
- 400 pagine
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eBook - ePub
La direttiva
Informazioni su questo libro
Paul Janson lavora come consulente per un'agenzia americana di sicurezza, ma è anche un formidabile ex agente segreto. Quando Peter Novak, premio Nobel per la pace e magnate internazionale, viene rapito da una cellula terroristica dello Sri Lanka, è lui che viene incaricato del salvataggio: una difficile e rischiosa operazione di "recupero".Ma la situazione precipita e Janson diventa il bersaglio di schieramenti contrapposti: costretto a una vertiginosa fuga da Bombay ad Atene, poi da Amsterdam all'Ungheria, deve confrontarsi con le manovre occulte di una superpotenza militare. E giunge infine a porsi la domanda essenziale: chi è, in realtà , Peter Novak?
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Informazioni
Print ISBN
9788817003483eBook ISBN
9788858626160Prologo
8°37' N, 88°22' E
Oceano Indiano Settentrionale,
402,25 chilometri a est dello Sri Lanka
Anura nordorientale
Oceano Indiano Settentrionale,
402,25 chilometri a est dello Sri Lanka
Anura nordorientale
L’aria era opprimente quella notte, talmente calda e immobile che si faticava a respirare. Nelle prime ore della sera una leggera pioggia aveva rinfrescato il terreno, ma ora tutto sembrava emanare calore, anche l’argentea mezzaluna striata da occasionali pennellate di nuvola. La giungla sembrava esalare l’alito caldo e umido di un predatore in agguato. ,
Shyam si agitava inquieto sulla sedia. In quel periodo dell’anno, una notte così era normale sull’isola di Anura: all’inizio della stagione dei monsoni l’aria sembrava sempre essere foriera di cattivi presagi. Solo le instancabili zanzare disturbavano la quiete. All’una e trenta del mattino, Shyam calcolò che era stato di servizio al posto di blocco per quattro ore e mezza. Durante tutto quel tempo erano passati di lì esattamente sette automobilisti. Il posto di blocco consisteva in due barriere parallele di filo spinato — che chiamavano «reggiposata» — disposte sulla strada a distanza di due metri l’una dall’altra su entrambi i lati della zona riservata alla perquisizione e all’amministrazione. Shyam e Arjun erano le due sentinelle collocate nella posizione più avanzata e stavano seduti davanti alla garitta di legno a lato della carreggiata. Una coppia di sentinelle ausiliarie avrebbe dovuto essere di guardia sull’altro versante della collina, ma dopo tutte quelle ore di silenzio era probabile che si fossero assopite, come del resto gli uomini che si trovavano nelle baracche di fortuna costruite lungo la strada, cinquecento metri più in là . Nonostante gli allarmanti avvertimenti dei loro superiori, erano stati giorni e notti di una noia mortale. La provincia nordorientale di Kenna era scarsamente popolata anche nei momenti migliori e quello non era uno dei momenti migliori.
A un tratto, portato dalla brezza, debole come il ronzio di un insetto in lontananza, giunse il rumore di un motore spinto al massimo della potenza.
Shyam si alzò in piedi lentamente. Il rumore si faceva sempre più vicino.
«Arjun» chiamò cantilenando. «Arjun. Sta arrivando una macchina.»
Arjun roteò il capo per sgranchirsi il collo. «A quest’ ora?» Si stropicciò gli occhi. A causa dell’umidità il sudore non evaporava e gli rimaneva sulla pelle, pesante come olio minerale.
Nell’oscurità e con la visuale parzialmente coperta dagli alberi, Shyam riuscì finalmente a scorgere i fari. Al di sopra del rombo del motore si avvertivano acute grida festose.
«Ragazzacci di campagna» mugugnò Arjun.
Shyam, dal canto suo, era felice che qualcosa — una qualunque cosa — interrompesse la noia. Aveva fatto il turno di notte per sette giorni consecutivi al posto di blocco stradale di Kandar ed era stata una sofferenza. Naturalmente i loro superiori, impassibili, ce l’avevano messa tutta per sottolineare quanto l’incarico fosse importante, cruciale, vitale in ogni senso. Il posto di blocco di Kandar era proprio sulla via che portava al Palazzo di Pietra, dove era in corso una riunione segretissima del governo. Quindi i controlli erano severissimi e quella era l’unica strada degna di questo nome che collegasse il palazzo alla regione appena più a nord, controllata dai ribelli. I guerriglieri del Fronte di Liberazione Kagama, comunque, sapevano dei posti di blocco e ne stavano alla larga. Ma non erano i soli. Più della metà degli abitanti dei villaggi del nord, infatti, aveva abbandonato la provincia a causa dei continui scontri con i ribelli. Per di più, quei pochi che erano rimasti a Kenna non avevano molto denaro, di conseguenza per le «mance» alle guardie rimaneva ben poco. Non accadeva mai nulla e il portafogli di Shyam era sempre vuoto. Stava forse espiando una colpa commessa in una vita precedente?
Il camion divenne visibile; nella cabina scoperta c’erano due giovani a petto nudo. Uno, palesemente ubriaco, era in piedi e si versava addosso una lattina di birra schiumosa. Il camion — probabilmente carico di kurakkan, il raccolto di radici di qualche povero fattore — stava affrontando la curva a più di centoventi chilometri orari, il massimo che il motore rombante potesse raggiungere. Dall’autoradio sintonizzata su una delle potenti emittenti dell’isola veniva, a tutto volume, musica americana.
Le urla e gli schiamazzi riecheggiavano nella notte. Sembrano un branco di iene alcolizzate, pensò Shyam infastidito. Ladri di auto squattrinati: erano giovani, ubriachi e indifferenti a qualsiasi cosa. La mattina successiva, però, sarebbe stato diverso. L’ultima volta che era successa una cosa del genere, qualche giorno prima, il padrone del camion, nella tarda mattinata, aveva ricevuto la visita dei genitori dei giovinastri, avviliti. Il camion era stato restituito insieme a moltissime decine di chili di kurakkan, per riparare qualunque danno avesse subito. Per quanto riguardava i ragazzi, beh, per un pezzo non erano riusciti a sedersi senza trasalire per il dolore, nemmeno sul sedile imbottito di un’auto.
Shyam si portò sulla strada, il fucile imbracciato. Il camion continuò la sua folle corsa e lui fece marcia indietro. Era inutile fare gli eroi. Quei ragazzi erano ubriachi fradici. Qualcuno lanciò in aria una lattina di birra che ricadde al suolo con un tonfo. Dal rumore, si sarebbe detto che era piena.
dp n="8" folio="12" ? Il camion superò il primo «reggiposata» e poi il secondo, senza fermarsi.
«Che Shiva li faccia a brandelli» disse Arjun. Si grattò tra i cespugliosi capelli neri con le dita tozze. «Non c’è nemmeno bisogno che chiamiamo per radio il posto ausiliario. Questi si sentono per chilometri.»
«Che cosa dobbiamo fare?» chiese Shyam. Non erano agenti della polizia stradale e non erano autorizzati dal regolamento ad aprire il fuoco sui veicoli che non si fermavano.
«Ragazzi di campagna. Un gruppo di ragazzi di campagna.»
«Ehi» disse Shyam «anch’io sono un ragazzo di campagna.» Toccò la mostrina di stoffa cucita sulla sua camicia cachi: ERA, diceva. Esercito della Repubblica di Anura. «Questo non è un tatuaggio, ok? Finiti i miei due anni io me ne torno alla fattoria.»
«È quello che dici adesso. Io ho uno zio che è laureato. Fa l’impiegato statale da dieci anni. Lavora la metà di quello che lavoriamo noi.»
«E tu vali ogni rupia che ti danno» rispose Shyam sarcastico.
«Voglio solo dire che bisogna cogliere le opportunità che la vita offre.» Arjun indicò la lattina caduta sulla strada. «Ha fatto un rumore come se fosse piena. È di questa che sto parlando. Una vera pacchia, amico mio.»
«Arjun» protestò Shyam «dovremmo essere una squadra, lo sai? Noi due insieme, ok?»
«Non preoccuparti» sogghignò Arjun. «Ne darò un po’ anche a te.»
Quando il camion si fu lasciato alle spalle il posto di blocco, il guidatore rallentò e il giovane che viaggiava accanto a lui si sedette e si asciugò, poi indossò una T-shirt nera e si allacciò la cintura di sicurezza. L’aria pesante rendeva la birra puzzolente, disgustosa e appiccicosa. I due guerriglieri erano seri in viso.
Un uomo più anziano era seduto sull’asse di legno dietro di loro. Il sudore gli appiccicava i riccioli neri alla fronte e gli faceva brillare i baffi alla luce della luna. L’ufficiale dell’FLK era rimasto sdraiato, invisibile, mentre il camion passava indisturbato il posto di blocco. Ora premette il pulsante della sua ricetrasmittente, un modello vecchio ma solido, e ringhiò delle istruzioni.
Con un rumore metallico la porta posteriore del vano di carico si aprì in modo che gli uomini armati potessero avere un po’ d’aria.
La collina che si innalzava vicino alla costa aveva molti nomi e molti significati simbolici. Gli indù la chiamavano Sivanolipatha Malai, Impronta del piede di Shiva, per ricordare la sua vera origine. I buddhisti la chiamavano Sri Pada, Impronta del piede del Buddha perché credevano che fosse stata lasciata dal suo piede sinistro quando era venuto sull’isola. I musulmani la chiamavano Adam Malai o Collina di Adamo: i mercanti arabi del Decimo secolo affermavano che Adamo, dopo la cacciata dal Paradiso Terrestre, si fosse fermato là e fosse rimasto in equilibrio su un piede solo finché Dio non ebbe riconosciuto il suo pentimento. I successivi colonizzatori — prima i portoghesi e poi gli olandesi — avevano fatto delle considerazioni pratiche piuttosto che spirituali: il promontorio costiero era il luogo ideale dove costruire una fortezza e posizionare l’artiglieria per contrastare un eventuale attacco proveniente dal mare. La prima fortezza fu eretta sulla collina nel Seicento; nei secoli successivi la struttura fu ricostruita, senza prestare la minima attenzione ai piccoli templi che si trovavano nelle vicinanze. Ora sarebbero serviti all’esercito del Profeta come postazioni d’appoggio durante l’assalto finale.
dp n="10" folio="14" ? In condizioni normali il leader dell’FLK, l’uomo che chiamavano il Califfo, non si sarebbe esposto alla confusione e agli imprevisti di uno scontro armato. Ma quella notte non era come tutte le altre. Quella notte si faceva la storia. E lui doveva esserci. Inoltre, sapeva che la decisione di unirsi ai suoi uomini sul campo di battaglia aveva sollevato loro il morale. Era circondato da coraggiosi kagama che lo volevano a testimoniare il loro eroismo o, nel caso, il loro martirio. Guardavano il suo viso disteso, i suoi bei tratti colore dell’ebano e la sua mascella forte, scolpita, e non vedevano solo un uomo unto dal Profeta per guidarli verso la libertà , ma colui che avrebbe scritto le loro gesta nel libro della vita per le generazioni future.
E così il Califfo vegliava con i suoi fedelissimi, arroccato, in un punto della montagna accuratamente scelto. Il terreno era duro e umido sotto i suoi stivali dalla suola sottile, ma il Palazzo di Pietra — o, più precisamente, il suo ingresso principale — brillava davanti a lui. Il muro orientale era una vasta superficie calcarea, le cui pietre consumate e il cui ampio cancello dipinto di fresco erano immersi nella luce dei faretti, piantati nel terreno a poche decine di centimetri l’uno dall’altro. Scintillava. E lo chiamava a sé.
«Voi o i vostri uomini potreste morire questa notte» aveva detto il Califfo ai membri del suo comando qualche ora prima. «Se sarà così, il vostro martirio sarà ricordato, sempre! I vostri figli e i vostri genitori saranno santificati dal legame che hanno con voi. Saranno costruiti santuari alla vostra memoria! Il luogo in cui siete nati sarà meta di pellegrinaggi! Sarete ricordati e venerati in eterno come i padri della nostra nazione.»
Erano uomini pieni di fede, fervore e coraggio, che all’ Occidente piaceva etichettare come «terroristi». Terroristi! All’Occidente cinico, unica vera fonte di terrore nel mondo, questo termine faceva comodo. Il Califfo disprezzava i tiranni di Anura ma nutriva un odio profondo per gli occidentali che avevano reso possibile il loro governo. Almeno, i nativi di Anura capivano che avrebbero dovuto pagare un prezzo per il potere che avevano usurpato; i ribelli gli avevano insegnato più volte quella lezione, l’avevano scritta col sangue. Ma gli occidentali godevano dell’impunità . Ancora per poco.
Il Califfo guardava le pendici della collina intorno a lui e sentiva nascere la speranza: non solo per sé e i suoi seguaci ma per tutta l’isola. Anura. Una volta che si fosse riappropriata del suo destino, di cosa non sarebbe stata capace? Le rocce stesse, gli alberi e i poggi ricoperti di vigne sembravano incitarlo.
La Madre Anura avrebbe difeso coloro che la proteggevano.
Secoli addietro, i visitatori dovevano ricorrere alla musicalità della poesia per evocare la bellezza della sua flora e della sua fauna. Ma ben presto il colonialismo, alimentato dall’invidia e dall’avarizia, impose la sua logica feroce: ciò che era incantevole sarebbe stato violato, ciò che era affascinante sarebbe stato conquistato. Anura divenne un trofeo conteso dai grandi imperi marittimi dell’ Occidente. Nei boschetti di benzoino sorsero mura merlate; sulle spiagge, tra le conchiglie giganti, si nascondevano palle di cannone. L’Occidente aveva causato sull’isola molto spargimento di sangue ed esso vi aveva messo radici, diffondendosi nel paesaggio come un’erba tossica, che si nutriva di ingiustizia.
Che cosa ti hanno fatto, Madre Anura?
Sorseggiando il tè comodamente seduti, i diplomatici occidentali avevano tracciato linee che avrebbero portato il caos nella vita di milioni di persone, facendo dell’atlante del mondo l’album da disegno di un bambino.
«Indipendenza», l’avevano chiamata! Era una delle grandi bugie del Ventesimo secolo. Anche il regime rappresentava un atto di violenza contro il popolo kagama, a cui c’era un solo rimedio: altra violenza. Ogni volta che 15 un attentatore kamikaze eliminava un ministro del governo indù, i media occidentali pontificavano parlando di «uccisioni immotivate», ma il Califfo e i suoi soldati sapevano che nulla era più motivato. L’ondata di attentati più pubblicizzata — che aveva colpito obbiettivi civili nella capitale, Caligo — era stata ideata proprio dal Califfo. I furgoni erano stati resi a tutti gli effetti irriconoscibili con l’applicazione del logo contraffatto di un onnipresente spedizioniere internazionale. Un inganno tanto semplice! Stipati di fertilizzanti chimici inzuppati di gasolio, i furgoni consegnavano un carico di morte. Negli ultimi dieci anni questa ondata di attentati aveva suscitato condanne in tutto il mondo. Che ipocrisia! Era solo guerra contro i mercanti di guerra.
L’operatore radio capo stava sussurrando qualcosa all’ orecchio del Califfo. La base di Kaffra era stata distrutta e le sue infrastrutture di comunicazione messe fuori uso. Ma ora, anche se fossero riuscite a far trapelare la notizia dell’operazione, le guardie del Palazzo di Pietra non avrebbero comunque avuto speranze di ottenere rinforzi. Trenta secondi dopo l’operatore radio aveva un altro messaggio da riferire: la conferma che una seconda base militare era stata rivendicata dal popolo. Controllavano una seconda arteria di comunicazione. Il Califfo cominciò a sentire un brivido lungo la schiena. Nel giro di qualche ora l’intera provincia di Kenna sarebbe stata strappata a una dispotica stretta mortale. Il passaggio dei poteri sarebbe cominciato. La liberazione nazionale avrebbe brillato all’orizzonte insieme al nuovo sole.
Nulla, tuttavia, era più importante della presa dello Steenpaleis, il Palazzo di Pietra. Nulla. L’Intermediario l’aveva detto a chiare lettere e fino ad allora aveva avuto ragione su tutto, a partire dal valore del suo contributo. Si era dimostrato affidabile quanto le sue parole, anzi, di più. Era stato generoso, se non addirittura munifico, con i suoi armamenti e le informazioni in suo possesso, ugualmente importanti. Non aveva deluso il Califfo e il Califfo non lo avrebbe deluso. I suoi oppositori avevano risorse, sostenitori e benefattori; perché non avrebbe dovuto averne anche lui?
«È ancora fredda!» esclamò Arjun, deliziato, mentre raccoglieva da terra la lattina di birra. Era davvero gelida. Se la premette sulla guancia gemendo di piacere. Le sue dita lasciarono impronte ovali nella condensa ghiacciata, che scintillava in modo invitante nelle luci gialle al mercurio del posto di blocco.
«È davvero piena?» chiese Shyam dubbioso.
«Intatta» rispose Arjun. «Pesante, piena di salutare bevanda!» Ed era davvero stranamente pesante. «Ne verseremo un po’ per gli antenati. Qualche lungo sorso per me e le gocce che rimarranno per te. So che non ti piace questa roba.» Le dita tozze di Arjun grattarono la lattina alla ricerca dell’anello della linguetta, poi lo tirarono con decisione.
Il suono smorzato del detonatore, simile a quello prodotto dai coni con cui si lanciano le stelle filanti a carnevale, si sentì qualche millisecondo prima dell’esplosione. Praticamente un tempo sufficiente perché Arjun potesse pensare che era stato vittima di uno stupido scherzo e perché Shyam potesse pensare che i suoi sospetti — anche se si erano fermati al livello non completamente conscio di una vaga inquietudine — erano giustificati. Quando i trecentocinquanta grammi di plastico esplosero, i pensieri di entrambi ebbero fine.
Lo scoppio fu un rovinoso attimo di luce e rumore che si espanse immediatamente in un ovale immenso e infuocato di distruzione. L’onda d’urto distrusse i due «reggiposata» e la garitta al lat...
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