
- 400 pagine
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Complotto
Informazioni su questo libro
1940: l'Europa è piegata sotto la marcia inesorabile delle truppe del Terzo Reich. L'Intelligence americana affida al giovane agente Metcalfe un'importante missione di spionaggio internazionale, dalla quale dipendono i destini di molti Paesi.1991: la Russia di Gorbaciov è sconvolta dalla minaccia di un colpo di Stato e Stephen Metcalfe, ora ambasciatore americano, è l'unico che può convincere il capo del complotto moscovita a far rientrare l'esercito e scongiurare così il pericolo che incombe sul Cremlino.Un thriller fantapolitico che è anche un'inedita chiave di lettura degli eventi di mezzo secolo di storia.
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Informazioni
Print ISBN
9788817006446eBook ISBN
9788858626153Parte Seconda
dp n="142" folio="142" ? dp n="143" folio="143" ?Mosca,
agosto 1991
L’ambasciatore Stephen Metcalfe riagganciò il telefono in preda a un certo turbamento.
Era mezzanotte passata, ora di Mosca. Si trovava in una stanza sicura al secondo piano della Spaso House, l’ornato palazzo grigio-giallognolo situato a circa un chilometro e mezzo dal Cremlino in direzione ovest, che serviva da residenza dell’ambasciatore americano a Mosca. Metcalfe aveva abitato per quattro anni in quella casa, durante gli anni Sessanta, e dunque la conosceva bene. L’ambasciatore del momento era stato felice di mettere a disposizione dell’illustre amico Stephen Metcalfe quella linea telefonica sicura.
Il consigliere per la Sicurezza Nazionale del presidente americano gli aveva appena rivelato le ultime notizie segrete sulla crisi sempre più grave in atto a Mosca, e la situazione si faceva sempre più minacciosa.
Il presidente Michail Gorbaciov, che si trovava in vacanza con la famiglia nella villa presidenziale in Crimea, era stato preso in ostaggio. I congiurati, tra cui figuravano il presidente del KGB, il ministro della Difesa, il capo del Politburo, il primo ministro e persino il capo di stato maggiore di Gorbaciov, avevano dichiarato lo stato di emergenza. Avevano diffuso notizie false, secondo cui Gorbaciov era malato e non poteva più governare. Avevano ordinato 250.000 paia di manette a una fabbrica di Pskov e compilato 300.000 mandati di arresto. Avevano sgomberato due interi piani della prigione di Lefortovo a Mosca per incarcerare i loro nemici.
La limousine ZIL lo stava aspettando davanti alla Spaso House. Metcalfe vi prese posto accanto al suo vecchio amico, il generale a tre stelle. Notò che il russo altrimenti noto con il nome in codice di «Kurwenal» era vestito in borghese. L’uomo fece un cenno all’autista e la vettura partì immediatamente, sfrecciando per le strade intasate dai carri armati.
Il generale si mise a parlare senza alcun preambolo, con una voce da cui trapelava una notevole tensione. «Gorbaciov non ha modo di comunicare con il mondo esterno. Tutte le sue linee telefoniche sono state tagliate, persino il collegamento speciale con il suo capo di stato maggiore.»
«Ho da darti notizie persino peggiori», disse Metcalfe. «Mi hanno appena riferito che i golpisti hanno assunto il controllo dell’arsenale nucleare.»
Il generale chiuse gli occhi. La valigetta contenente i codici nucleari sovietici supersegreti avrebbe permesso alla giunta militare di far esplodere l’intero arsenale nucleare russo quando e come voleva. L’idea che un manipolo di pazzi furiosi avesse un tale potere era agghiacciante.
«Gorbaciov è vivo?»
«Pare di sì», rispose Metcalfe.
«I golpisti vogliono cambiare le cose», disse il generale. «Be’, le cose cambieranno, ma non nel modo in cui immaginano loro. Se...»
Metcalfe aspettò. Poi chiese: «Che cosa?».
«Se interverrà il Dirižër... È l’unico ad avere il potere di fermare questa follia.»
«Lo ascolteranno?»
«Non solo lo ascolteranno. Come capo dell’intero complesso militar-industriale del mio Paese, il Dirižër, come lo chiamano qui, dispone di un potere immenso.»
Metcalfe si appoggiò allo schienale. «Che strano», disse. «Tu e io, a quanto pare, ci parliamo solo in momenti di estrema tensione. Quando il mondo si trova davanti al baratro di una guerra nucleare. La crisi del Muro di Berlino, la crisi missilistica cubana...»
«Non ho avuto ragione a dire che Kruscëv non avrebbe mai sparato i suoi missili?»
«Tu hai sempre lavorato nell’interesse del tuo Paese, come me, del resto. Entrambi, credo, abbiamo agito come...»
«Come interruttori, ho sempre pensato. Il nostro compito è stato quello di evitare che l’intero edificio andasse in fiamme.»
«Ma ora siamo vecchi tutti e due. Ci rispettano per la nostra fama, la nostra età , la nostra presunta "saggezza", anche se io dico sempre che la saggezza è quel che si ottiene dopo aver commesso una marea di errori.»
«Da cui abbiamo imparato», aggiunse il generale.
«Forse. E, comunque, io sono ormai troppo vecchio. A Washington sono pressoché irrilevante. Se non fosse per i miei soldi, dubito che mi inviterebbero ancora alla Casa Bianca.»
«Il Dirižër non ti considererà né irrilevante né troppo vecchio.»
«Appartengo al passato. Faccio parte della storia.»
«In Russia il passato non rimane mai tale, e la storia non è mai solo storia.»
Prima che Metcalfe potesse replicare, la limousine fece una brusca frenata. Davanti a loro c’era uno sbarramento: coni stradali, luci lampeggianti, una schiera di soldati in uniforme.
«È il Gruppo Alfa», disse il generale.
«Ordina loro di passare a te il comando», disse Metcalfe. «Tu sei un loro superiore.»
«Non appartengono all’esercito, ma al KGB. È il reparto speciale utilizzato in Afghanistan, in Lituania.» Quindi, mestamente, aggiunse: «E ora qui a Mosca».
dp n="146" folio="146" ? Gli uomini circondarono la limousine con i mitra spianati. «Uscite tutti dall’auto», ordinò il capo squadrone. «Tu, autista. E voi due, vecchi, lì dietro. Svelti!»
«Dio mio», sospirò il generale. «Questi sono uomini con l’ordine di uccidere.»
dp n="147" folio="147" ? Capitolo 11
Mosca,
novembre 1940
Mosca era cambiata enormemente dall’ultima volta che l’aveva vista Metcalfe, eppure era rimasta in larga misura la stessa. Era un luogo di squallore e grandeur, disperazione e orgoglio. Ovunque andasse, dall’atrio del Metropole al Kuznetskij Most, si sentiva puzza di machorka, tabacco russo di infima qualità che lui aveva sempre associato alla Russia. Riconobbe anche un altro odore tipico di Mosca: il puzzo rancido e ripugnante di pelle di pecora bagnata.
Quello non era cambiato, ma tante altre cose sì. I vecchi edifici a uno o due piani erano stati demoliti e sostituiti da imponenti grattacieli, costruiti secondo il gusto personale di Stalin, quello stile architettonico a torta nuziale chiamato gotico stalinista. Dappertutto erano in corso frenetici lavori di scavo e costruzione. Mosca si stava trasformando nel centro di un impero totalitario.
I carri trainati da cavalli erano spariti. Le strade di acciottolato erano state allargate, livellate e asfaltate, per adattarle all’era dell’automobile. Non che ce ne fossero tante, per strada... Qualche vecchia Renault, ma soprattutto le «Emka», come venivano chiamate in Russia le GAZ M-1, imitazioni della Ford del 1933. Gli scialbi tram marroni continuavano a sferragliare rumorosamente sui loro binari, e i moscoviti continuavano ad attaccarvisi, ad aggrapparsi agli sportelli aperti, anche se non erano più affollati come un tempo. Ora c’erano altri modi per girare a Mosca, tra cui una nuova metrò, che era stata costruita negli ultimi anni.
L’aria non era mai stata tanto fuligginosa: il fumo esalava ora dalle fabbriche, dai treni e dalle automobili. La ripida e grandiosa Tver’skaja, antica via di transito, era stata dedicata a Gor’kij, ossia allo scrittore che aveva celebrato la Rivoluzione. La maggior parte dei negozi era stata sostituita da enormi spacci statali i quali, nonostante gli ornati allestimenti delle vetrine, erano privi di merce e di clienti. Il cibo scarseggiava, ma la propaganda abbondava. Ovunque andasse, Metcalfe si imbatteva in enormi ritratti di Stalin, o di Stalin e Lenin insieme. Sugli edifici erano affissi immensi striscioni rossi che proclamavano: «Raggiungeremo e supereremo le quote del Piano quinquennale!», «Comunismo = Potere sovietico + elettrificazione di tutto il Paese!».
Eppure, dietro gli stravaganti addobbi comunisti, Mosca rimaneva la vecchia città di sempre, con le dorate cupole a cipolla delle chiese ortodosse che luccicavano al sole, i colori abbaglianti della cattedrale di San Basilio sulla Piazza Rossa, gli operai dalle lacere tute imbottite, i contadini, che si affrettavano per le strade con le loro giacche enormi e le babuški che, in fretta e furia, si trascinavano dietro le tipiche avos’ki, le borse di rete, o le valigie di legno di produzione propria.
Nei loro volti, però, c’era qualcosa di nuovo: una paura straziante, ancora più profonda di quella che Metcalfe aveva notato sei anni prima: la paranoia, un terrore denso e avvolgente che sembrava essere calato sui russi come una coltre di nebbia. Quella era la trasformazione di gran lunga peggiore. Il grande terrore – dato dalle purghe degli anni Trenta, iniziate appena dopo che Metcalfe se n’era andato da Mosca – si era impresso sui volti di tutti, dall’ultimo dei contadini al più alto commissario.
Metcalfe l’aveva potuto verificare quel giorno stesso, durante l’incontro al Commissariato del Popolo per il Commercio Estero, incontro che gli era sembrato interminabile, ma che era stato necessario per tenere in piedi la finzione che gli forniva un pretesto per la sua presenza a Mosca. Alcuni membri della delegazione li conosceva dai vecchi tempi, ma erano cambiati al punto da risultare pressoché irriconoscibili. L’allegro e sorridente Litvikov era diventato una persona cupa e tormentata. I suoi aiutanti, che si erano sempre mostrati espansivi e cortesi nei confronti del grande capitalista americano, erano ora impassibili e distanti. Metcalfe ebbe l’impressione che lo guardassero con invidia e paura al tempo stesso. Certo, ai loro occhi lui rimaneva una specie di re, ma era anche un appestato, contagioso: se gli fossero andati troppo vicini, i loro superiori avrebbero potuto ritenerli contaminati. Da un momento all’altro qualcuno avrebbe potuto accusarli di essere delle spie, di collaborare con un agente capitalista; avrebbero potuto essere arrestati e giustiziati. La gente veniva fucilata per molto meno.
Ripensando a quell’incontro, Metcalfe scosse la testa. Seduto a un tavolo ricoperto da un panno di feltro verde in una sala troppo riscaldata, aveva dovuto improvvisare un balletto di accenni e promesse, senza però prendere alcun impegno preciso. Aveva alluso agli agganci politici della sua famiglia, buttando là nomi come quello di Franklin Roosevelt, dei suoi collaboratori più fidati, di potenti senatori. Quando si era detto fiducioso che il presidente americano, nonostante le critiche rivolte alla Russia, desiderasse in realtà sviluppare il commercio con l’Unione Sovietica, li aveva visti tendere le orecchie. Erano solo specchietti per le allodole, ma forse avevano funzionato.
Ora, attraversando la piazza Teatral’naja, vide la splendida facciata neoclassica del Bolshoi con il portico a otto colonne e, sopra il frontone, i quattro cavalli bronzei del carro di Apollo. Metcalfe sentì aumentare la pulsazione cardiaca.
dp n="150" folio="150" ? Passò davanti a un milicioner, un poliziotto di strada, che gli rifilò un’occhiata diffidente, osservando avidamente l’abbigliamento occidentale: il pesante cappotto di cachemire nero, i guanti di pelle dalle raffinate cuciture. Dopo tutto, era la tenuta di un rampollo dei Metcalfe, famiglia di magnati dell’industria.
«Nasconditi in piena vista», gli aveva spesso ripetuto Corky. «La nudità è il travestimento migliore.»
Una volta, orecchiando di sfuggita l’ammonimento, il vecchio amico Derek Compton-Jones aveva commentato, scherzoso: «Stephen ha capito benissimo il concetto di nudità nelle parti basse. Secondo lui i "blocchetti monouso" sono dei pied-à -terre per le avventure di una sola notte».
Il ricordo gli procurò una fitta di dolore. I suoi amici della stazione radio di Parigi erano tutti morti. Uomini in gamba e coraggiosi, assassinati mentre compivano il loro dovere. Ma com’era successo? E perché?
Gli risuonò nella mente un vecchio proverbio russo – nel periodo trascorso a Mosca ne aveva sentiti a decine, anzi a centinaia – che diceva: «Se vivi nel passato, perdi un occhio; se te ne dimentichi, li perdi tutti e due».
Non se ne sarebbe dimenticato. Sarebbe stato impossibile. Lì a Mosca era circondato dal passato, stava tornando al passato; e il passato a cui stava tornando era una ballerina di nome Svetlana.
Davanti al teatro c’era una folla di gente in attesa. Metcalfe non aveva il biglietto per assistere allo spettacolo di quella sera, Il Papavero Rosso, perché i posti erano esauriti, ma c’erano pur sempre altre maniere per entrare. A Mosca si poteva comprare quasi tutto in valuta pregiata, ossia il dollaro americano, la sterlina britannica e il franco francese. Se ne incontravano sempre, di moscoviti disperatamente desiderosi di valuta che sarebbe servita loro per acquistare beni alimentari nei negozi speciali riservati agli stranieri. Moscoviti disperati al punto da cedere i loro tanto agognati biglietti per il Bolshoi. La disperazione era una cosa su cui avrebbe sempre potuto contare a Mosca.
I convenuti erano generalmente meglio vestiti della gente che si incontrava per la strada, e non c’era da stupirsene. I biglietti per il Bolshoi si ottenevano solo tramite blat, gli «agganci». Si doveva conoscere qualche personalità importante, o essere una persona importante: un membro del Partito, o uno straniero. Tra la folla si vedevano molte uniformi militari, spalline rosse sulle divise degli ufficiali. Le spalline erano una novità , rifletté Metcalfe. Le aveva introdotte Stalin da poco per innalzare il morale delle truppe dell’Armata Rossa, traumatizzate dalle purghe del 1938, durante le quali tanti capi militari erano stati giustiziati con l’accusa di essere traditori collusi con la Germania nazista.
Ma a colpire Metcalfe, di quegli ufficiali dell’Armata Rossa, non fu soltanto la divisa con le stellette d’argento ricamate sulle spalline rosse, bensì anche il taglio corto dei loro capelli, secondo lo stile prussiano. Adesso assomigliavano anche nell’aspetto ai loro omologhi nazisti. Avevano il torace costellato di tintinnanti medaglie di bronzo e d’oro; portavano le pistole in lucidissime fondine di pelle appese a cinturoni.
Strano, pensò. Mosca era alleata con i nazisti. La Russia aveva firmato un patto di non aggressione con la Germania, sua acerrima nemica. Le due grandi potenze militari europee ora erano amiche. Lo Stato nazista aveva stretto la mano a quello comunista. I russi ora fornivano materiale bellico ai nazisti. Come potevano le forze della libertà pensare di poter sfidare allo stesso tempo la Germania e l’Unione Sovietica? Era pura follia!
Nell’aria c’era un odore familiare, notò Metcalfe. Proveniva da molte donne russe, con i loro lunghi abiti da sera. Era l’orribile profumo sovietico chiamato «Papavero Rosso» – in sintonia perfetta con lo spettacolo della serata! – talmente sgradevole che gli stranieri lo chiamavano «alito di Stalin».
Un vecchio incrociò il suo sguardo, si avvicinò e gli bisbigliò: «Bilety? Vy chotite bilety?Vuole dei biglietti?».
L’uomo indossava vestiti logori, ma che dovevano essere stati eleganti. I guanti, a cui mancavano alcune punte’delle dita, erano stati riparati con dello spago. Era un ex ricco ridotto all’abiezione. Parlava anche in modo forbito. Una vista davvero straziante.
Metcalfe annuì. «Solo uno», disse.
«Ne ho due», disse il vecchio. «Per lei e sua moglie, signore?»
Metcalfe scosse la testa. «Solo uno. Ma gliene pagherò due.» Estrasse un piccolo mazzo di dollari, molti più di quanti ne richiedesse la transazione, e il vecchio gli porse il biglietto con occhi sgranati.
«Grazie, signore! Grazie!»
Il vecchio sorrise, e Metcalfe vide che aveva la bocca piena di otturazioni d’oro. Era un uomo che, a suo tempo, si era potuto permettere un lusso del genere.
In quel periodo, in Russia, c’era carenza di molte cose, pensò Metcalfe. Cibo, benzina, vestiti... ma quel che più scarseggiava era la dignità .
Consegnò il cappotto al garderob, come dovevano fare tutti. Una vecchia rugosa dai capelli bianchi glielo prese, accarezzandolo ammirata mentre lo appendeva tra gli altri indumenti sciatti e sformati.
Risuonò un campanello, e Metcalfe si unì alla calca che si apprestava a entrare nel teatro per prendere posto. Giunto all’interno, rimase molto colpito dall’opulenza del luogo. Non lo ricordava tanto fastoso, un’isola di stravaganza zarista nel bel mezzo del grigio squallore di Mosca. Da un alto soffitto a cupola, decorato con raffinati dipinti neoclassici, pendeva un immenso lampadario di cristallo. Nel palco dello zar, arredato con tendaggi rossi e sedili dorati su cui campeggiava una falce e martello dorata, erano schierati sei ordini di palchi privati. Sul sipario ...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Parte Prima
- Parte Seconda
- Parte Terza
- Parte Quarta