire il vero, ultimamente, persino su quelle bancarelle stavano cominciando a comparire prodotti tutt’altro che locali.
Quella mattina Teresa fece un giro veloce tra i banchi. Era in anticipo ma voleva arrivare presto in ufficio. Acquistò il minimo necessario: latte, prosciutto toscano, petto di tacchino e tanta frutta fresca. E andò via con i sacchetti di plastica in mano.
Poco fuori sentì delle grida. Vide un uomo, alto e grosso, che inseguiva una ragazzina. Dal suo abbigliamento, gonna larga e lunga, camicetta un po’ scollata e variopinta, sandali ai piedi e uno scialle intorno alla vita, Teresa capì che si trattava di una zingara e che non poteva avere più di tredici, quattordici anni. Dopo un centinaio di metri l’uomo rinunciò a rincorrerla e quando tornò indietro Teresa lo riconobbe. Era un fruttivendolo da cui aveva spesso fatto acquisti. Una brava persona, sempre gentile e sorridente, impeccabile. Adesso, con quella camicia a quadrettoni fuori dai pantaloni, tutto sudato e soprattutto con gli occhi infuocati, sembrava un altro.
«Cos’è successo?» gli domandò Teresa andandogli incontro.
«Avevo appena aperto quando la solita ragazzina mi ha rubato un casco di banane. Non se ne può più» le rispose il fruttivendolo con la voce alterata. «Alla mia età, devo mettermi a inseguire la gente? Ma dove dobbiamo arrivare in questa città? Non ce la faccio proprio più, e non sono il solo. Se continua così, saremo costretti a chiudere!»
«Adesso telefono al 113 per una pattuglia, si calmi» gli disse Teresa. E stava portando la mano nella borsa per prendere il cellulare.
L’uomo scosse ripetutamente la testa.
«No, lasci perdere, tanto sarebbe tutto inutile. Non possono farle nulla, ammesso che riescano a rintracciarla. La legge ormai è dalla parte dei delinquenti. E poi la polizia ha cose ben più importanti da fare in questo momento. Basta leggere “La Nazione”, non le pare?»
Teresa preferì non replicare.
E si avviò verso casa, pensando che l’uomo non avesse tutti i torti.
27
Ore 7.30. Questura
Il commissario era già nel suo ufficio.
Prima di uscire da casa, su insistenza di Petra, si era messo qualche goccia di collirio negli occhi arrossati.
In assoluto silenzio lesse i mattinali, le relazioni delle pattuglie sul territorio, gli interventi richiesti tramite il 113, i telex giunti dal Ministero e da altre Questure.
La nottata era stata tranquilla.
Nelle camere di sicurezza, solo due arrestati. Più tardi, sarebbero stati condotti in tribunale per essere giudicati con il rito direttissimo per il reato di furto. Una pattuglia li aveva sorpresi in flagranza mentre rubavano la benzina in un distributore self service sulla via Pisana. Erano di nazionalità albanese e privi di regolare permesso di soggiorno.
Passò ai giornali. Erano ben ordinati sul tavolinetto di sinistra, accanto alla scrivania. Era lì che il segretario glieli faceva sempre trovare.
Quella mattina dedicavano ampio spazio al duplice omicidio di Fiesole.
I titoli in prima pagina citavano il nome di Enrico Costanza e strillavano la ferocia dell’assassino. C’erano anche le foto della villa e quella della vittima, più giovane, accompagnata da una sua breve storia. Nelle pagine interne, altri articoli e commenti. Notò con sollievo che avevano evitato ogni particolare scabroso.
In sintesi, riferivano che il delitto era avvenuto nel cuore della notte, che le vittime erano state uccise a colpi d’arma da fuoco e che dell’assassino non si sapeva ancora nulla, se non che aveva agito con tanta crudeltà.
Ogni giornalista poi accampava la sua teoria. “Ce ne fosse una attendibile” si disse Ferrara. “Cosa non farebbero per vendere una copia in più!” Costanza era definito da tutti “una persona perbene” e “un uomo sempre a disposizione”. E, a giudizio unanime, la sua morte rappresentava “una vera sciagura” per la città.
Il commissario si soffermò in particolare sugli articoli della “Nazione”, che titolava: L’ex senatore Enrico Costanza giustiziato nella sua villa.
E, sotto la foto, la didascalia annunciava: Enrico Costanza, il Principe che mancherà a Firenze.
“Principe? Che ci sia anche un re sopra di lui?” Una deduzione più che logica che lasciava supporre l’esistenza di una figura nota in certi ambienti fiorentini, i più ristretti.
Anche qui, però, nessun dettaglio scabroso, ma tanto riserbo.
Ferrara si domandò per quanto tempo ancora i giornalisti avrebbero mantenuto quel basso profilo. Presto i soliti avrebbero ripreso a girare per i corridoi sbirciando nelle stanze con le porte aperte anche solo per cogliere un’espressione sui volti degli investigatori.
Segugi a caccia di scoop.
A colpirlo in modo particolare fu il commento del capocronista, un giovane in gamba che si stava facendo strada. Nel suo pezzo erano riferiti anche dati statistici. Fino a quel momento a Firenze c’erano stati dodici omicidi. Tanti. Più dei nove dell’anno precedente. Tutti insoluti, tranne gli ultimi commessi da Leonardo Berghoff.
Non si faceva alcun cenno ai delit...