Racconti perduti
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Racconti perduti

  1. 738 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Racconti perduti

Informazioni su questo libro

Uno schizofrenico che immagina di uccidere il Diavolo, uno straccione acculturato che trova pornografico il David di Michelangelo, un francese che si sente monaco medievale, gli incontri quotidiani tra un escursionista e un ratto superbo, il funerale di un vivo in una città di morti. Ma anche il ritratto della donna amata, delle famiglie in vacanza, di qualcuno che in Scozia scopre l'importanza simbolica di campanili e campane.I racconti di Andreoli ci presentano un mondo variegato, a metà tra il fantastico e il realistico, in cui pazzi e sani trovano lo stesso spazio.Tutto il "materiale umano" così familiare allo psichiatra, diventa nella narrazione uno straordinario strumento per parlare agli uomini di loro stessi: ogni personaggio e ogni momento di vita è guardato sotto la lente rivelatrice di un particolare comportamento – strano o banale, folle o sano – che ci rende la ricchezza di sfumature del mondo, e la labilità dei confini in cui siamo soliti inquadrarlo.Un incredibile affresco corale al contempo divertente, affascinante e inquietante, che andando oltre la dimensione psicologica si offre come chiave per la comprensione di noi stessi in quanto singoli e membri di una società ormai globale.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
Print ISBN
9788817039604
eBook ISBN
9788858626993

PRIMA PARTE

SCOZIA, EMPTY WORLD

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CAMPANILI DI PIETRA

Attorno alla baia di Inverkirkaig in Scozia si alzano importanti cime montuose, creando un insieme strano di mare e monti, un’atmosfera d’acqua e di roccia.
Conival e Ben More incutono rispetto e richiamano luoghi a me cari nel cuore delle Dolomiti.
Quinag, Cul Mor, Cul Beag impongono scarponi, zaino e giacche a vento, e stimolano la voglia di camminare e di faticare per poi godersi un panorama esclusivo.
Sono giunto in questo luogo del nord della Scozia, la contea di Sutherland, proprio per la voglia di monti e di mare. Una situazione ideale per uno che deve controllare un’ipertensione arteriosa che si era resa inadatta alle Dolomiti dove abitualmente andavo per scappare dal caldo della città.
Una sintesi meravigliosa: dalla cima più alta si vede il mare e dall’isola più sperduta della costa si scorgono le montagne. Una combinazione che rende fredde le acque del mare e dà alle montagne, seppure modeste, la serietà delle Alpi. Girando le spalle alla baia di Inverkirkaig, posso incominciare a salire tra prati coperti di campanule, erica, cardi spinosissimi, knautie arvensis, ma c’è anche il lotus cornicolatus. Incontro il cervo rosso, talora l’aquila reale che sembra emigrata dal Pordoi, dal Piz Boè.
Mentre salgo, il passo si fa lento e continuo; seguo sentieri, segnalo a Laura, mia moglie, un passaggio che richiede prudenza, mostro uno scenario unico. Una liturgia che fa sentire un po’ eroi.
Ci fermiamo davanti a un fiore, ad ammirare un gregge di pecore o di vacche montane che qui in Scozia danno una carne famosa in tutto il mondo.
Nella borraccia si porta un poco di whisky che sa di Scozia e profuma proprio di questa terra da cui si estrae il peat che affumica il malto da cui si ottiene il «nettare».
Naturalmente salendo si parla del tempo, e se ne può parlare all’infinito perché è di una variabilità che non ammette previsioni.
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E non si vede l’ora di arrivare per aprire il sacco e fare una colazione spartana, guardando a valle dove si vede sempre il mare. Qualche casa o piccoli villaggi perché il Sutherland è una terra vasta con poco più di diecimila abitanti e quindi ci si perde nella natura, tra monti e mare e si ha l’impressione di essere fuori del mondo, al di sopra del mondo.
Viene voglia di cantare, ma mi limito a ricordare i canti degli alpini e sento la tristezza della guerra.
Un’aerea magica per capire la storia del pianeta. Paesaggi che risalgono a prima dell’uomo, senza però un solo segno della sua presenza. È questa la sensazione più forte: sentire che l’uomo non è necessario, che è fuori di questo mondo e di questa natura.
La montagna già di per sé mostra quanto egli sia piccolo.
Quando su una parete di roccia sei attaccato a una corda che ti lega a un altro, scompaiono e diventano ridicoli la ricchezza e il potere.
Il Surherland, the empty world, il mondo vuoto, vuoto di uomini. Da lassù osservo questo nulla.
Talora avverto che qualcosa mi manca, sento un’assenza, ma non so in cosa consista e non è certo nostalgia di casa.
L’ho capito un giorno, come in una folgorazione: mi mancano i campanili.
Ogni paesino delle Dolomiti lo si riconosce per il campanile che si alza a richiamare la grandezza di quel Dio che ha fatto i monti e il mare, e sono convinto che egli stesso talvolta con un grande zaino e un pezzo di lardo salato e del pane vecchio, e certo con una bottiglietta di grappa, canta su un sentiero di montagna, e non i Salmi o la pazienza di Giobbe.
Dalle cime delle montagne di Scozia non vedo mai un campanile. Se si scorge qualche villaggio, è piatto.
Qui in Scozia ho una gran voglia di campanili. Che magnifica invenzione architettonica. E una campana chiama e parla in nome di Dio, la voce che si propaga nella valle ma che sale anche sui sentieri di montagna.
È tutto razionale qui, anche il Padre Eterno è stato messo dentro il buonsenso di una civiltà della ragione; non sanno che la fede è follia e che Dio se c’è è un matto che ha fatto un uomo per poi sentire egli stesso il bisogno di salvarlo. Un matto che è venuto sulla Terra e che per compiere il più grande dei miracoli, la resurrezione che mostra la sua divinità, ha avuto bisogno dei peccatori, degli uomini che lo hanno maltrattato e crocifisso. Se questo è Dio, le chiese fredde come uffici dell’anagrafe e come un’agenzia per il viaggio dopo la morte, sono tristi e per questo mancano anche del campanile. Chiese senza voce, un Dio che ha perso la capacità di parlare.
Quando sento una campana mi si apre il cuore e anch’io accendo la speranza e sedo le mie paure.
Ho voglia di campane, di vedere campanili, e anche qui in Scozia quando salgo sulle montagne ormai li innalzo con la mia fantasia e immagino campanari che tirano la fune per far sbattere il batacchio fino a perdere le forze. Non serve credere in Dio per amare le campane, è importante sentire che potresti credere e che devi cercare di credere. Cercare un Dio è già un dono straordinario, non importa se poi ci aiuta a non perderci in un orizzonte di mercanti e di teatri di marionette. Dalle montagne del mio Trentino vedevo campanili dappertutto, qui non ci sono. E mi mancano.
Qui nel Sutherland e nella mia baia a Inverkirkaig passo ore intere in contemplazione di qualche uccello di mare, del prato di erica e del movimento del mare e del vento, che borbottano dialoghi infiniti sul senso del mondo e persino su questo strano animale che sa sorridere.
Ma mi manca una campana e l’ascolto nella sua assenza, e così sento quella di Bellamonte e più sotto quella di Predazzo, e poi lassù quella della chiesetta di Passo Rolle.
La campana aiuta a vincere la paura, porta lontano dal mondo che fa paura. La paura ha bisogno di una campana. Quando suona è bello inginocchiarsi e pregare, non è importante chi e come. Il gesto, l’inginocchiarsi è preghiera, il riconoscere il proprio nulla anche se si è qualcosa, il senso, il limite dell’uomo, la sua fragilità. Domande che non trovano risposta. E nella non-risposta c’è Dio.
La fede non sta nel trovare Dio ma nel cercarlo sempre, e chi cerca immagina un Essere e se non lo trova continua a immaginarlo e così lo fa esistere. Se lo dovesse trovare diventerebbe un Dio delle regole, degli imperativi e persino della punizione. Un Dio giudice che ha bisogno di un inferno che lo renderebbe tremendo, un anti-Dio.
Nella non-risposta c’è anche il nulla con cui finisce ciò che dal nulla è iniziato. A me manca il coraggio dell’eternità e mi parrebbe di dovere chiedere a Dio, se mai ci fosse, di riportarmi nel nulla da cui mi ha tratto, perché un tempo per sempre mi terrorizza, anche fosse di gioia. Mi pare che una gioia eterna sia un dolore infinito.
Se la risposta è l’ignoramus, allora ha senso anche l’affannarsi nel mondo, rotolando massi che poi ritornano esattamente là dove sono stati tolti. Ha senso il non pensare correndo convinti che la vita sia corsa e null’altro. Ha senso ridursi all’empirismo pratico, lo stesso che segue forse un airone che se non si chiede nulla, tuttavia ogni giorno compare in questa baia a procurare cibo per sé e per il nido. E verrà fino a un mattino quando non si sveglierà più, ma non saprà mai di essere mancato. Se uno non è non deve pescare né per sé né per la prole. Non c’è più e il mondo prosegue senza quell’airone, senza quell’uomo e addirittura può continuare senza tutti gli aironi e senza la presenza della specie umana, come accadeva quando ancora non c’erano.
Nulla si può conoscere oltre all’esserci senza sapere perché. Esserci è comunque una condizione che porta a inginocchiarsi non appena suona una campana e pregare un Dio che non c’è.
Si può pregare davanti a un campanile, persino di fronte a questa baia di Inverkirkaig che sa di cattedrale, di una cattedrale della natura, ma non posso nascondere che mi vengono in mente, abitando qui da tante settimane ormai, le chiesette che si accompagnano ai campanili, dove entro sovente e mi soffermo sulle pale di altare, che sono di una bellezza così grande da far credere nel Dio a cui sono state destinate. Un Dio delle pale d’altare che c’è anche se non ci fosse.
Quelle chiesette buie con una cripta che sa di raccoglimento e di confessionale, fatte per una relazione diretta con Dio, lontano da intermediari troppo limitati. Là, nel raccoglimento e nel buio, guardo gli occhi grandi dei beati e dei santi che il tempo non ha cancellato, anche se sovente hanno perduto il colore.

Amo la solitudine, e anche in chiesa voglio essere solo, sentire il mio silenzio e semmai la voce di un Dio che parla a me e non a tutto un popolo.
La preghiera come secretum, il vero privato sta nel rapporto con Dio.
Qui nella mia Scozia, in questa civiltà della natura, mi manca il Dio delle chiese. Le chiese sono delle trappole di Dio: se non lo si trova qui dove la gente si inginocchia e prega e chiede aiuto, non esiste in nessun altra parte.
E in queste trappole del Signore amo andare.
Qui in Scozia le chiese sono piene di vuoto.
Preferisco un pub che pullula di uomini alla ricerca nell’ebbrezza forse proprio di un Dio che non si trova e che non può parlare attraverso la voce delle campane.
Ma tornerò, per andare alla Porziuncola. Non mi piace Santa Maria degli Angeli che la contiene, sa di palazzi e di potere. La chiesa deve essere piccola, allora arriva il Signore, allora non si resiste alla trappola dell’amore e si gode unendosi a lui.
Ho bisogno di una chiesa, ma qui non c’è. Ho grande nostalgia dei campanili. E quando torno in Italia per un po’ di tempo andrò in monastero, nel monastero dei non credenti.

CREPACCI D’ACQUA

Il pericolo fa parte della montagna e il dotarsi di esperienza e di prudenza è la dote di chi la ama. Senza il pericolo perderebbe in gran parte di fascino, come per l’avventura che deve sempre concludersi bene, ma tra le possibilità di farsi disgrazia. E raccontando un’avventura si parte proprio dal pericolo.
Nelle gite in montagna i sentieri sono il luogo dell’incertezza, perché talora sfiorano un burrone, si stagliano su un dirupo. E giù si vede roccia e là in fondo ancora roccia.
Giunto su una cima, sento il gusto di espormi guardando in fondo la morte, e pensando che basterebbe un attimo per buttarsi e un attimo per finire.
La vita in montagna è legata al vento, a un pensiero di morte.
C’è una cronaca di montagna piena di croci e alcune sanno di volontà e non di disgrazia. Una distinzione che non è facile, se si ammette che in noi ci siano delle intenzioni o dei desideri di cui non si ha consapevolezza.
Molti incidenti stradali sono suicidi mascherati.
Se girava il volante a sinistra si sarebbe salvato, lo ha ruotato a destra ed è morto, e non poteva avere il tempo per una decisione consapevole. Semplicemente si è mosso seguendo una decisione inconscia, quella di morire. Incidente? No, suicidio.
Nel Sutherland i pericoli di precipitare sono rappresentati dalle scogliere che terminano a picco nell’Oceano Atlantico o nel Mare del Nord. Un crepaccio che porta nel mare, direttamente dentro le onde che si vedono sbattere contro la roccia e farsi effervescenti e bianche.
Un burrone di mare, un salto che talora può arrivare ai quattrocento metri e che non permette a nessun olimpionico di sopravvivere perché il vento ti sbatte contro la pietra e dopo averti ammazzato ti lascia proseguire, morto, nel mare.
Anche qui faccio sporgere il capo nel vuoto mentre il resto del corpo è prono, piantato a un passo dal baratro. E vedo il mare che si colora di morte e non riesco più a coglierne la poesia, avverto l’urlo disperato di chi ha tempo solo per dichiarare di voler vivere ma nessuno lo sente. E penso, mentre precipito.
Sono caduto molte volte in burroni di roccia, una sfida della mia mente a una morte da cui però sfuggivo attaccandomi saldamente. Molte volte ho fatto tuffi di cui non ho avvertito il freddo di quelle acque che si arrossavano della mia fine e del mio sangue. Qualche volta mi precedeva un sasso. Lo seguivo con lo sguardo mentre sbatteva, e mi pareva persino di sentirlo entrare in acqua gridando disperato.
Amo le prove di morte e odio la morte. Come se volessi sfidarla con i pensieri sapendo di esserne succube nella mia concretezza, poiché sono fatto, come tutti gli uomini, di morte. Mi pare in questo gioco di poterla battere, sostituendomi alla sua decisione incomprensibile e nello stesso tempo di sfidarla mentre io stesso divento quella morte che odio.
Una strana metamorfosi in cui io divento ciò che mi spaventa e tendo a dirigerla, perché io ho deciso di finire l’esistenza.
La morte alla dipendenza del mio voler morire. E mentre precipito, sento il mio sangue raggelare. Una prova di morte che si è fatta spettacolo. Una prova d’orchestra senza farsi sinfonia. Un Dies Irae mancato.
Mi piace buttare i sassi e seguirli nella loro morte. Vorrei conoscerla senza mai esperirla. Uno strano legame con questa indicibile fine, che mi porta sempre a cercare un precipizio per poi guardarmi mentre cado e mentre muoio.
Forse questa è l’origine anche dei sogni, di quando si cade nel vuoto e sovente non si raggiunge mai il fondo, e così ci si sveglia mentre ancora si precipita e ci sia attacca alle lenzuola e si chiede aiuto.
Se fossi sicuro di non rompermi, ci proverei perché le prove di morte hanno un fascino macabro ma sanno d’avventura.
Forse si tratta di una modalità per capire meglio ciò che sembra assurdo eppure sarà la cronaca di ciascuno.
Ho conosciuto in ospedale tanti che si trovavano a pochi passi dal precipizio e sempre, pur ammettendolo, non ne erano convinti. Si pensa a un altro minuto, e poi a un altro ancora e non si vuole cadere mai e quando avviene è un esito inatteso.
Inattesa è sempre la morte anche quando è sicura. Anche per chi sta bene e non è in ospedale, perché la morte non è una malattia del corpo, ma semmai un difetto della vita. Un difetto di origine.
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E allora la si sfida e io lo faccio spesso in montagna, sulle Dolomiti, tra i crepacci in cui mi vedo arrivare in fondo come un bambolotto di pezza. Qui immaginandomi invece tra le onde che violente mi scagliano contro la roccia.
Qualche attimo e sono finito, così vicino alla morte da doverla vedere in volto e forse carpendone il segreto; ma non servirà perché in fondo arrivo morto e il mio corpo di pezza verrà spinto nell’acqua cadavere.
Quando sono morto, mi piace immaginarmi in balia del mare e poi scappare e scivolare in un’aerea più tranquilla dove i pesci vengono a pasteggiare e mi trovano morto. Mi guardano curiosi, poi mi girano attorno, poi mi osservano in volto e vedono quello sguardo morto che sa ancora di vita e quell’occhio aperto mentre l’altro è rimasto attaccato alla roccia.

Nelle prove di morte, sulle Dolomiti, mi piaceva seguire il lavoro dei soccorritori, l’elicottero che volteggiava sopra di me, immaginavo persino i camosci venire a curiosare attoniti. Mi piaceva giungere nella stazione di montagna con la gente che cercava di riconoscermi mentre ero poco più di una polpetta umana. Eppure qualcuno ne riconosceva lo stile, il sorriso e qualche familiare mi vedeva identico come fossi ancora vivo.
Mi piaceva sentirmi ricomporre dai parenti, per mettermi tutto intero dentro una bara, memori inconsapevoli del mito di Osiride e della fatica di trovare il suo pene. Immagino di renderlo introvabile per un po’, ma poi farlo uscire eretto. Cadavere in erezione e allora indurre il bisogno di nascondere quella oscenità e quindi di fare presto a chiudere la bara e celebrare un funerale in montagna che è sempre meraviglioso perché vengono a cantare gli alpini e le voci sui morti si lacerano di commozione e di pianto. I cadaveri si fanno fiore di montagna, una stella alpina.
Data l’erezione il mio destino è di diventare un giglio martagone rosso e con il più bel pistillo della montagna, una cosa da museo.
In Scozia dopo il mio precipitare, la fantasia mi circonda di pesci, e li vedo interrogarsi su cosa mai sia quell’oggetto strano e orr...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Racconti perduti