Il matto inventato
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Il matto inventato

  1. 240 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il matto inventato

Informazioni su questo libro

La follia appartiene all'uomo: una impronta della specie, dell'esistere. Vittorino Andreoli Racconti, storie, vicende che si svolgono in quell'agghiacciante regno dell'assurdo che è molto spesso la realtà quotidiana, nella quale ciascuno di noi coltiva – apertamente, o in segreto – la propria follia, il proprio 'mal d'essere'. C'è – in queste parabole – chi scopre un insospettato strumento d'amore e chi, dietro una corazza apparentemente inscalfibile, cela segrete inconfessabili debolezze; c'è chi dispone di maschere per mille occasioni e chi crea un mondo virtuale di immagini schiacciando i pulsanti di un telecomando. Uomini che improvvisamente rinunciano al mondo per diventare barboni, prostitute che si raccontano favole per vivere, alcolizzati e drogati in cerca di un sogno impossibile… Nessuno dei protagonisti e dei personaggi di questi racconti ha un nome che lo identifichi: sotto la personale sofferenza si cela e si rivela il volto di ognuno, circondato dalla follia e folle lui stesso. Vittorino Andreoli si accosta alla 'follia quotidiana' rinunciando alla schematica terminologia clinico-scientifica per mostrare la componente umana che la attraversa. Ne nasce un libro intrigante e inquietante, che rimanda a ciascuno di noi. Un'accesa tensione intellettuale che strappa il velo all'ipocrisia dell'apparente normalità.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
Print ISBN
9788817016483
eBook ISBN
9788858627464

Follia da strada

Le metamorfosi sono difficili, forse impossibili. Eppure mi sono stancato di fare lo psichiatra, di vagare tra la follia e di raccontarla con il linguaggio della cartella clinica: un genere troppo angusto per parlare dell’uomo. E allora ho nascosto il camice bianco, ho abbandonato i manicomi e ho iniziato una vita da narratore.
Mi sono vestito in modo nuovo, ho frequentato posti prima evitati, dentro un tempo scandito diversamente.
Ho riempito fogli bianchi dal basso all’alto, a zigzag evitando lo stile che mi aveva ancorato ai diari clinici: «Non ha dormito, si muove agitato nel reparto e di tanto in tanto corre come dovesse fuggire da un persecutore».
Insopportabile, inutile.
Tutti i libri di psichiatria sono finiti in cantina sostituiti da opere letterarie, di poesia.
Sono cresciuto al tempo delle due culture, quando scienza e letteratura erano due entità distinte e incomunicabili.
Appartenere all’una significava essere esclusi dall’altra; dedicarsi all’una e flirtare con l’altra era un difetto che la pedagogia doveva correggere.
La letteratura rappresentava per me una grave trasgressione, un peccato mortale.
La colpa mi riportava dentro il mio stile ordinario: «Nato a termine da parto eutocico, ha avuto allattamento artificiale. Sviluppo psicofisico regolare. Parla a due anni; controlla urina e feci a tre. Fin dalla nascita guarda la televisione per tre ore il giorno. Dall’età di dodici anni si masturba in modo smodato, la madre se ne preoccupa e interpella un sessuologo...».
Ora finalmente leggo solo pagine sublimi. «Un’atmosfera di morte sovrasta la piazza buia, nella notte. Immobile, egli guarda le case che la circoscrivono e percepisce solo quelle finestre illuminate, quadri di luce nel buio del mistero. »
Stile inavvicinabile anche a una impietrita relazione scientifica. «Sono entrati nella sperimentazione venticinque soggetti di entrambi i sessi e della età di trentadue anni più o meno sette. Tutti erano affetti da sindrome depressiva unipolare, diagnosticata con i criteri della Associazione psichiatrica americana. La gravità, misurata con la Scala di Hamilton, era superiore a ventidue. La popolazione risultava omogenea anche sotto il profilo sociale: tutti bianchi con quoziente intellettivo tra 90 e 110, eterosessuali puri. Sono stati sottoposti a trattamento con...»
Come non voler abbandonare un simile squallore e compiere un salto qualitativo tanto evidente?
Così si è avviato il processo della mia trasformazione e la genesi della mia narrazione.
Devo ammettere che qualcosa nella pozione magica non ha funzionato. Non si è cancellata, per esempio, la mia impronta psichiatrica e, pur avendo evitato attentamente i manicomi per frequentare le strade della città, ho ritrovato la follia nell’ordinario come se la mia percezione fosse ormai fissata a cogliere solo questo aspetto dell’esistenza e il mio sguardo a vedere solo il matto.
Ho trovato un manicomio fuori del manicomio, una follia all’aperto e nel mio travestimento ho continuato a fare, con un linguaggio nuovo e in piazza, lo psichiatra.
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Uno psichiatra che non ha più il coraggio di curare la follia e la vuole raccontare, quasi fosse ancora troppo misteriosa per poterla "giustiziare": parte ineliminabile dell’uomo, di questo strano animale che cammina sul pianeta.
Ho trovato una follia da strada, incorporata nella normalità, e ho appeso nel grande manicomio della città diciannove storie per una esposizione dedicata alla storia dell’uomo e a quella di ciascuno di noi. Frammenti d’un volto folle capace sempre di attrarre e spaventare, di affascinare dunque.
Sono incapace di raccontare il ben-d’essere, colpito dalle maschere della sofferenza.
Resto uno psichiatra, circondato dappertutto da follia; forse, folle io stesso.
È questo psichiatra il protagonista vero del libro: come un’ombra avvolge ogni storia e ogni altro personaggio.
Ecco perché gli attori dei racconti non hanno nome.
Senza nome, anche perché la follia non appartiene al singolo ma all’uomo: una impronta della specie o più semplicemente dell’esistere, Senza nome, perché nel folle si può rappresentare la storia di ognuno.
Uno psichiatra vede il mondo in maniera particolare: non solo lo osserva, ma lo interpreta decodifìcandone le espressioni concrete. È convinto che esista sempre una divergenza tra l’apparenza e ciò che invece il visibile nasconde. Così egli cerca i vissuti, i desideri e trova nuovo persino il banale, problematico ciò che si ripete identico.
Quando l’interpretazione diventa creatività, egli descrive un mondo irreale, inventato: i casi di cui parla sono metafore della cartella clinica che gli appartiene e la sua visione del mondo, il trattato della propria follia. Così racconta la propria paura, le proprie sofferenza e diventa un letterato del dolore.
Ho una fantasia da manicomio, persino i miei sogni appartengono al dramma. Sento dolore anche dove si scatena l’orgia; vedo il pianto anche in uno spasimo d’amore. Vivo un mondo che si agita insensatamente; che desidera ciò che ha appena eliminato.
Quando un bambino ride, penso subito a un altro che piange o muore; quando constato il successo, sento la sopraffazione che impedisce ad alcuni di sopravvivere.
Nel manicomio della mia città, sulle piazze, nelle case, ritrovo il mondo che è dentro di me.
Resta, dunque, il dilemma se le esistenze appese in questa galleria letteraria siano parte d’una cartella clinica dell’umanità o il resoconto della mia follia.
Ho pensato per la prima volta a questo strano sacerdote, lo psichiatra, da adolescente, quando percepivo il demonio dappertutto e la sera spègnevo la luce soltanto dopo aver controllato che non si fosse nascosto sotto il letto e dopo aver recitato le giaculatorie dei santi, per esorcizzarlo.
Ho vinto l’ossessione del diavolo, ma sono divenuto psichiatra. Nella mia esperienza di fanciullo, niente era più concreto d’un demone, così come per chi delira nulla è più corporeo d’una allucinazione persecutoria.
Ciascuno vede ciò che non cancella; si può escludere quasi tutto riducendo il mondo a pochi suoi frammenti.
La mia percezione privilegia la follia, e in questa galleria l’ho rivestita di parole per trasformare uno psichiatra in un narratore.

La bottiglia dell’amore

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Era appena entrato nella Bottiglieria Perlini, la più antica della città.
Una scritta in caratteri d’epoca ne indicava la nascita: millenovecentoventuno.
Era organizzata come una moderna libreria, con zone specializzate e così ben fornite da includere generi letterari minori: di qualità, naturalmente.
Dietro i vecchi banconi di rovere c’erano tre generazioni dei Perlini: una aveva barba bianca ben curata, un’altra vestiva uno spezzato di lana inglese e la terza aveva il volto di un giovane che solo saltuariamente, per il momento, visitava quel santuario dei vini per imparare i segreti del nonno e del padre.
Salutarono il cliente contemporaneamente, accennando un inchino che sapeva di riverenza.
«Vorrei scegliere uno champagne.»
«Da questa parte troverà ciò che desidera. Ha già una preferenza?»
«Certo, ma vorrei ammirare, per un momento, questa stupenda collezione. Posso?»
«Naturalmente. Noi rimarremo a sua disposizione.»
Aveva ora davanti a sé una sterminata parete di bottiglie. Dai piccoli abitacoli in cui ciascuna era distesa sporgeva solo il collo rivestito da stoffe di straordinaria eleganza, che lo avvolgevano evidenziandone un’anatomia da manequin. Vide un collo esile, che gli richiamò Morandi e la grazia delle sue bottiglie — talora solitarie, talora raggruppate in un insieme raffinato e ordinario, popolare e ricercato.
Avvertì il forte desiderio di far alzare una di quelle bottiglie e di tenerla diritta in mano. Si girò, come se stesse per compiere una trasgressione e temesse d’essere visto.
Incontrò lo sguardo e la barba del nonno Perlini che, come se si sentisse chiamato, gli si avvicinò e, senza aspettare domanda, estrasse la bottiglia badando a non scuoterla e, mantenendola sdraiata, gliela mise in mano: «Il desiderio d’una bottiglia è di rimanere a letto fino al momento d’essere vuotata».
Quindi si ritirò lasciandolo di nuovo solo e con una Veuve Clicquot in mano.
Avrebbe dovuto scoprire l’anno di produzione, l’eventuale appartenenza a una réserve. Egli però ne analizzò la forma, il modo in cui il collo si allargava dolcemente nel corpo anch’esso rivestito d’una etichetta di haute couture. "La bottiglia è un oggetto straordinario" pensò, mentre con la mano destra la esplorava delicatamente, come se temesse di deturparla.
Era sabato pomeriggio e per tutta una settimana aveva riempito i suoi pensieri di bottiglie. Nel loro disordinato scorrere, ritmicamente affiorava una bottiglia, ed egli vi si soffermava come si trattasse d’un pensiero da meditare, per scoprirne sempre nuovi significati. Erano stati stimolati il sabato precedente da una bottiglia di Amarone che aveva ricevuto in dono da un contadino, piccolo produttore di vino. Rispetto alla Veuve Clicquot che ora teneva in mano, quell’esemplare era mostruoso: aveva un collo tozzo impiantato su un corpo deforme. La Veuve Clicquot era trasparente, animata da spiritelli sferici che si muovevano verso l’alto; l’Amarone aveva un colore scuro, sanguigno, che al confronto ricordava un demone. Sul suo fondo si erano depositate macerie, il tappo era sgraziato, infilato, evidentemente, senza la delicatezza che doveva aver chiuso l’apertura di quella stupenda bottiglia di Veuve Clicquot.
Se ne stava innamorando e forse avrebbe già potuto acquistarla, se non fosse entrato nell’enoteca con l’idea di un Dom Pérignon.
Depose, dunque, nel suo abitacolo la Veuve Clicquot, non senza avvertire una sensazione sgradevole di distacco, in modo che il suo collo sporgesse più di tutti gli altri, per essere certo di poterla ritrovare facilmente.
Il Dom Pérignon è un mito tra le bottiglie, non solo perché porta il nome d’un uomo di Dio, di quel monaco benedettino dell’abbazia di Hautvillers che ha introdotto nel 1745 il metodo champenois e così generato un nuovo philum vinicolo, ma soprattutto perché è una presenza obbligata nelle grandi collezioni.
Ora l’aveva in mano: Champagne Cuvée Dom Pérignon, vintage 1982. L’etichetta ha la forma d’uno scudo d’antichi cavalieri. Il collo incappucciato di grigio scuro è severo anche se un po’ funereo. Gettò un’occhiata alla Veuve Clicquot appena deposta e ne vide il cappuccio dorato che, al confronto, gli sembrò scintillare. Si concentrò con maggiore decisione sul Dom Pérignon e lo esplorò muovendo entrambe le mani. S’accorse d’una corpulenza straordinaria che si perdeva in un collo sottile. Il corpo, decisamente maschile e possente, svaniva oltre le spalle.
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Non aveva dubbi: le bottiglie potevano essere femminili come la Veuve Clicquot o maschili come il Dom Pérignon, del resto portavano nomi di genere differente.
Questa considerazione lo condusse a riesumare la Veuve Clicquot, in una sorta di spontanea preferenza, ma col bisogno di una verifica razionale, che scaturisce dal confronto.
Aveva il Dom Pérignon nella mano destra e la Veuve Clicquot nella sinistra.
Risultò evidente che il collo del Dom Pérignon è piccolo, troppo piccolo, mentre la Veuve è più slanciata, più alta di almeno un centimetro e con l’insieme collo-corpo graduale e dolce. Risaltavano poi i suoi colori da festa: il giallo primaverile ed esplosivo della campagna di Arles vista da Van Gogh. Aveva l’impressione anche, soppesando le due bottiglie, che il Dom Pérignon fosse più pesante e, comunque, che risultasse più facile stringere la Veuve Clicquot.
«È un dilemma difficile,» affermò il vecchio Perlini avvicinandosi di nuovo «non diverso dallo shakespeariano "essere o non essere". Sono vini differenti sia per la vigna da cui provengono che per la modalità con cui l’uva viene lavorata.»
A quel punto, con atteggiamento tipico di color che sanno, inforcati gli occhiali che fino allora gli ciondolavano sul petto, avvicinò lo sguardo alle bottiglie che il suo cliente teneva gelosamente nelle mani; con sicurezza indicò "Reims" sull’etichetta della Veuve Clicquot e "Épernay" su quella del Dom Pérignon e continuò: «Come lei sa, Reims è, sia pur di poco, più a nord di Épemay e ciò incide sul clima e sulla vite, aggiunga che è anche spostata a occidente...».
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Aveva iniziato un’approfondita lezione che tuttavia non destava alcun interesse nel suo interlocutore, concentrato sulla forma e non sul contenuto di quelle due bottiglie. Guardava i loro colli e le soppesava ora muovendo la mano destra ora la sinistra e spesso passandole dall’una all’altra.
«Il remuage, signore, è il momento centrale della produzione, richiama alla mente la grazia d’un balletto, i movimenti della mano in un concerto per pianoforte...» Parlava avvitando tra rumori d’ossa il vecchio corpo in una figura ambigua e sgraziata. «Il remuage del Dom Pérignon è orario e segue, dunque, il corso del sole, mentre...»
L’interruppe con un deciso: «Mi dia la Veuve Clicquot».
«Le è sufficiente una bottiglia?»
«Sì, grazie... Vorrei proprio questa bottiglia.»
«Ma non è confezionata.»
«Non importa, grazie.»
Uscì dall’enoteca con la Veuve Clicquot in mano. La conosceva bene ormai e aveva la sensazione di qualche cosa che gli era appartenuta da sempre, benché non sapesse come tenerla, dal momento che in posizione orizzontale, come aveva suggerito il signor Perlini, gli sembrava una sconcezza e se ne vergognava. La mise nella tasca della giacca e, attraverso quella dell’impermeabile, la palpava di tanto in tanto con curiosità e piacere. Era la prima volta che camminava con una bottiglia di champagne, con la Veuve Clicquot Ponsardin.
A parte questa novità, la giornata aveva le caratteristiche proprie di tutti i sabati: non andava in ufficio e perciò si sentiva libero, anche se in realtà ripeteva sempre le stesse operazioni.
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Il sabato era, poi, il giorno dell’amore. La cena terminava esattamente alle venti e trenta, occorreva un quarto d’ora perché sua moglie mettesse i piatti nella lavastoviglie e riordinasse la tavola, tempo che egli occupava per fare la doccia. Quella del sabato era particolare poiché le sue zone erotiche venivano lavate con grande cura: ogni buco e naturalmente il pene, ripulendone i numerosi anfratti.
Usciva dal bagno con la vestaglia di cotone rosso, proprio mentre entrava sua moglie per fare doccia e bidet.
Erano sposati da ventidue anni e la frequenza dell’amore aveva perso i ritmi eroici dei primi anni per stabilizzarsi in quell’incontro del sabato sera, costante da qualche anno. Una serata non di fuoco, ma piacevole anche perché si arricchiva di fantasia e di gesta che ora erano parte del ricordo.
La cena non aveva preso più tempo del solito, nonostante lo champagne avesse rappresentato una novità o, meglio, una stranezza. Non ricorreva alcuna celebrazione. I compleanni, nel mese scorso, si erano consumati senza la Veuve Clicquot che quella sera aveva, invece, troneggiato con la sua linea dolce e armoniosa e quell’etichetta dorata che aveva conferito un tocco di ricchezza a una consuetudine ormai scolorata.
Riso al parmigiano, bresaola con radicchio trevigiano, una mela e il caffè. Di solito bevevano acqua minerale gasata e un mezzo bicchiere di quell’Amarone che bisognava terminare poiché in autunno si dovevano restituire le bottiglie vuote al contadino che le riempiva generosamente a perenne ringraziamento d’una pratica in Comune condotta a buon esito grazie al suo interessamento.
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A fatica riuscirono a finire la Veuve Clicquot e né lui né la signora ne avevano esaltato il profumo, il perlage, il sapore brut... Entrambi la guardavano, la fissavano e avrebbero, semmai, potuto esprimere un giudizio estetico su quel collo forte e delicato, su quei colori caldi e persino folli.
Erano rimasti muti durante la cena, come ogni sabato, muto anche il televisore, per dare spazio ai bisogni della, coppia che si preparava all’amore.
Si era portato la bottiglia in bagno e sotto la doccia la lavava con particolare cura riprovando quella strana sensazione d’appartenenza. L’accarezzava e si divertiva ad agitarla cercando di ottenere ancora il botto di quando l’aveva stappata e osservando quella violenta e incontenibile fuoriuscita di spuma che ora era fatta di schiuma da bagno. Considerò l’opportunità di rimuovere dal collo il rivestimento che terminava con un orlo tagliente, ma non ne aveva il coraggio, per paura d’una metamorfosi obbrobriosa. La infilò nella tasca della vestaglia, da dove emergeva il collo, entrò in camera da letto, si sdraiò sotto le lenzuola, cambiate come sempre il sabato mattina, e rimase in attesa.
Nel salotto un orologio a pendolo scandiva monotono il tempo: erano le nove di sera. Distesi e fermi a letto, contarono anch’essi fino a nove e poi, come si fosse trattato d’un segnale o di una conferma, iniziarono un movimento sincronizzato. La mano destra della signora sollevò lenta il lenzuolo e si portò, con cammino sicuro, sul pene. Era certa di trovare qui la bottiglia. Liscia, dura, enorme. Non appena la toccò fu presa da desid...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il matto inventato