Tutto sotto il cielo
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Tutto sotto il cielo

  1. 468 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Tutto sotto il cielo

Informazioni su questo libro

Dopo quaranta giorni a bordo di un postale a vapore, Elvira de Poulain, pittrice spagnola trapiantata a Parigi, approda a Shanghai. Accompagnata dalla giovane nipote Fernanda, deve recuperare il corpo del marito Rémy, un commerciante di seta morto in circostanze oscure: ucciso dai sicari della Banda Verde, la temibile mafia locale, le ha lasciato solo debiti. E un unico oggetto di valore, un cofanetto che, secondo un'antica leggenda, nasconde le indicazioni per trovare la tomba del Primo Imperatore del Celeste Impero, ricca di favolosi tesori. Presto, Elvira e Fernanda dovranno difendere il prezioso scrigno da eunuchi imperiali, nazionalisti, occupanti giapponesi: il loro viaggio si trasformerà in un'appassionante e rischiosa avventura. Ambientato tra la Cina coloniale degli anni Venti e quella del III secolo a.C., Tutto sotto il cielo conferma la capacità dell'autrice di unire suspense e inestricabili enigmi in una cornice storica impeccabile e ben documentata.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
Print ISBN
9788817034647
eBook ISBN
9788858628287

Dedica

A Pascual e Andrés
perché, dopo lunghe e dure
negoziazioni, hanno vinto loro.
E, nonostante tutto, li amo

1

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Un certo mezzogiorno, dopo l’interminabile sequela di nausee e di malesseri vari che mi aveva tormentata durante la traversata a bordo della André Lebon, una sorprendente calma si era impossessata della nave costringendomi allo spiacevole sforzo di aprire un poco gli occhi, come se in quel modo avessi potuto scoprire perché il postale, per la prima volta in sei settimane, aveva smesso di sbattere contro le onde. Sei settimane! Quaranta giorni infami durante i quali ricordavo di essere salita in coperta soltanto una o due volte, e anche per quelle scarse uscite c’era voluto molto coraggio. Non avevo visto né Porto Said, né Gibuti né Singapore. E non ero nemmeno stata in grado di affacciarmi agli oblò della mia cabina mentre attraversavamo il canale di Suez o attraccavamo a Ceylon e a Hong Kong. Nausea e depressione mi avevano tenuta sdraiata sulla branda della mia cabina di seconda classe sin dal giorno della nostra partenza da Marsiglia, cioè dal mattino della domenica 22 luglio, e nemmeno gli infusi di zenzero e le inalazioni di laudano, che mi intontivano, erano riusciti ad alleviare la nausea.
Il mare non faceva per me. Io ero nata a Madrid, nell’entroterra, nella meseta castigliana, a molta distanza dalla costa, e il fatto di salire su una nave e di attraversare mezzo mondo galleggiando e cercando di mantenermi in equilibrio non mi sembrava naturale. Avrei preferito mille volte fare il viaggio per ferrovia, ma Rémy diceva sempre che era molto più rischioso, e indubbiamente, dalla rivoluzione dei bolscevichi in Russia, attraversare la Siberia rappresentava una vera follia. Così non avevo potuto fare altro che comprare i biglietti per quell’elegante postale a vapore della Compagnie des Messageries Maritimes sperando ardentemente che il dio dei mari, compassionevole, non sentisse lo stravagante desiderio di portarci sul fondo, dove saremmo stati divorati dai pesci e dove la melma avrebbe coperto per sempre le nostre ossa. Ci sono cose che non portiamo con noi nascendo e io, certamente, non ero venuta al mondo con lo spirito marinaro.
Quando la quiete e lo sconcertante silenzio della nave mi rianimarono osservai intensamente le familiari pale girevoli del ventilatore appeso al soffitto. In un momento della traversata avevo giurato a me stessa che, se fossi arrivata a posare di nuovo i piedi a terra, avrei dipinto quel ventilatore così come lo vedevo sotto i confusi effetti del laudano; forse sarei riuscita a venderlo al mercante d’arte Kahnweiler, appassionato delle opere cubiste dei miei connazionali Picasso e Juan Gris. Ma la visione confusa delle pale del ventilatore non mi aiutò a capire perché la nave si era arrestata e, siccome non si sentivano nemmeno i segnali tipici dell’arrivo nei porti né le corse chiassose dei passeggeri che si dirigevano in coperta, ebbi di colpo un brutto presentimento... In fin dei conti ci trovavamo nei pericolosi mari della Cina dove, ancora in quell’anno, il 1923, temibili pirati orientali abbordavano le imbarcazioni di passaggio per rubare e assassinare. Il cuore cominciò a battermi forte e le mani a sudare, e proprio in quel momento risuonarono alla mia porta dei colpetti inquietanti.
“Permesso, zia?” indagò la voce spenta di quella nipote appena acquisita che avevo vinto alla lotteria senza aver comprato nessun biglietto.
“Avanti”, mormorai reprimendo una leggera nausea. Siccome Fernanda veniva a trovarmi solo per portarmi l’infuso contro il mal di mare, ogni volta che compariva nella mia cabina mi si scombussolava lo stomaco.
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La sua figura grassoccia varcò faticosamente la soglia. La ragazza teneva una tazza di porcellana in una mano e il suo sempiterno ventaglio nero nell’altra. Non si separava mai dal ventaglio e non scioglieva mai i capelli, sempre raccolti in una crocchia all’altezza della nuca. Sorprendeva il duro contrasto tra la freschezza dei suoi diciassette anni e il severo vestito a lutto che non toglieva mai, troppo antiquato anche per una signorina di Madrid e del tutto inadeguato ai torridi calori che si pativano a quelle latitudini. Anche se io le avevo offerto alcuni capi del mio guardaroba (delle camicette più leggere, molto chic, e delle gonne più corte, al ginocchio, come si usava a Parigi), da buona erede di un carattere scostante e poco riconoscente lei aveva rifiutato con fermezza la mia offerta facendosi il segno della croce e abbassando lo sguardo sulle mani, con un gesto categorico che chiudeva la questione.
“Perché si è fermata la nave?” chiesi tirandomi su adagio e annusando l’aroma aggressivo di quella pozione che i cuochi del postale preparavano abitualmente per diversi passeggeri.
“Abbiamo lasciato il mare”, disse sedendosi sul bordo del letto e avvicinandomi la tazza alla bocca. “Ci troviamo in un luogo chiamato Woosung o Woosong, non so... a quattordici miglia da Shanghai. L’André Lebon avanza lentamente perché stiamo risalendo un fiume e potremmo incagliarci. Arriveremo entro alcune ore.”
“Finalmente!” esclamai, notando che la vicinanza di Shanghai mi dava più sollievo della tisana allo zenzero. Ma non mi sarei sentita bene fino a quando non avessi lasciato quella maledetta cabina che sapeva di salsedine.
Fernanda, che insisteva ad avvicinarmi la tazza alle labbra per quanto io mi scostassi, fece una smorfia che voleva essere un sorriso. La poverina era identica a sua madre, la mia insopportabile sorella Carmen, scomparsa cinque anni prima durante la terribile epidemia di influenza del 1918. Oltre al carattere aveva i suoi stessi occhi grandi e rotondi, lo stesso mento prominente e quel grazioso naso a pallina che le rendeva buffe malgrado l’espressione acida che spaventava anche i più coraggiosi. La grassezza, però, l’aveva presa dal padre, mio cognato Pedro, un uomo dalla pancia imponente e con una pappagorgia tanto grande che, per nasconderla, aveva dovuto farsi crescere la barba fin da molto giovane. Nemmeno Pedro era un modello di simpatia, quindi non era strano che il frutto di quel disgraziato matrimonio fosse questa ragazzina seria, vestita a lutto e dolce come l’olio di ricino.
“Dovrebbe raccogliere le sue cose, zia. Vuole che l’aiuti a preparare i bagagli?”
“Saresti tanto gentile?” mormorai, lasciandomi cadere sulla branda con un gesto di sofferenza reale, ma esagerato ad arte. In fondo, se la piccola si offriva, perché non lasciarla fare?
Mentre lei rovistava nei miei bauli e nelle valigie, e raccoglieva le poche cose che avevo utilizzato durante quel penoso viaggio, incominciai a sentire rumori e voci allegre nel corridoio; gli altri passeggeri di seconda erano indubbiamente impazienti come me di abbandonare l’ambiente acquatico e di ritornare a quello terrestre con il resto dell’umanità. Questo pensiero mi rincuorò talmente che feci uno sforzo di volontà e, tra lamenti e gemiti, riuscii a poggiare i piedi a terra. Mi sentivo molto debole, ma peggio della fatica era la sensazione di tristezza che il sopore del laudano era riuscito a cancellare e che la veglia purtroppo mi restituiva.
Non sapevo quanto tempo avremmo dovuto fermarci a Shanghai per sbrigare le faccende di Rémy, ma, anche se in quel momento pensare al viaggio di ritorno mi faceva rizzare i capelli, speravo che la nostra permanenza fosse la più breve possibile. Infatti avevo concordato telegraficamente un appuntamento con l’avvocato per l’indomani mattina, con il proposito di accelerare il disbrigo delle pratiche e di risolvere al più presto le questioni in sospeso. La morte di Rémy era stata un colpo molto duro, terribile, un evento che mi risultava ancora difficile da accettare. Rémy morto? Assurdo! Era un’idea del tutto ridicola e, tuttavia, avevo fresco nella memoria il ricordo del giorno in cui avevo ricevuto la notizia, lo stesso in cui Fernanda si era presentata nella mia casa di Parigi con la sua valigetta di pelle, il soprabito nero e la pretenziosa mantellina da signorina spagnola benestante. Stavo ancora cercando di abituarmi all’idea che quella mocciosa, che non conoscevo per niente, fosse la figlia di mia sorella e del suo recentemente defunto vedovo, quando comparve sulla porta un funzionario del ministero degli Affari Esteri, si tolse il cappello e, porgendomi le sue più sentite condoglianze, mi consegnò un comunicato ufficiale con un cablogramma allegato che mi informava della morte di Rémy per mano di ladri che erano entrati a rubare nella sua casa di Shanghai.
Che potevo fare? Secondo il comunicato dovevo andare in Cina per recuperare il corpo e per risolvere le questioni legali, ma dovevo anche prendermi la responsabilità, in qualità di tutrice di quella tale Fernanda (o Fernandina, come a lei piaceva essere chiamata, anche se da me non l’avrebbe ottenuto) che era nata alcuni anni dopo la mia rottura definitiva delle relazioni con la famiglia e la mia partenza per la Francia, nel 1901, per studiare pittura all’Académie de la Grande Chaumière, l’unica scuola di Parigi in cui non dovevo pagare l’iscrizione.
Non avevo tempo per deprimermi né per compatirmi: impegnai al monte dei pegni un paio di catenine d’oro, vendetti a poco prezzo tutte le tele che avevo nello studio e comprai due carissimi passaggi per Shanghai sulla prima nave che salpava da Marsiglia la domenica seguente. Dopotutto, Rémy De Poulain era, al di là di ogni altra considerazione, il mio migliore amico. Sentivo una fitta acuta nel petto quando pensavo che non era più in questo mondo a ridere, parlare, camminare o semplicemente respirare.
“Che cappello vuole mettersi per sbarcare, zia?”
La voce di Fernanda mi riportò alla realtà.
“Quello con i fiori azzurri”, mormorai.
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Mia nipote mi osservava immobile, con lo stesso sguardo fisso e indefinito con cui mi osservava sua madre quando eravamo bambine. La capacità ereditata di nascondere i propri pensieri era ciò che mi piaceva meno in lei, e comunque, suo malgrado, io li intuivo. E siccome avevo praticato quello sport per molto tempo con sua nonna e sua madre, la bambina non ce l’avrebbe mai fatta con me.
“Non è meglio quello nero con i bottoni? Le starebbe bene con un vestito coordinato.”
“Metterò quello con i fiori e la camicetta e la gonna blu.”
Lo sguardo rimase neutrale.
“Ricorda che qualche impiegato del consolato verrà a prenderci al molo?”
“Proprio per questo mi metterò quello che ti ho detto. È il vestito che mi sta meglio. Ah, e la borsa e le scarpe bianche, per favore! ”
Quando tutti i bauli furono chiusi e gli abiti che avevo chiesto disposti ai piedi del letto, mia nipote uscì dalla cabina senza dire una parola di più. Io mi ero abbastanza ripresa grazie all’apparente immobilità della nave. Da quello che riuscivo a intravedere attraverso gli oblò, avanzava lentamente tra un fitto traffico di navi grandi come la nostra e uno sciame di veloci barchette con le vele quadrate all’ombra delle quali si riparavano pescatori solitari o intere famiglie di cinesi con vecchi, donne e bambini.
Secondo la guida turistica Thomas Cook, comprata in fretta nella libreria americana Shakespeare and Company il giorno prima di salpare, stavamo risalendo il fiume Huangpu, sulle cui rive si trovava la città di Shanghai, presso la confluenza con la foce del grande Yangtze, il Fiume Azzurro, il più lungo di tutta l’Asia, che attraversava il continente da ovest a est. Sembrerà strano ma, anche se Rémy aveva vissuto in Cina negli ultimi vent’anni, io non avevo mai visitato questo Paese. Lui non mi aveva mai chiesto di andarci e io non ero stata tentata di fare un viaggio simile. Nei primi tempi, a rifornire di materia prima dalla Cina le grandi seterie possedute dalla famiglia De Poulain a Lione era stato il fratello maggiore di Rémy, Arthème. Quando, alla morte del padre, costui era dovuto ritornare in Francia per occuparsi delle imprese, a Rémy, che fino a quel momento aveva condotto a Parigi una vita oziosa e spensierata, non rimase altra scelta che prenderne il posto a Shanghai. A quarantacinque anni appena compiuti, e senza aver mai mosso un dito, diventò dalla sera alla mattina amministratore e legale delle filande di famiglia nella metropoli più importante e ricca dell’Asia, la cosiddetta “Parigi dell’Estremo Oriente”. Io avevo allora venticinque anni e, sinceramente, mi ero sentita molto sollevata quando se ne era andato; ero padrona della casa e libera di fare quello che volevo, che era quello che faceva lui quando io studiavo all’Académie. È vero che, da quel momento, dovevo dipendere esclusivamente dalle mie magre entrate, però il tempo e la distanza riassestarono la nostra sgangherata relazione facendoci diventare buoni amici. Ci scrivevamo molto, ci raccontavamo tutto, e non c’è dubbio che senza il suo puntuale aiuto economico mi sarei trovata davvero nei guai in più di un’occasione.
Quando terminai di vestirmi, il chiasso sulla nave era già considerevole. Dalla luce che entrava dagli oblò dedussi che erano pressappoco le quattro del pomeriggio e, dai rumori, che presumibilmente stavamo attraccando al molo della compagnia di navigazione a Shanghai. Se il viaggio si era svolto come previsto e se la memoria non mi tradiva, doveva essere giovedì 30 agosto. Prima di lasciare la cabina e salire in coperta mi permisi di aggiungere un tocco provocante al mio abbigliamento estivo di vedova quarantenne, sciogliendo i nastri della scollatura della camicetta e annodandomi al collo lo splendido foulard di soffice seta bianca con ricami di fiori che Rémy mi aveva regalato nel 1914, dopo essere tornato a Parigi a causa della guerra.
Presi la borsa e, allo specchio, sistemai bene il cappello sulla corta chioma alla garçonne, mi ritoccai il trucco, misi un poco di fard perché non si notassero tanto le occhiaie e il pallore del viso — per fortuna quell’anno si usavano i toni lividi — e con passo vacillante mi incamminai verso la porta e verso l’ignoto. Mi trovavo niente di meno che a Shanghai, la città più dinamica e opulenta dell’Estremo Oriente, la più famosa, nota nel mondo intero per la sua smodata passione per ogni sorta di piacere.


Dal ponte vidi Fernanda che scendeva dalla passerella con passo fermo. Indossava la sua terribile mantellina nera e aveva esattamente lo stesso aspetto di un corvo in un campo di fiori. La baraonda era tremenda: centinaia di persone si accalcavano per lasciare la nave, altre centinaia o forse migliaia si ammucchiavano sul molo, tra le tettoie, gli edifici delle dogane e gli uffici che ostentavano il tricolore francese. Scaricavano fagotti e valigie, offrivano auto a noleggio, hotel, trasporto su quei carrettini a due ruote chiamati risciò o, semplicemente, erano lì, in attesa di famigliari e amici che arrivavano come noi con la André Lebon. Poliziotti vestiti di giallo, con copricapo velato a forma di cono e fasce di tela attorno alle gambe, tentavano di mettere ordine nel caos colpendo brutalmente con corti bastoni tutti i cinesi scalzi e seminudi che portavano, in ceste appese a una canna di bambù, cibi e tè da vendere agli occidentali. Nel frastuono non si distinguevano le grida dei poveri coolie ma li si vedeva fuggire a tutta velocità, fermarsi a pochi metri più in là e riprendere la loro attività.
Fernanda era perfettamente riconoscibile tra la folla, e tutti i più colorati cappelli del mondo, tutti i più smaglianti parasole cinesi, tutti i tettucci dei risciò di Shanghai non sarebbero riusciti a occultare quella figura corpulenta e funerea che avanzava tra la gente come un carro armato tedesco verso Verdun. Non riuscivo a immaginare che cosa l’avesse spinta ad allontanarsi dalla nave con tanta risolutezza, ma ero troppo impegnata a cercare di non essere travolta dagli altri passeggeri per preoccuparmi di lei che, oltre a parlare benissimo il francese — aveva ricevuto l’educazione tipica delle ragazze spagnole di buona famiglia, cioè francese, cucito, religione, un po’ di pittura e un po’ di pianoforte —, che oltre al francese, dicevo, poteva mangiarsi a merenda in un batter d’occhio un paio di cinesini, codino compreso.
Scesi la passerella e il forte odore di putrefazione e di sporcizia che saliva dal molo mi fece provare di nuovo il supplizio del mal di mare. Siccome avanzavamo con molta lentezza ebbi il tempo di impregnare un fazzoletto di ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Tutto sotto il cielo